Ricostruzione e città

Domenico Chizzoniti



Paul Klee

Paul Klee, Fiore sulla roccia, 1940.


Una delle questioni di stringente attualità e di impegno anche civile per gli architetti e non solo, riguarda le azioni in grado di arginare le conseguenze della deliberata o accidentale violenza nei confronti della città, della intenzionale o involontaria cancellazione della memoria, fatto collettivo, unitario, che lega intere comunità al riconoscimento dei propri luoghi. È ormai un fatto accertato che il tema della ricostruzione, in una tale condizione, abbia assunto un peso rilevante nello sviluppo e nella trasformazione dell’ambiente umano. Da una parte la rapida obsolescenza di alcuni elementi che avrebbero puntellato la città moderna interviene a confutare la tesi del fallimento dell’architettura della ricostruzione – nonostante su questa via si siano spesi molte tra le più importati figure della cultura architettonica moderna, da Le Corbusier a Perret, da Hilberseimer a Sharoun, da Gropius a Mies, eccetera – ; dall’altra la mancanza di una risposta unitaria e condivisa nelle politiche di ricostruzione anche nelle traumatiche esperienze delle recenti guerre in Europa, sul fronte balcanico per esempio, che sul finire degli anni del secolo scorso ha generato un acceso dibattito circa il movente che ha introdotto nel conflitto modalità inedite di distruzione deliberate della memoria attraverso annientamento degli elementi simbolici: il ponte di Mostar o l’assedio di Sarajevo su tutti.
Se quelle vicende sono ormai relegate alla storia moderna e contemporanea, nella condizione attuale vi sono altri fattori che intervengono a sensibilizzare l’attenzione verso la ricostruzione come tema centrale nel dibattito architettonico. Perché ricostruzione? È un’azione fisiologica, che avviene naturalmente dopo un evento traumatico. Le azioni che causano i traumi sono di origine apparentemente involontaria, come i rapidi cambiamenti climatici che alcuni sostengono abbiano relazioni piuttosto dirette con gli eventi catastrofici dovuti per esempio agli eventi sismici che recentemente per intensità e frequenza minano costantemente l’ambiente umano; o azioni deliberatamente volontarie che a partire dalla crescente instabilità politica ed economica di sempre più ampie regioni geografiche del Sud e del medio Est asiatico ha generato scenari dove la distruzione sistematica del patrimonio architettonico è ormai diventata una triste realtà.
Tutti questi sono fattori determinanti nel creare una situazione inedita che invita l’architettura ad interrogarsi nuovamente sul come operare all’interno dell’ambiente costruito. Situazione aggravata da quei processi di produzione e di appropriazione dello spazio che investono la città contemporanea. Fenomeni come speculazione edilizia e privatizzazione del suolo sembrano ormai prevalere come unici fattori in grado di influenzare lo sviluppo urbano. L’evoluzione stessa delle città si dimostra difatti sempre meno suscettibile di trasformazioni consapevoli nelle dinamiche contestuali quanto piuttosto di rimaneggiamenti, di mutazioni autoreferenziali e non condivise, con presupposti ormai affrancati e indipendenti rispetto a quelle istanze formali mosse dai caratteri insediativi della struttura urbana di lunga durata. Da qui la necessità di indagare dei criteri metodologici in grado di recuperare, nell’ambito dei processi di ricostruzione, quelle qualità che hanno condizionato come fattori positivi la vita delle città. Parliamo di qualità non solo estetiche e formali che la città, e la sua architettura, è in grado di offrire, quanto piuttosto elementi di emancipazione sociale, economica, produttiva, civile verrebbe da dire, in grado di trasmettere criticamente quell’identità latente contenuta all’interno degli elementi che compongono la struttura urbana. Così che, nel costruire una visione futuribile della città, sarebbe compito dell’architettura recuperare criticamente sia le caratterizzazioni figurative sia i principi strutturanti del fenomeno urbano. In questo senso, ricostruire significherebbe entrare in risonanza con i principi generativi che hanno condizionato nel tempo la costruzione della città, instaurando così un rapporto dialettico con tradizione e modernità.
