La mano poetica di Alessandro Anselmi

Alessandro Brunelli




Nella quarta edizione della Storia dell’architettura moderna Kenneth Frampton inserisce il municipio di Rèze-les-Nantes includendo Alessandro Anselmi nell’alveo dei maestri del secondo novecento (Frampton 1993, p. 390). Erano passati dodici anni dal rifiuto dello stesso Frampton a partecipare, in qualità di curatore invitato, alla prima Biennale di architettura del 1980.

Lo storico inglese rinuncia, infatti, alla mostra veneziana etichettandola come postmoderna: «I see the Biennale as a pluralist-cum-postmodernist manifestation. I am not all sure that I subscribe to this position, and I think I will have to keep my distance from it» (Frampton 1980, in Portoghesi 1980, p. 9).

A prendere le distanze dalla stessa Biennale è anche Alessandro Anselmi che partecipa alla mostra di architettura come membro del GRAU: Gruppo Romano Architetti Urbanisti. Come afferma lo stesso Anselmi: «Quando arrivammo a Venezia […]: consideravamo finita l’esperienza cosiddetta della storia per cui incominciammo a rivedere gli anni della nascita del Movimento Moderno» (Anselmi 2000, in D’Anna 2000, p. 48).

Il Gruppo Romano formalmente non si scioglierà mai mentre Alessandro Anselmi, a partire dal 1980, inizierà un percorso solitario celebrato dalle prime mostre personali alla galleria Architettura Arte Moderna di Roma (1980) e all’American Institute of Architects di New York (1986). Le mostre rivelano il talento del disegno anselmiano che descrive una poetica in continua evoluzione; un segno che si allontanerà sempre più dalle ferree geometrie del GRAU per immergersi in una traiettoria anti-classica ed espressionista.

Non a caso, nel 1982, Manfredo Tafuri descrive l’opera in divenire di Alessandro Anselmi con queste parole:

Il ricorso alla storia e alla memoria [...] perde i primitivi tratti enfatici, e si confronta «laicamente» con un serrato gioco di forme chiuse e di distorsioni [...]. Malgrado le comuni origini e vaghe assonanze, fra la poetica di Anselmi e i pastiches del Grau la distanza è divenuta incolmabile (Tafuri 1982, p. 219).

Se il Gruppo Romano continua a costituire il fondamento teorico, e in parte figurativo, della poetica di Anselmi, il disegno è senza dubbio il vero atto creativo alla base di ogni progetto del GRAU e post-GRAU. Attraverso l’arte della mano Alessandro Anselmi affina la sensibilità nel plasmare le qualità figurative delle forme dello spazio che mano a mano divengono architetture sempre più autoriali.

Il disegno anselmiano, giocato su tecniche differenti e sul contrasto luce-ombra della Città Eterna, è un tratto intenso che appare gestuale nella fase di invenzione, e più composto nella fase di rappresentazione. Ma è proprio nello schizzo, nell’atto creativo iniziale, che si rileva la poetica di Anselmi: una poetica in cui le architetture nascono da una profonda lettura del contesto nonostante sperimentino figurazioni eterogenee.

Alessandro Anselmi non solo pratica il disegno come ideazione, sperimentazione e rappresentazione della forma architettonica ma, in qualità di docente e redattore di alcune riviste, riflette sul suo valore attraverso numerosi scritti.

La lezione del disegno anselmiano ha quindi un duplice valore: da una parte le riflessioni teoriche che narrano dell’arte della mano come unico atto necessario per educare il gusto e concepire le qualità formali dell’architettura; dall’altra la pratica dell’Anselmi architetto che rivela lo stretto rapporto tra segno autoriale, ideazione e poetica.

Riflessioni sulla pratica del disegno: dalla formazione del gusto all’idea architettonica

Al Vorlehre della Bauhaus gli allievi acquisivano sensibilità rispetto i problemi formali affinando lo sguardo e praticando il disegno e la modellazione plastica (Argan 1951, pp. 31-84). Sugli stessi principi si fonda la didattica di Alessandro Anselmi: il disegno è la prassi necessaria per formare il gusto personale e per ideare le architetture. Il maestro romano riflette sul valore dell’arte della mano attraverso numerosi testi che appaiono sui programmi didattici, sui libri e sulle riviste[1].

