Una delle questioni di stringente attualità e di impegno
anche civile per gli architetti e non solo, riguarda le azioni in grado
di arginare le conseguenze della deliberata o accidentale violenza nei
confronti della città, della intenzionale o involontaria
cancellazione della memoria, fatto collettivo, unitario, che lega
intere comunità al riconoscimento dei propri luoghi.
È ormai un fatto accertato che il tema della ricostruzione,
in una tale condizione, abbia assunto un peso rilevante nello sviluppo
e nella trasformazione dell’ambiente umano. Da una parte la
rapida obsolescenza di alcuni elementi che avrebbero puntellato la
città moderna interviene a confutare la tesi del fallimento
dell’architettura della ricostruzione – nonostante
su questa via si siano spesi molte tra le più importati
figure della cultura architettonica moderna, da Le Corbusier a Perret,
da Hilberseimer a Sharoun, da Gropius a Mies, eccetera – ;
dall’altra la mancanza di una risposta unitaria e condivisa
nelle politiche di ricostruzione anche nelle traumatiche esperienze
delle recenti guerre in Europa, sul fronte balcanico per esempio, che
sul finire degli anni del secolo scorso ha generato un acceso dibattito
circa il movente che ha introdotto nel conflitto modalità
inedite di distruzione deliberate della memoria attraverso
annientamento degli elementi simbolici: il ponte di Mostar o
l’assedio di Sarajevo su tutti.
Se quelle vicende sono ormai relegate alla storia moderna e
contemporanea, nella condizione attuale vi sono altri fattori che
intervengono a sensibilizzare l’attenzione verso la
ricostruzione come tema centrale nel dibattito architettonico.
Perché ricostruzione? È un’azione
fisiologica, che avviene naturalmente dopo un evento traumatico. Le
azioni che causano i traumi sono di origine apparentemente
involontaria, come i rapidi cambiamenti climatici che alcuni sostengono
abbiano relazioni piuttosto dirette con gli eventi catastrofici dovuti
per esempio agli eventi sismici che recentemente per
intensità e frequenza minano costantemente
l’ambiente umano; o azioni deliberatamente volontarie che a
partire dalla crescente instabilità politica ed economica di
sempre più ampie regioni geografiche del Sud e del medio Est
asiatico ha generato scenari dove la distruzione sistematica del
patrimonio architettonico è ormai diventata una triste
realtà.
Tutti questi sono fattori determinanti nel creare una situazione
inedita che invita l’architettura ad interrogarsi nuovamente
sul come operare all’interno dell’ambiente
costruito. Situazione aggravata da quei processi di produzione e di
appropriazione dello spazio che investono la città
contemporanea. Fenomeni come speculazione edilizia e privatizzazione
del suolo sembrano ormai prevalere come unici fattori in grado di
influenzare lo sviluppo urbano. L’evoluzione stessa delle
città si dimostra difatti sempre meno suscettibile di
trasformazioni consapevoli nelle dinamiche contestuali quanto piuttosto
di rimaneggiamenti, di mutazioni autoreferenziali e non condivise, con
presupposti ormai affrancati e indipendenti rispetto a quelle istanze
formali mosse dai caratteri insediativi della struttura urbana di lunga
durata. Da qui la necessità di indagare dei criteri
metodologici in grado di recuperare, nell’ambito dei processi
di ricostruzione, quelle qualità che hanno condizionato come
fattori positivi la vita delle città. Parliamo di
qualità non solo estetiche e formali che la
città, e la sua architettura, è in grado di
offrire, quanto piuttosto elementi di emancipazione sociale, economica,
produttiva, civile verrebbe da dire, in grado di trasmettere
criticamente quell’identità latente contenuta
all’interno degli elementi che compongono la struttura
urbana. Così che, nel costruire una visione futuribile della
città, sarebbe compito dell’architettura
recuperare criticamente sia le caratterizzazioni figurative sia i
principi strutturanti del fenomeno urbano. In questo senso, ricostruire
significherebbe entrare in risonanza con i principi generativi che
hanno condizionato nel tempo la costruzione della città,
instaurando così un rapporto dialettico con tradizione e
modernità.
