Zodiac, da Adriano Olivetti a Guido Canella

Enrico Bordogna



Dopo «Hinterland», personalmente ideata e fondata nel 1977, «Zodiac» è la seconda rivista diretta da Guido Canella, sostanzialmente “rifondata” quando, nell’estate-autunno 1988, Renato Minetto, editore e amico di sempre, gli propose di dirigere la nuova serie della testata olivettiana, che insieme a Bruno Alfieri aveva rilevato dalla casa editrice Comunità, a sua volta precedentemente acquisita, nel 1985, dalla Mondadori di Mario Formenton.
Di questo originario legame olivettiano – esplicitamente dichiarato nel colophon che recita: «Nuova serie. Rivista internazionale d’architettura fondata nel 1957 da Adriano Olivetti. Esce due volte l’anno»– fa fede, accanto a quello di Bruno Alfieri, soprattutto il nome di Renzo Zorzi, braccio destro per le attività culturali della Olivetti, che dopo la morte improvvisa di Adriano nel 1960 aveva assunto la direzione della casa editrice Comunità e della omonima rivista, e in questo ambito anche la direzione degli ultimi numeri della prima serie di «Zodiac» (dal n. 18, novembre 1968). Per volontà unanime, ma soprattutto di Canella, a Zorzi venne chiesto di presiedere il Comitato d’orientamento, del quale furono invitati a far parte alcuni dei più stretti sodali italiani di Canella – Carlo Aymonino, Ignazio Gardella, Aldo Rossi, Gianugo Polesello, Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co – e un gruppo di architetti e storici internazionali, soprattutto grazie ai contatti di Tafuri e Dal Co – Richard Meier, Rafael Moneo, James Stirling, Kurt W. Forster –.
A completare l’assetto redazionale della nuova serie è il nome di Massimo Vignelli, caldeggiato soprattutto da Alfieri, autore della veste grafica sobria ed elegante della rivista, con la scelta
segnaletica della copertina di un denso colore giallo zafferano, identica in prima e quarta di copertina e uniforme da numero a numero, e la gabbia delle pagine interne di ordinata e classica compostezza.
Dal Comitato d’orientamento, per ragioni personali in parte legate alle controversie di allora sulla proposta di Venezia quale sede dell’Esposizione Universale del 2000, uscì Tafuri (dal numero 4, settembre 1990), mentre dal numero 5 (marzo 1991) fu chiamato a farne parte Lionello Puppi.
I primi cinque numeri uscirono in doppio identico volume, rispettivamente in versione italiana e versione inglese, mentre tutti i successivi furono interamente bilingue, con testo inglese a fronte.
Dopo il secondo numero Minetto rilevò la quota della rivista di proprietà di Alfieri, rimanendone l’unico editore e inserendo la testata nella sua casa editrice Abitare Segesta.