Nei Principi didattici e fondamenti della composizione architettonica Anselmi, in analogia con il Vorlehre della Bauhaus, attribuisce al disegno, oltre alla vista, la funzione di formare il gusto dell’allievo-architetto che doveva allenarsi attraverso le esercitazioni «di composizione visiva […] realizzate […] con tecniche grafiche» (Anselmi 1995, p. 23). Nei Principi viene inoltre esplicitato il primato estetico dell’architettura in quanto parte dell’universo delle altre arti figurative. Per Anselmi l’esercizio del disegno è una pratica fondamentale: è l’atto conoscitivo che aveva da sempre contraddistinto la formazione nelle scuole beaux-art.

come sarà mai possibile immaginare il percorso di costruzione del futuro architetto, la nascita ed il radicarsi in lui delle tecniche di manipolazione della forma senza […] una adeguata sperimentazione […]? Nella scuola accademica il problema veniva affidato all’insegnamento del disegno secondo il principio che considerava la rappresentazione grafica della natura alla base d’ogni ricerca figurativa, quindi anche di quella architettonica (Anselmi 1997c, p. 8).

Nel 1979, tre anni prima del suo primo incarico di docente all’università di Reggio Calabria, Alessandro Anselmi anticipa le stesse tematiche apparse sui testi didattici in un articolo molto raffinato: a scrivere non è l’Anselmi docente ma l’Anselmi redattore di Controspazio (Anselmi 1979, pp. 80-83). Nel saggio l’architetto romano utilizza le parole di Vasari per descrivere come l’attività del disegno sia necessaria per affinare la sensibilità individuale e per dar vita all’idea e alla «maniera».

Il disegno è pensiero e linguaggio, è: «lo strumento più penetrante dell’indagine architettonica […] e non solamente come «design» cioè come sperimentazione e verifica dell’idea architettonica ma piuttosto come strumento dell’idea stessa, come prima tecnica poetica di orientamento in quello spazio buio» (Anselmi 1979, p. 82). Per Alessandro Anselmi il disegno è lontano da ogni concezione illuminista e appartiene all’universo dell’arte contemporanea: è noumeno e fenomeno, è ideazione-sperimentazione-rappresentazione, è l’atto poetico insostituibile della mano nel processo creativo dell’architettura.

È proprio la questione della pratica manuale, cara ad Anselmi, la conditio sine qua non alla base dell’ideazione delle forme dello spazio. Nonostante una prima apertura al mondo del digitale e il riconoscimento dell’efficienza dello strumento elettronico nella definizione del progetto (Anselmi 2000), l’architetto romano torna a riflettere sull’arte della mano come insuperabile strumento di pensiero progettuale in cui «le tracce, figlie del gesto, – sono – testimoni dirette delle emozioni e delle difficoltà di figurazione» (Anselmi 2004b, p. 29).

Nell’epoca della cultura “usa e getta”, in cui il ruolo dell’architetto si avvicina a quello dello stilista costretto a produrre immagini a breve termine, l’«inscindibile unità tra concetto e forma dell’architettura» (Anselmi 2004b, p. 29) non può essere soppiantata dall’elaborazione digitale. La complessità dei progetti anselmiani, concepiti prima dell’avvento della computer grafica, testimonia quanto l’arte del disegno sia stata fondamentale nell’inventare spazialità articolate ma fedeli all’idea iniziale. Il municipio di Rezé-les-Nantes (1985), il terminal di Sotteville-les-Rouen (1993) e l’edificio di Fiumicino (1995), tre architetture manifesto della poetica di Anselmi, ci rivelano come lo spazio costruito non abbia mai tradito il segno ideativo.

La poiesi del segno anselmiano

Dal 1980 in poi, l’attività progettuale di Alessandro Anselmi ha dato vita a numerose architetture caratterizzate da esiti figurativi del tutto differenti. Più che negli alzati, le analogie compositive si rileggono nella giustapposizione di piani e superfici attorno a un vuoto: il vero tratto della poetica anselmiana. Le chiese di Santa Maria delle Grazie a Santomenna (1981) e San Pio da Pietrelcina a Roma (2005), collocate agli estremi della carriera professionale, ne sono un chiaro esempio. Entrambi gli edifici sacri, lontani nella figurazione degli alzati, sono caratterizzati da frammenti curvilinei che determinano le spazialità interne: nella prima due diaframmi verticali si curvano planimetricamente senza mai toccarsi, nella seconda, invece, la copertura diviene un drappo che genera una sequenza di archi in alzato.