Questo numero di FAM è riservato a questo tema. La
costruzione di questo tema è avvenuta attraverso una lenta e
paziente ricerca di questioni attuali che ruotano intorno alla
ricostruzione. Episodi e fatti che stanno dentro le recenti vicende che
hanno attraversato gli eventi tragici del sisma della regione irpina
del 1980, dove ancora persistono alcune testimonianze di concretezza e
consistenza scientifica a partire dal confronto tra borgo e
città, Castelnuovo di Conza e Napoli, poste al centro delle
ricerche sulla ricostruzione che ha mobilitato gran parte delle
migliori risorse sul fronte dell’ingegneria e
dell’architettura: storici dell’architettura e
della città, progettisti strutturali e impiantistici,
urbanisti, paesaggisti e architetti. Lucio Barbera racconta questa
straordinaria esperienza di vita e non solo di ricerca operativa:
ricostruzione come atto concreto e risposta tempestiva nelle fasi di
emergenza operativa, tra consolidamento e rispristino, trasformazione e
nuova costruzione, dove le aspettative dell’utenza non sempre
coincidono con le aspirazioni dei progettisti. Eppure le due diverse
prospettive di lavoro tra Borgo e Città, tra centro urbano
metropolitano e villaggio rurale, mostrano come nelle
polarità scalare dei due diversi interventi sia ancora
possibile risalire, non sempre linearmente, dalla sperimentazione
operativa a certi principi e assunti metodologici di approccio
problematico al tema della ricostruzione a partire dalle concrete
ipotesi di lavoro, ammessi alla prova del progetto e della sua
realizzazione e non tanto da una presunta teoresi manualistica che
impone modelli insediativi, condotte e regole solo astrattamente
teorizzati e saltuariamente messe alla verifica della realizzazione.
Su una linea critica dentro il tema della ricostruzione muove il lavoro
di Enrico Bordogna, su casi studio intorno alla questione problematica
del recentissimo sisma in Italia Centrale del 2016. La polemica sulle
nuove attrezzature provvisionali, elargite alla popolazione locale
nell’illusorio tentativo di lenire il dramma della perdita,
hanno mostrato la contraddizione di un modello di intervento che fonda
sul paternalismo (pubblico e privato) una propensione alla ricerca di
consenso più che volontà (o capacità)
di gestione e governo degli effetti dell’evento sismico, non
solo nella fase dell’emergenza ma della ben più
drammatica perdita di identità della comunità
colpita dal sisma. Questa testimonianza nell’esaminare il
tema della ricostruzione punta diritto al cuore della questione
architettonica che pone il problema più volte dibattuto sul
piano sia teorico che operativo nel conflitto tra
l’attitudine al “dov’era,
com’era” e il rischio latente del “falso
storico”. Questione che è affrontata
scientificamente a partire dall’analisi dei casi e delle
esperienze concrete sul campo attraverso la verifica operativa degli
esiti del progetto di architettura. Tentativo di mettere in ordine
un’esperienza autoctona di ricostruzione (che meriterebbe ben
altro spazio che quello qui riservato per questa occasione) che
affronta il problema con tutti i crismi della scientificità
a partire dal confronto critico e dialettico dei tentativi indotti
nella ricostruzione nel terremoto di Messina del 1908, e
successivamente il caso emblematico del Belice del 1968, alle
devastazioni del Fruili del 1976, dell’Irpinia del 1980, fino
ai recenti casi dell’Aquila del 2009, dell’Emilia
Romagna del 2012 e quello più recente, di qualche anno fa
del 2016, che ha riguardato il centro Italia, tra Marche, Lazio, Umbria
e Abruzzo. Qui l’approccio problematico antepone
l’obbligo della verifica architettonica sperimentale, caso
per caso, prima dell’assunzione teorica di precetti astratti,
misurando punto per punto la suscettibilità del progetto di
architettura, l’adeguatezza a condizioni che il contesto
offre alla duttilità della ideazione e alla
perentorietà dell’atto creativo architettonico,
senza alcuna preclusione astratta, confutando, viceversa, nel farsi
dell’architettura le questioni teoriche e operative che il
tema della ricostruzione pone alla pratica del progetto. Su questa
linea sarebbero da intendere le prove fatte per Amatrice che muovono da
suggestioni anche sottili di rapporti tipo-morfologici fino ad
addentrarsi in tentativi di sperimentazione linguistica
nell’adozione di particolari accorgimenti nel trattamento
figurativo degli alzati e nella misura composta dei corpi insediati. Su
questa linea anche il lavoro di Tommaso Brighenti impone una
riflessione unitaria tra atto di ricostruzione e identità
delle comunità attraverso la dislocazione di funzioni
strategiche in grado rivitalizzare un tessuto sociale sfibrato dalle
conseguenze del sisma, sia sul caso di Amatrice che su quello di Norcia
e Camerino. Tessuto ricostruito per ricomposizione di riveduti e
aggiornati specifici programmi funzionali in grado di sostenere non
solo la flebile economia locale attraverso innovativi modelli di
insediamenti produttivi, commerciali, terziari, ma di puntellare
istruzione, esposizione, sport e tempo libero come volano di
emancipazione economica e culturale.