Fin qui i dati anagrafici. Ma quale è stato il carattere di questa nuova serie di «Zodiac»?
Nel primo numero, dopo un editoriale di Zorzi che richiama le intenzioni programmatiche esposte da Adriano Olivetti nel numero 1 della prima serie, Canella, al termine di un denso editoriale, espone sinteticamente le ragioni che lo hanno convinto ad accettare di «resuscitare questa gloriosa testata»: non una rivista di tendenza – «poiché, anche per ragioni di età, insieme a coloro ai quali abbiamo chiesto di aiutarci ad orientarla, non riusciremmo a costruire uno schieramento ideologicamente o poeticamente omogeneo» –, ma, afferma Canella, la volontà di «ricondurre la storia alla critica, oggi tanto divagante», di contribuire a «rendere meno precaria e incompetente la committenza dell’architettura […] sempre più condizionata da un ambiguo rapporto pubblico-privato», e soprattutto l’esigenza di «privilegiare il principio di autenticità contro le contraffazioni funzionali e formali del progetto [e] radicare il confronto internazionale nella contestualità di ogni esperienza tipologica e figurativa»[1], obiettivi peraltro sostanzialmente simili, aggiunge Canella, agli intendimenti di trent’anni prima di Adriano Olivetti.
Scorrendo gli indici dei 21 numeri della seconda serie (volutamente tanti quanti quelli della prima serie tra 1957 e 1972 e anch’essi con periodicità semestrale), risalta l’impostazione ricorrente in ogni numero, ciascuno di circa 200 pagine, fedele agli obiettivi programmatici enunciati nell’editoriale di rifondazione: numeri monografici e numeri miscellanei si alternano in misura pressoché equivalente, tutti introdotti da un editoriale di forte impegno teorico, e da uno o più saggi storico-critici, seguiti da una rassegna di progetti e architetture dei protagonisti dell’architettura contemporanea internazionale, selezionati secondo «una discriminante di autenticità»[2] e corredati da una ampia documentazione presentata dagli stessi autori senza alcun commento esterno, nell’idea che opere e progetti parlassero per se stessi, lasciando al lettore il personale giudizio senza alcuna mediazione redazionale se non la scelta della pubblicazione.
I numeri monografici sono a loro volta suddivisibili: alcuni sono dedicati a una specifica tipologia architettonica (teatro, museo, università, palazzo di giustizia), articolati organicamente tra editoriale, saggi di analisi tipologica e realizzazioni o progetti attinenti; altri sono dedicati al rapporto architettura-città e a temi di carattere urbano e insediativo (come il n. 5/1991, Chi disegna la città?, o il n. 13/1995, La diffusione del centro); altri ancora sono ampie monografie contestuali, con saggi e progetti dedicati a specifiche culture architettoniche “regionali” (Latinoamerica, n. 8/1993; California, n. 11/1994; Olanda, n. 18/1998); altri infine sono dedicati a singoli temi specifici, come il restauro in architettura (n. 19/1998), gli architetti vincitori del Premio Pritzker, dall’anno della fondazione al 1994 (n. 12/1995), la generazione degli architetti nati intorno al 1920 (n. 16/1997), con scritti originali di Peter Blake, Dennis Sharp, Alison Smithson e Bruno Zevi, la critica contemporanea di architettura (n. 21/1999).
Il carattere monografico e la corposità di ogni numero (che ne faceva sostanzialmente un libro) erano in parte legati alla periodicità semestrale, necessariamente diversa da quella mensile o bimestrale. Tuttavia ciò corrispondeva anche alla volontà di Canella di fare una rivista “lenta”, sottratta alle voghe del momento, all’ansia della novità dell’ultima ora, o passivamente ridotta a repertorio di aggiornamento di pronto consumo.