Questo numero di FAM è riservato a questo tema. La costruzione di questo tema è avvenuta attraverso una lenta e paziente ricerca di questioni attuali che ruotano intorno alla ricostruzione. Episodi e fatti che stanno dentro le recenti vicende che hanno attraversato gli eventi tragici del sisma della regione irpina del 1980, dove ancora persistono alcune testimonianze di concretezza e consistenza scientifica a partire dal confronto tra borgo e città, Castelnuovo di Conza e Napoli, poste al centro delle ricerche sulla ricostruzione che ha mobilitato gran parte delle migliori risorse sul fronte dell’ingegneria e dell’architettura: storici dell’architettura e della città, progettisti strutturali e impiantistici, urbanisti, paesaggisti e architetti. Lucio Barbera racconta questa straordinaria esperienza di vita e non solo di ricerca operativa: ricostruzione come atto concreto e risposta tempestiva nelle fasi di emergenza operativa, tra consolidamento e rispristino, trasformazione e nuova costruzione, dove le aspettative dell’utenza non sempre coincidono con le aspirazioni dei progettisti. Eppure le due diverse prospettive di lavoro tra Borgo e Città, tra centro urbano metropolitano e villaggio rurale, mostrano come nelle polarità scalare dei due diversi interventi sia ancora possibile risalire, non sempre linearmente, dalla sperimentazione operativa a certi principi e assunti metodologici di approccio problematico al tema della ricostruzione a partire dalle concrete ipotesi di lavoro, ammessi alla prova del progetto e della sua realizzazione e non tanto da una presunta teoresi manualistica che impone modelli insediativi, condotte e regole solo astrattamente teorizzati e saltuariamente messe alla verifica della realizzazione.
Su una linea critica dentro il tema della ricostruzione muove il lavoro di Enrico Bordogna, su casi studio intorno alla questione problematica del recentissimo sisma in Italia Centrale del 2016. La polemica sulle nuove attrezzature provvisionali, elargite alla popolazione locale nell’illusorio tentativo di lenire il dramma della perdita, hanno mostrato la contraddizione di un modello di intervento che fonda sul paternalismo (pubblico e privato) una propensione alla ricerca di consenso più che volontà (o capacità) di gestione e governo degli effetti dell’evento sismico, non solo nella fase dell’emergenza ma della ben più drammatica perdita di identità della comunità colpita dal sisma. Questa testimonianza nell’esaminare il tema della ricostruzione punta diritto al cuore della questione architettonica che pone il problema più volte dibattuto sul piano sia teorico che operativo nel conflitto tra l’attitudine al “dov’era, com’era” e il rischio latente del “falso storico”. Questione che è affrontata scientificamente a partire dall’analisi dei casi e delle esperienze concrete sul campo attraverso la verifica operativa degli esiti del progetto di architettura. Tentativo di mettere in ordine un’esperienza autoctona di ricostruzione (che meriterebbe ben altro spazio che quello qui riservato per questa occasione) che affronta il problema con tutti i crismi della scientificità a partire dal confronto critico e dialettico dei tentativi indotti nella ricostruzione nel terremoto di Messina del 1908, e successivamente il caso emblematico del Belice del 1968, alle devastazioni del Fruili del 1976, dell’Irpinia del 1980, fino ai recenti casi dell’Aquila del 2009, dell’Emilia Romagna del 2012 e quello più recente, di qualche anno fa del 2016, che ha riguardato il centro Italia, tra Marche, Lazio, Umbria e Abruzzo. Qui l’approccio problematico antepone l’obbligo della verifica architettonica sperimentale, caso per caso, prima dell’assunzione