Se nella tradizione europea i casi di Berlino, Dresda, Varsavia, e
altri ancora, hanno fondato un’esperienza di lavoro nota e
molto documentata, vi sono casi altri che sul tema dalla ricostruzione
hanno generato singolari esperienze affatto secondarie a quelle
convenzionalmente documentate dalla letteratura nel periodo
post-guerra. Si tratta del caso lusitano della ricostruzione del Chiado
di Alvaro Siza, a seguito dell’incendio che
nell’agosto del 1988 distrugge alcune parti di
città tra la Baixa e il Bairro Alto. L’esperienza
di Siza dimostra come una ricostruzione critica assuma del testo della
città i più sottili incentivi contestuali,
riscoprendo la ricchezza della stratificazione storica del tessuto
urbano e trasformando questa dotazione nella ri-scoperta di una memora
quasi dissolta nel rigore geometrico della ricostruzione del 1775. La
selezione di inediti strati di città viene esplorata nella
sua ricchezza anche formale nell’articolazione del palinsesto
urbano quasi a decifrare e risollevare attraverso il progetto i tratti
perentori ed essenziali di una complessità altrimenti
perduta.
Le esperienze europee del dopoguerra sul tema della ricostruzione hanno
avuto diversi destini. Il caso di Vienna esplorato da Gundula Rakowitz
è emblematico nel riconoscere come il Planungskonzept Wien
elaborato negli anni 1958-1961 da Roland Rainer sia stato precursore di
iniziative che virtualmente assumevano alcuni dei tratti fondamentali
dei paradigmi della città. Ricostruzione lungo il corso di
una narrazione in grado di decifrare simbolicamente tratti sostanziali
del tessuto urbano, per frammenti, episodi, scampoli di una distruzione
che rinviene una possibile narrazione non in senso cronologico ma
qualitativo, per selezione critica e concettuale del valore anche
iconologico del dato architettonico. Valore in sé
riconosciuto nella programmazione del Stadtentwicklungsplan
Wien STEP 2025, che insiste non solo nelle aree prese in esame da
Rainer, l’area a nord-est del centro cittadino e quella a
sud-ovest, ma assume ma anche la determinazione architettonica e
l’approccio concettuale nell’operatività
del progetto come strumento di attuazione di un disegno dove forma e
struttura intervengono ancora a definire i tratti essenziali del futuro
della città.