È complicato tracciare retrospettivamente una ricostruzione dei contenuti dei singoli numeri e della loro officina redazionale. Un numero certamente di particolare affezione è stato quello dedicato al Laboratorio Latinoamerica, n. 8/1993, redatto in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America. Un numero eccezionale anche per consistenza, oltre 280 pagine, con l’editoriale del direttore e cinque densissimi saggi storico-critici (insieme occupavano le prime 185 pagine del numero) di Mario Sartor, Juan Pedro Posani con Alberto Sato (venezuelani), Jorge Francisco Liernur e Roberto Fernandez (argentini), Sergio Baroni (cubano), con i quali sono stati anche concordati, congiuntamente, autori e opere da pubblicare come più rappresentativi delle singole realtà nazionali, risalendo il continente da sud a nord, dal Cile al Messico. Il numero ebbe il merito indubbio di riportare all’attenzione della cultura italiana la straordinaria ricchezza, nelle sue composite e diversificate tradizioni, della realtà architettonica latinoamericana, affiancando a nomi consolidati, come Oscar Niemeyer, Carlos Raúl Villanueva, Luis Barragán, Rogelio Salmona, Mario Pani e Enrique del Moral, Eladio Dieste, Amancio Williams, Clorindo Testa, esperienze meno conosciute o pubblicizzate ma di straordinaria vitalità e destinate ad essere ampiamente studiate in seguito, come le opere brasiliane di Lina Bo Bardi, le Scuole d’arte cubane di Garatti Gottardi e Porro, o l’esperienza originalissima della Cooperativa Amereida della Città Aperta di Valparaiso, che forse per la prima volta veniva presentata su una pubblicazione italiana. Un numero che additava, secondo l’intenzione di Canella, la ricchissima esperienza del subcontinente latinoamericano come la risposta più convincente alla degenerazione dell’International Style e alle incertezze dell’architettura internazionale contemporanea, ancora capace nel suo insieme di fornire proficui orientamenti e utili termini di confronto alla attuale ricerca progettuale occidentale, europea e nordamericana.
Altrettanto densi i numeri 6/1991, e 7/1992, rispettivamente su Museo e Università, introdotti il primo dall’editoriale Su certe devianze dell’archetipo museale, e il secondo dall’editoriale Università e città, subito seguito da un saggio quasi con funzione complementare di Antonio Acuto Università e territorio. Il numero sul Museo, a indagarne l’assetto tipologico, annoverava anche un lungo saggio di Kurt W. Forster Shrine? Emporium? Theater? Reflections on Two Decades of American Museum Building, e un testo di riflessione critica e poetica di Robert Venturi From Invention to Convention in Architecture di accompagnamento alla Sainsbury Wing della National Gallery di Londra appena ultimata e forse non ancora pubblicata in Italia. Il numero era significativamente concluso dal Monumento al Milite Ignoto a Bagdad realizzato nel 1980-1982 da Marcello D’Olivo, purtroppo scomparso proprio a ridosso della pubblicazione e ricordato con affetto e ammirazione da Canella come «una delle personalità più originali (e forse per questo trascurata) dell’architettura italiana dell’ultimo dopoguerra»[3] .
Tra i temi tipologici l’edificio teatrale occupa certo un posto centrale, non solo perché oggetto monografico del numero 2/1989, ma anche perché, essendo un tema di particolare affezione e studio da parte di Canella, ricorre più e più volte come tema centrale tra le opere pubblicate durante tutta la seconda serie.
Il numero 2, Storie e progetti di teatri, di 223 pagine nel volume in sola versione italiana, presentava due lunghi saggi, di Julius Posener (La costruzione del teatro a Berlino da Gilly a Poelzig) e di Daniel Rabreau (Il teatro-monumento: un secolo di tipologia “alla francese”) sulla tipologia teatrale tra Otto e Novecento in Germania e in Francia, e un saggio “trasversale” di Canella (Teatri e pseudo teatri), di tensione più direttamente e operativamente progettuale, che attingeva ai suoi studi pluriennali sul “sistema teatrale”. A suffragio di questa sezione storico-critica, la documentazione progettuale riportava i quattro progetti di concorso per la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles (Hollein, Böhm, Stirling e Gehry, vincitore), il Lighthouse Theatre di Aldo Rossi e Morris Adjmi sulle rive del Lago di Toronto, il progetto di Canella per un Teatro di tradizione a