teorica di precetti astratti, misurando punto per punto la suscettibilità del progetto di architettura, l’adeguatezza a condizioni che il contesto offre alla duttilità della ideazione e alla perentorietà dell’atto creativo architettonico, senza alcuna preclusione astratta, confutando, viceversa, nel farsi dell’architettura le questioni teoriche e operative che il tema della ricostruzione pone alla pratica del progetto. Su questa linea sarebbero da intendere le prove fatte per Amatrice che muovono da suggestioni anche sottili di rapporti tipo-morfologici fino ad addentrarsi in tentativi di sperimentazione linguistica nell’adozione di particolari accorgimenti nel trattamento figurativo degli alzati e nella misura composta dei corpi insediati. Su questa linea anche il lavoro di Tommaso Brighenti impone una riflessione unitaria tra atto di ricostruzione e identità delle comunità attraverso la dislocazione di funzioni strategiche in grado rivitalizzare un tessuto sociale sfibrato dalle conseguenze del sisma, sia sul caso di Amatrice che su quello di Norcia e Camerino. Tessuto ricostruito per ricomposizione di riveduti e aggiornati specifici programmi funzionali in grado di sostenere non solo la flebile economia locale attraverso innovativi modelli di insediamenti produttivi, commerciali, terziari, ma di puntellare istruzione, esposizione, sport e tempo libero come volano di emancipazione economica e culturale.
Se nella tradizione europea i casi di Berlino, Dresda, Varsavia, e altri ancora, hanno fondato un’esperienza di lavoro nota e molto documentata, vi sono casi altri che sul tema dalla ricostruzione hanno generato singolari esperienze affatto secondarie a quelle convenzionalmente documentate dalla letteratura nel periodo post-guerra. Si tratta del caso lusitano della ricostruzione del Chiado di Alvaro Siza, a seguito dell’incendio che nell’agosto del 1988 distrugge alcune parti di città tra la Baixa e il Bairro Alto. L’esperienza di Siza dimostra come una ricostruzione critica assuma del testo della città i più sottili incentivi contestuali, riscoprendo la ricchezza della stratificazione storica del tessuto urbano e trasformando questa dotazione nella ri-scoperta di una memora quasi dissolta nel rigore geometrico della ricostruzione del 1775. La selezione di inediti strati di città viene esplorata nella sua ricchezza anche formale nell’articolazione del palinsesto urbano quasi a decifrare e risollevare attraverso il progetto i tratti perentori ed essenziali di una complessità altrimenti perduta.
Le esperienze europee del dopoguerra sul tema della ricostruzione hanno avuto diversi destini. Il caso di Vienna esplorato da Gundula Rakowitz è emblematico nel riconoscere come il Planungskonzept Wien elaborato negli anni 1958-1961 da Roland Rainer sia stato precursore di iniziative che virtualmente assumevano alcuni dei tratti fondamentali dei paradigmi della città. Ricostruzione lungo il corso di una narrazione in grado di decifrare simbolicamente tratti sostanziali del tessuto urbano, per frammenti, episodi, scampoli di una distruzione che rinviene una possibile narrazione non in senso cronologico ma qualitativo, per selezione critica e concettuale del valore anche iconologico del dato architettonico. Valore in sé riconosciuto nella programmazione del Stadtentwicklungsplan Wien STEP 2025, che insiste non solo nelle aree prese in esame da Rainer, l’area a nord-est del centro cittadino e quella a sud-ovest, ma assume ma anche la determinazione architettonica e l’approccio concettuale nell’operatività del progetto come strumento di attuazione di un disegno dove forma e struttura intervengono ancora a definire i tratti essenziali del futuro della città.