Se si dilatasse questa traiettoria che dall’esperienza
italiana porta in Europa, fino in Asia e poi ancora in America, i casi
delle città di Aleppo in Siria e Mosul in Iraq ‒
città diversissime e accomunate solo da un tragico destino
nell’ epilogo della ben nota “Crisi
Siriana”, che ha avuto inizio nel marzo del 2011 ‒ diventano
paradigmatici di cosa rappresenti oggi nel concreto
dell’azione progettuale il tema non solo della ricostruzione,
ma della dignità dell’uomo nella salvaguarda di un
ingente patrimonio dilaniato da un atto di violenza deliberato. Le
città di Aleppo e Mosul si fanno carico di questa frontiera
etica, prima che estetica, del fare architettura, del ricomporre il
senso delle cose degli uomini: le case, la preghiera, il rito, la
cultura, la vita. E in questo percorso la forma della vita come quella
delle cose degli uomini assume un valore rilevante, perché
diventa l’atto che soccorre la comunità a
rianimarsi e riconsiderare il senso della propria esistenza a seguito
di un deliberato e violento annichilimento.
Ma nell’attualità della ricostruzione intervengono
fatti naturali che ciclicamente, recentemente con maggiore frequenza,
colpiscono alcuni luoghi più esposti agli effetti del
cambiamento climatico. Si tratta per esempio di quegli episodi che nel
centro e sud America hanno sollecitato anche la cultura architettonica
a misurarsi con problemi e questioni che fino a poco tempo fa
risultavano essere ad appannaggio esclusivo di altre discipline. Anna
Irene Del Monaco dà conto di questa interessante frontiera
della ricerca sul rapporto tra progetto e ricostruzione, dove la
ricorsività diventa una variabile non secondaria
nell’approccio problematico di questo specifico aspetto del
progetto architettonico, innestando un grado di complessità
maggiore rispetto ai modelli invalsi nella letteratura e nelle pratiche
più accreditate dalla comunità scientifica,
riguardo per esempio il tema della programmazione, prevenzione e
manutenzione dell’intero sistema insediativo, naturale e
artificiale. A partire dall’esperienza del disastro
ambientale ed economico provocato da due uragani successivi abbattutisi
sull’isola di Puerto Rico nel 2017, l’Uragano Irma
e l’Uragano Maria, questa testimonianza documenta una
frontiera di lavoro altra sulla ricostruzione, con l’ impegno
di Martha Kohen della University of Florida con i locali centri di
ricerca che in anni recenti hanno dimostrato come la questione della
ricostruzione sia suscettibile di una visione molto più
ampia e come sia possibile esplorare alcuni aspetti inediti del
paradigma ordinario sull’approccio al tema trattato.
Occorrerebbe qui, a consuntivo di questo itinerario, forse accidentato,
fermarsi ancora un momento e ripensare oggi il ruolo e il senso del
nostro incedere su questo specifico aspetto del nostro lavoro.
Se rimane ancora una seppur flebile traccia di valenza artistica su
questo straordinario tema, il saggio di Bruno Barla Hidalgo ribalta il
punto di vista, da un osservatorio straordinario come la scuola di
Valparaiso in Cile che guarda “letteralmente”
questo mondo al rovescio. Segno e luce come atto creativo dal centro
della terra alla sua superficie, in un processo di
“poiesis” dove l’oggetto
dell’atto creativo è esperito nel suo significato
etimologico più profondo e aderente al fare, al greco
“poieo”: inventare, comporre, creare, anche in
versi. Atto poietico che non ha solo valenza di creazione riesce ad
andare oltre, intrinsecamente legato al generare, alla
generatività, che per sua stessa natura presuppone un
incontro tra almeno due entità, che danno vita ad una terza:
il progetto, un progetto di mondo per Barla, su margini, sul bordo che
dà sul Pacifico di un intero continente.
Allora poiesis assume anche il significato di
“poetare”, trasformare sofferenza – dove
le cose sono devitalizzate e immutabili – in storie nuove,
contesti nuovi, mondi nuovi composti da atti poetici in grado di far
vibrare i sensi, restituire vitalità alle cose, aprire a
mondi altri. In tal modo è possibile cogliere lo slancio
vitale, verso gli altri e verso il mondo che il poeta, o
l’architetto, custodisce e mantiene vivo accanto alla
sofferenza e alle ferite di un evento naturale distruttivo, che si
svela nella sua bellezza, lasciando in chi guarda quel senso di
fascino, di emozione e di meraviglia che si prova guardando il fiore
che cresce e sboccia ai bordi rocciosi dell’oceano.