Taranto inserito nella corte settentrionale dell’ex palazzo degli Uffici comunali (il progetto era corredato da sintetiche immagini di richiamo ai molti pseudoteatri realizzati o progettati da Canella e accompagnato da un affascinante schema di Centro polivalente sull’area dell’ex Fiera del Mare, pensato come polo esterno del futuro sistema teatrale tarantino), ma soprattutto dedicava ampio spazio allo straordinario progetto di ricostruzione del Globe Theatre a Londra di Theo Crosby, completando così lo spettro di indagine tipologica del numero, dal teatro a palchi all’italiana, alla sala “riformata” franco-tedesca (da Soufflot a Schinkel al teatro wagneriano di Bayreuth), alla tradizione di matrice del tutto originale del teatro shakespeariano, alle sperimentazioni sul tema da parte delle avanguardie moderne, al teatro d’opera e alla sala polivalente contemporanei. Nel corso della vita della rivista il progetto di Theo Crosby ebbe la ventura di essere pubblicato nuovamente, questa volta costruito, nel numero 19/1998, dedicato al complesso tema Conservare e ricostruire, con un polemico saggio teorico di Paolo Marconi sulla presunta e improbabile pratica (per l’autore) del ricostruire “dov’era, com’era”, e progetti di ricostruzione (o ampliamento) di storici teatri come appunto il Globe Theatre a Londra, la Fenice a Venezia, di Aldo Rossi, il Liceu a Barcellona, di Ignasi de Solà-Morales, il Palau de la Música Catalana a Barcellona, di Oscar Tusquets.
Occorre dire che tutti i numeri, anche quelli miscellanei, nella loro impostazione specifica riflettono comunque un’esplicita intenzionalità critica, rispetto alle tendenze architettoniche momentaneamente più in auge e alla pubblicistica di architettura più diffusa. Al tema della critica però, e forse non a caso, è dedicato monograficamente l’ultimo della seconda serie, il numero 21/1999, con l’editoriale di Canella La critica di architettura dopo Zevi, e gli impegnati saggi di Carlo Olmo, Jean-Louis Cohen, Ignasi de Solà-Morales, Stanislaus von Moos, Michela Rosso, Francesco Tentori, tutti ruotanti, pur con accentuazioni e punti di vista diversi, intorno all’obiettivo programmatico, enunciato nel primo numero, di riportare operativamente la storia alla critica e al progetto, nel tentativo di ridare fondamento conoscitivo, e non semplicemente agiografico o illustrativo, a una rivista di architettura. Ai saggi seguivano, quasi in forma di affettuoso commiato, opere e progetti di autori amici della rivista, pubblicati più volte nel corso decennale della seconda serie, da Robert Venturi a Clorindo Testa, da Roberto Gabetti e Aimaro Isola a Gustav Peichl, da Luciano Semerani e Gigetta Tamaro a Gottfried Böhm, da Carlo Aymonino a Gianugo Polesello: autori, come si vede, impossibili da raggruppare in «uno schieramento ideologicamente o poeticamente omogeneo»[4] , ma accorpati e confrontabili secondo quella discriminante di autenticità a cui ha sempre cercato di attenersi la rivista. Un criterio, questo dell’autenticità, forse difficile da definire ma che ha consentito, solo per fare un esempio, di pubblicare sullo stesso numero 10/1994, miscellaneo, fianco a fianco le architetture moderniste e d’avanguardia della Vitra a Weil-am-Rhein (con opere di Siza, Zaha Hadid, Tadao Ando), la Max Reinhardt Haus di Peter Eisenman a Berlino, insieme alle opere e alla figura dell’architetto turco Sedad Eldem (con scritti di Eldem stesso, Luciano Semerani, Antonella Gallo, Suha Ozkan), e insieme allo straordinario progetto di Ridolfi e Frankl per il palazzo degli Uffici comunali a Terni, accompagnato da un appassionato commento di Christoph L. Frommel della Biblioteca Hertziana di Roma. Su questo criterio, perché importante nell’impostazione di tutta la rivista, si dilunga Canella nell’editoriale programmatico del primo numero, allorquando instaura un inaspettato parallelo tra personalità apparentemente distanti come Adriano Olivetti, Piero Gobetti e Edoardo Persico, da lui accomunati sotto l’insegna di quel “segreto religioso” a cui tutte e tre queste personalità si riferiscono parlando chi dell’organizzazione di fabbrica, chi dello spirito imprenditoriale di Ford, chi della nuova architettura tedesca a Celle o a Francoforte. Per così concludere testualmente il suo lungo argomentare su questo punto: «Che egli [Adriano Olivetti] nel 1957, come Persico più di vent’anni prima, non