Se consideriamo, a questo punto, il linguaggio di Alessandro Anselmi come un problema di plastica secondaria (Pagano 1930, p. 13), o di scrittura degli alzati, l’opera dell’architetto romano sembrerebbe sfuggire a qualunque codice. Ma se instaurassimo invece una corrispondenza tra plastica primaria (Pagano 1930, p. 13) e vuoto, o le superfici (i piani) e lo spazio, ci accorgeremmo che esiste un codice ricorrente. Tale codice trapela ancor di più se si osservano i disegni ideativi dei progetti: la sintesi grafica della poetica di Alessandro Anselmi.

Negli schizzi si riflette inoltre il carattere espressionista dell’architetto romano che, nonostante sperimenti tecniche grafiche eterogenee (pastelli, matite, carboncino, biro), mantiene la stessa gestualità nel tratto impetuoso; un tratto che si arresta per definire un’architettura capace di ricollocarsi (Anselmi 1994, p. 6) e dare ordine al pulviscolo delle conurbazioni contemporanee[2]. Il segno ideativo di Anselmi si origina infatti dal confronto con i luoghi: le tracce dei “contesti esplosi” guidano i futuri segni architettonici così come le venature dei blocchi di Carrara erano capaci di suggerire le sculture michelangiolesche.

Lo schizzo progettuale prende vita dalla rappresentazione del contesto che per Anselmi non è un disegno cartografico, bensì la «presentazione estetica» (Anselmi 1994, p. 7) del luogo decifrabile attraverso la lente delle arti figurative «allo stesso modo di come si vede un’opera di Vedova o Fautrier» (Anselmi 1994, p. 7).

La “necessità dell’archetipo” si è trasformata in bisogno di “analisi del luogo”. Nei miei recenti progetti l’apparente eternità dell’icona sempre più si confonde con la “traccia” che con-forma un sito […]. Ma la “traccia” è, innanzi tutto, “disegno di suolo” pieno delle sue deformazioni e della sua infinita complessità; tuttavia questo “disegno di suolo” appare, ancora una volta, come astrazione geometrica che, trasformando la concreta materialità del recinto catastale (la “verità storica”) in piano o superficie, rende disponibile la “traccia” ad assumere valori iconici (Anselmi 2004a, p. 39).

Le architetture anselmiane, mai composte e cristalline, appaino sempre come geometrie deformate dai segni del contesto (Anselmi 1994, p. 7) e dalla volontà di creare «insiemi paesistici» (Anselmi 1979, p. 82); sia che si tratti di un spazio esterno sia che si tratti di un interno. Una poetica incapace di progettare singole architetture ma solo insiemi di frammenti (piani o superfici) o «piccoli edifici assemblati e incastrati […] in recinti archeologici”» (Anselmi 1997a, p. 62).

Lo schizzo di Anselmi, di indubbio valore figurativo, diviene sempre più espressionista, come le sue architetture, mano a mano che ci si allontana dall’esperienza del GRAU; esperienza in cui il tratto talentuoso anselmiano rimane pur sempre riconoscibile.

Rileggendo i disegni ideativi delle tre architetture citate, gli edifici pubblici per Rezé-les-Nantes (1985), Sotteville-les-Rouen (1993) e Fiumicino (1995), è possibile individuare i tratti della poetica anselmiana. I tre edifici rivelano tre differenti ricerche figurative che variano dal «neo-art-déco» di Rezé (Frampton 1993, p. 390), allo zoomorfismo[3] del terminal di Rouen, fino all’“informale” dell’architettura di Fiumicino.