Se si dilatasse questa traiettoria che dall’esperienza italiana porta in Europa, fino in Asia e poi ancora in America, i casi delle città di Aleppo in Siria e Mosul in Iraq ‒ città diversissime e accomunate solo da un tragico destino nell’ epilogo della ben nota “Crisi Siriana”, che ha avuto inizio nel marzo del 2011 ‒ diventano paradigmatici di cosa rappresenti oggi nel concreto dell’azione progettuale il tema non solo della ricostruzione, ma della dignità dell’uomo nella salvaguarda di un ingente patrimonio dilaniato da un atto di violenza deliberato. Le città di Aleppo e Mosul si fanno carico di questa frontiera etica, prima che estetica, del fare architettura, del ricomporre il senso delle cose degli uomini: le case, la preghiera, il rito, la cultura, la vita. E in questo percorso la forma della vita come quella delle cose degli uomini assume un valore rilevante, perché diventa l’atto che soccorre la comunità a rianimarsi e riconsiderare il senso della propria esistenza a seguito di un deliberato e violento annichilimento.
Ma nell’attualità della ricostruzione intervengono fatti naturali che ciclicamente, recentemente con maggiore frequenza, colpiscono alcuni luoghi più esposti agli effetti del cambiamento climatico. Si tratta per esempio di quegli episodi che nel centro e sud America hanno sollecitato anche la cultura architettonica a misurarsi con problemi e questioni che fino a poco tempo fa risultavano essere ad appannaggio esclusivo di altre discipline. Anna Irene Del Monaco dà conto di questa interessante frontiera della ricerca sul rapporto tra progetto e ricostruzione, dove la ricorsività diventa una variabile non secondaria nell’approccio problematico di questo specifico aspetto del progetto architettonico, innestando un grado di complessità maggiore rispetto ai modelli invalsi nella letteratura e nelle pratiche più accreditate dalla comunità scientifica, riguardo per esempio il tema della programmazione, prevenzione e manutenzione dell’intero sistema insediativo, naturale e artificiale. A partire dall’esperienza del disastro ambientale ed economico provocato da due uragani successivi abbattutisi sull’isola di Puerto Rico nel 2017, l’Uragano Irma e l’Uragano Maria, questa testimonianza documenta una frontiera di lavoro altra sulla ricostruzione, con l’ impegno di Martha Kohen della University of Florida con i locali centri di ricerca che in anni recenti hanno dimostrato come la questione della ricostruzione sia suscettibile di una visione molto più ampia e come sia possibile esplorare alcuni aspetti inediti del paradigma ordinario sull’approccio al tema trattato.
Occorrerebbe qui, a consuntivo di questo itinerario, forse accidentato, fermarsi ancora un momento e ripensare oggi il ruolo e il senso del nostro incedere su questo specifico aspetto del nostro lavoro.
Se rimane ancora una seppur flebile traccia di valenza artistica su questo straordinario tema, il saggio di Bruno Barla Hidalgo ribalta il punto di vista, da un osservatorio straordinario come la scuola di Valparaiso in Cile che guarda “letteralmente” questo mondo al rovescio. Segno e luce come atto creativo dal centro della terra alla sua superficie, in un processo di “poiesis” dove l’oggetto dell’atto creativo è esperito nel suo significato etimologico più profondo e aderente al fare, al greco “poieo”: inventare, comporre, creare, anche in versi. Atto poietico che non ha solo valenza di creazione riesce ad andare oltre, intrinsecamente legato al generare, alla generatività, che per sua stessa natura presuppone un incontro tra almeno due entità, che danno vita ad una terza: il progetto, un progetto di mondo per Barla, su margini, sul bordo che dà sul Pacifico di un intero continente.
Allora poiesis assume anche il significato di “poetare”, trasformare sofferenza – dove le cose sono devitalizzate e immutabili – in storie nuove, contesti nuovi, mondi nuovi composti da atti poetici in grado di far vibrare i sensi, restituire vitalità alle cose, aprire a mondi altri. In tal modo è possibile cogliere lo slancio vitale, verso gli altri e verso il mondo che il poeta, o l’architetto, custodisce e mantiene vivo accanto alla sofferenza e alle ferite di un evento naturale distruttivo, che si svela nella sua bellezza, lasciando in chi guarda quel senso di fascino, di emozione e di meraviglia che si prova guardando il fiore che cresce e sboccia ai bordi rocciosi dell’oceano.