si proponesse di sollevare una questione di conformità a favore o contro una data espressione dell’Architettura moderna, ma intendesse instaurare una discriminante di autenticità [corsivo mio], lo può testimoniare la collezione di opere raccolte a Ivrea tra 1934 e 1959, cioè fino a quando poté sovraintenderla personalmente: dalla linearità dei primi all’organicità degli ultimi interventi di Figini e Pollini; dalla vibrante trasparenza della Mensa di Gardella all’espressionismo costruttivista della Scuola materna di Ridolfi. (Con nostro rammarico per l’unica esclusione da lui pretesa – come ci avverte Silvia Danesi –: l’Albergo di transito e soggiorno progettato da Cesare Cattaneo nel 1942)» [5]. Riflessione a cui si può forse aggiungere un riferimento alla longhiana “critica dell’occhio”, altrettanto poco definibile al pari della nozione di “segreto religioso” o di “autenticità” (se non con gli scontati caratteri di rigore, coerenza, originalità, e simili), eppure palesemente indispensabile nel difficile compito dell’attribuzione di valore a opere e autori. Cosicché se, come è stato pur osservato e con qualche fondamento su un quotidiano nazionale da un collega pressoché coetaneo, la rivista era l’espressione di un gruppo di amici, ciò è certamente vero, nel senso di un gruppo di personalità unito non da un qualsivoglia movente corporativo ma da una spiccata propensione alla confrontabilità e soprattutto dalla comune capacità di riconoscere, appunto, il valore di “autenticità” in ricerche e posizioni differenziate e anche tra loro distanti, che non ha mai ambito a ergersi a tendenza poeticamente e ideologicamente omogenea o a coagulo di un generico internazionalismo.
E’ impossibile, lo si è già detto, richiamare qui i contenuti dei singoli numeri. Corre però l’obbligo di ricordare almeno i lucidissimi contributi critici e storici di personalità che hanno onorato la rivista con la loro presenza, come Christof Thoenes (nelle impareggiabili traduzioni di Giuseppe Scattone), Lionello Puppi, Daniel Rabreau, Julius Posener, Christoph L. Frommel, Marina Waisman, Peter Blake, Dennis Sharp, Alison Smithson, Bruno Zevi, George Baird, e tanti altri.
Un discorso a parte meriterebbero poi gli editoriali di Canella che, messi in sequenza, configurerebbero una magnifica monografia di critica e teoria dell’architettura, oggi quanto mai necessaria, con un indice del tipo: Autenticità e falsificazione, oggi; Riflettendo su funzionalità e figurazione; La critica di architettura dopo Zevi; Quella “terza generazione” di Giedion; e via completando con i ventuno editoriali (la cui raccolta in volume, insieme a quelli di «Hinterland», chi scrive ha già avuto modo di auspicare alcuni anni fa [6]).
A chiusura di questa breve rassegna, e a restituire come in un flash il carattere della seconda serie di «Zodiac», vale forse un aneddoto, un rapido e occasionale scambio di battute con Vittorio Savi che all’inizio degli anni Novanta, dopo l’uscita dei primi numeri (forse due o tre), osservava amichevolmente come gli sembrasse un po’ “snob” la nuova impresa editoriale di Canella (che ben conosceva e di cui pochi anni prima aveva curato, con Mario Lupano, una apprezzatissima mostra alla Palazzina dei Giardini di Modena), al quale veniva ribattuto, altrettanto amichevolmente, che “snob” si poteva forse considerare «Hinterland», mentre per la nuova serie di «Zodiac» sarebbe stata più appropriata la qualifica di “mondana”, nel senso di un maggior interesse e curiosità per ricerche e poetiche diversificate.
Ma del rapporto tra «Hinterland» e «Zodiac», e più specificamente del carattere di «Zodiac» nei confronti di altre riviste di architettura più o meno contemporanee, non solo le paludate «Domus» e «Casabella», ma anche quelle più di ricerca e, per così dire, consanguinee, come «Controspazio» o «Phalaris», sarebbe molto interessante parlare, ma eventualmente in altra occasione.




[1] G. Canella, Fondazione e ripresa di una testata, in «Zodiac», n.s., n. 1, primo semestre 1989, pp. 6-10; questa e le precedenti citazioni sono a p. 10.

[2] Ivi, p. 9.

[3] G. Canella, Su certe devianze dell’archetipo museale, in «Zodiac», n.s., n. 6, marzo-agosto 1991, p. 10.

[4] Cfr nota 1.

[5] G. Canella, cfr. nota 1, pp. 8-9.

[6] Cfr. Prefazione al volume di Guido Canella, Architetti italiani nel Novecento, Christian Marinotti, Milano 2010, pp. 10-11.