Se l’immagine finale del municipio francese appare ancora legata a un’abbondanza di segni “decorativi” che ricordano il periodo GRAU, solo a Rouen e Fiumicino le figurazioni divengono ancor più astratte. Al di là delle immagini finali delle tre architetture, gli schizzi al tratto narrano della stessa strategia progettuale: la poetica dei frammenti attorno a un vuoto. A Rezé la torre ellittica e la “maschera” (Anselmi 2004a) di brise-soleil tendono lo spazio verso l’unitè d’habitation; a Rouen la copertura delimita la spazialità principale in cui sono collocati i volumi dei locali commerciali; infine a Fiumicino la superficie si innalza dal suolo generando due corpi distinti e un vuoto pubblico. Gli schizzi anselmiani mostrano inoltre «la voglia […] di contesto e l’impazienza di interloquire» (Tafuri 1982, p. 219) che si riflette nell’immaginare le architetture prima esternamente e poi internamente:

Le mie architetture non sono oggetti – con un interno e un esterno – ma sono come un ponte, tra un fuori e un dentro. Il vuoto permette di progettare le relazioni tra gli elementi che compongono questo vuoto e ragionare sulla qualità fisica di questo vuoto (Anselmi 2004, in Guccione 2004, p. 22).

Anselmi immagina le sue architetture dall’esterno all’interno attraverso visioni umane, o a volo d’uccello, che richiamano i dipinti romani dei maestri Poussin, Cambellotti e Sartorio (Anselmi 2000, p. 67). Dalle vedute paesaggistiche alle sezioni prospettiche in cui esterno e interno si compenetrano, Anselmi indaga le architetture in rapporto al paesaggio. Ma il referente mitico del paesaggio anselmiano è senza dubbio Roma: la città per eccellenza della stratificazione e della contraddizione venturiana che ha influenzato la sua poetica e il tratto grafico.

Gli schizzi di Alessandro Anselmi sono figli di un segno corrotto, un segno che connota le spazialità attraverso un denso contrasto di luci e ombre; quel chiaro-scuro che esalta le modanature barocche della città Eterna.

Ma se la poiesi anselmiana è quell’atto creativo in cui il gesto della mano dà vita al pensiero architettonico, dalla lettura dei luoghi al linguaggio dei frammenti intorno al vuoto, qual è l’energia creatrice alla base di tale processo?

Per Alessandro Anselmi, talento indiscusso della mano, esiste una sola energia vitale alla base di ogni processo creativo: la solitudine.

La solitudine […] è indispensabile all’atto creativo, […] madre di ogni consapevolezza spaziale e di ogni immagine. La solitudine condizione necessaria al difficile reperimento delle informazioni, al nutrimento culturale, al lavoro dialettico che lentamente o all’improvviso conforma le immagini, le rende possibili, le trasforma in codice comunicabile, in progetto (Anselmi 2003, p. 9).

La solitudine, tratto che caratterizza il momento creativo dell’architetto romano, è anche il termine che descrive al meglio la carriera di Alessandro Anselmi: dal percorso solitario rispetto al GRAU, alla celebrazione personale d’oltralpe, fino all’isolamento nel panorama italiano che lo ha estromesso dalla realizzazione di molte opere. Forse l’inerzia della capitale, forse la lontananza dai gangli di potere, Alessandro Anselmi ci lascia poche architetture da vistare ma tantissime da percorre su carta attraverso i segni della mano poetica.

Note

[1] L’attività dell’Anselmi scrittore, e non di teorico come lui stesso afferma, è sicuramente meno nota dell’opera dell’Anselmi architetto ma comunque di notevole interesse per la sua acutezza di forma e contenuti: «Questo mio interesse per le speculazioni teoriche è vero, tuttavia non ho mai avuto la pretesa di una vera sistematizzazione organica di queste mie riflessioni» (Anselmi 2000, in D’Anna 2000, p. 48).

[2] «In altri termini è necessario abituarsi […] a considerare la “forma del luogo” (ormai distinguibile anche nella “non-forma” della tendenza informale) come referente dialettico della “forma architettonica”» (Anselmi 2004, in Guccione 2004, p. 21).

[3] «Il fascino delle sculture statiche di Calder o, anche, la grande scultura di Chicago, così come le atmosfere di alcuni dipinti di Arp e di Miró […]; un immaginario […] di segni con forme d’origine naturale» (Anselmi 1997b, p. 165).