Non sembra inutile tornare a parlare di scuola.
La recente emergenza sanitaria ha segnato un momento di crisi per
l’unità classe che ha costituito, fin dalla prima
metà dell’Ottocento, la dimensione minima
attraverso cui la nostra cultura ha organizzato il processo di
formazione di massa.
L’idea che l’educazione del bambino sia mediata da
una comunità circoscritta che lo accompagna nel suo processo
di apprendimento è stata messa in discussione dalle recenti
prescrizioni di distanziamento sociale.
Ciò riguarda sia l’aspetto pedagogico sia quello
spaziale, proprio dell’architettura.
A questa crisi è parso potesse offrire una risposta la
città, secondo un’idea di scambio tra scuola e
città che arriva dalle migliori esperienze degli anni
Sessanta e Settanta. Ma anche questa ipotesi, che in prospettiva
è sembrata la più ragionevole e capace di
ripensare in profondità i limiti attuali della scuola
italiana, è evaporata, confusa tra innumerevoli soluzioni
bizzarre e fantasiose, e ha dovuto retrocedere di fronte
all’inerzia didattica e spaziale di una istituzione formativa
poco dinamica.
Ora, superata la fase delle risposte contingenti, mirate a garantire il
rientro in aula degli alunni, è tempo di provare a
riprendere l’argomento secondo un approccio insieme critico e
scientifico, tentando di sciogliere con pazienza la
complessità di un’attività naturalmente
soggetta a differenti polarizzazioni disciplinari e ideologiche.
Soprattutto pare necessario evitare la scorciatoia dei proclami e dei
luoghi comuni, anche se a trazione progressiva.
Che niente sarà più come prima, come in coro
continuiamo a ripeterci, vale come atto di fede o formula apotropaica e
niente altro.
I tempi dell’architettura non sono quelli delle pandemie e
nemmeno quelli della pedagogia, che a loro volta nemmeno corrispondono
ai tempi del linguaggio. E i tempi dell’architettura non sono
i tempi della città.
Quindi ogni società, che ha a cura la formazione delle nuove
generazioni, deve sforzarsi di raccordare periodicamente questi ambiti,
evitando irrigidimenti scientifici.
Si è pertanto deciso di impostare questo numero
attraverso tre linee di approfondimento, che più di altre
è sembrato importante provare ad affrontare in parallelo: la
pedagogia, il linguaggio e la società, individuando tre
ambiti di per sé autonomi, ma anche certamente dipendenti
nella costruzione degli spazi dell’apprendimento e nel
vissuto quotidiano di coloro che li frequentano, a partire dai bambini.
Pedagogia perché è più che mai
evidente come solo un rapporto virtuoso tra pedagogia e architettura
possa dar forma a spazi per l’apprendimento in cui
l’ambiente stesso sia esso “educatore” e
l’architettura sia capace di favorire la dimensione narrativa
dell’esperienza didattica, diventi luogo di vita, di
incontri, di relazioni e di apprendimenti.
Linguaggio perché se – con Loris Malaguzzi
– «l’ambiente è determinante rispetto
alle acquisizioni di carattere affettivo, cognitivo e
linguistico», mai come ora, in una società
complessa e plurale, la codificazione o ricodificazione di un codice
linguistico comune di apprendimento, sia esso spaziale o strettamente
verbale, pare mostrare implicite seppur profonde relazioni tra il
vocabolario progettuale impiegato per le scuole e il linguaggio
verbale, soggetto esso stesso a continue modificazioni in ragione dei
cambiamenti culturali e sociali.
Società perché l’ideale obiettivo di
una società educante che si faccia carico, insieme e oltre
la scuola, dell’educazione del bambino trova il suo naturale
contraltare nella sempre più pressante richiesta, da parte
della società, di bambini – e dunque futuri
cittadini adulti – capaci di agire in modo responsabile,
creativo, innovativo ed efficace, individui in grado di acquisire nuove
competenze in un processo di educazione permanente.
Sullo sfondo sempre le ragioni dell’architettura,
perché questo è un giornale di architettura e
perché si ritiene che un efficace punto di vista potrebbe
essere offerto a pedagogisti, educatori e amministratori proprio a
partire dalle esperienze di alcuni architetti, che più di
altri hanno saputo imprimere al tema scolastico una curvatura di volta
in volta civile, simbolica, figurativa, a partire proprio dalla
capacità educativa dello spazio, dal suo valore sociale,
dalla profonda attenzione per quelle intuizioni ancestrali che il
bambino, prima ancora dell’adulto, sviluppa nei confronti del
mondo in cui vive.
I saggi che seguono, che nell’iniziale idea dei
curatori avrebbero dovuto afferire ciascuno a una delle tre linee di
approfondimento proposte, dimostrano in realtà come il
ragionamento svolto non possa venir facilmente incasellato o
imbrigliato in categorie precostituite e come, proprio per questo, ogni
autore operi continue incursioni di campo, spinto dalla
necessità di costruirsi le condizioni per un ragionamento
complesso che chiarisca la molteplicità degli elementi in
gioco quando si parla di scuola e di edifici scolastici.
Ciò risulta evidente sin dalle tre interviste – a
cura rispettivamente di Riccardo Rapparini, dei curatori del presente
numero e di Micaela Bordin –, che avrebbero dovuto
rispettivamente aprire le tre sezioni e che invece, in sede di
redazione finale, è sembrato più efficace tenere
insieme.
Nella prima, Beate Weyland introduce il grande tema del rapporto tra
pedagogia e architettura, sottolineando la necessità di
costruire modalità di scambio tra le diverse discipline
capaci di produrre (maieuticamente) processi virtuosi di progettazione,
a partire dalla costruzione di un linguaggio comune: «Nel
libro Progettare scuole tra pedagogia e architettura scritto insieme a
Sandy Attia e pubblicato nel 2015 abbiamo voluto indicare cinque parole
chiave all’incrocio tra pedagogia e architettura, che vengono
interpretate spesso diversamente dai due mondi e che possono fare
comprendere meglio come sia necessario creare un linguaggio in comune.
Forma, spazio, flessibilità, bellezza, innovazione, sono
termini molto utilizzati sia in ambito pedagogico che architettonico,
soprattutto quando si tratta di progetti di scuole. Ma quale
significato hanno per il mondo della scuola e quale per i
progettisti?».
Nella seconda intervista Silvana Loiero riflette in termini strutturali
sulla funzione quanto mai determinante del linguaggio nella costruzione
(del pensiero) del e sul mondo e come, in relazione a questo, sia
necessario «parlare dell’ambiente di apprendimento
in senso più ampio, non soltanto come ambiente fisico ma
anche come “spazio d’azione” culturale e
mentale, in cui avvengono interazioni e scambi tra allievi, oggetti del
sapere, strumenti culturali e tecnici, insegnanti, e si ha modo di fare
esperienze significative sul piano cognitivo, affettivo-emotivo,
interpersonale e sociale».
Infine, nella terza e ultima intervista, Marco Rossi Doria amplia lo
sguardo e mostra la necessità di eleggere la
città e i suoi spazi a luogo privilegiato
dell’apprendimento democratico proprio a partire da
ciò che di più profondo la scuola stessa
rappresenta per la società: «Dal punto di vista
della “città”, la
“scuola” è un presidio
dell’unità emotiva oltre che etica, userei
addirittura l’aggettivo “repubblicana”
della città, cioè è il presidio della
Repubblica nei quartieri della città. Questo è un
indirizzo che sta a monte di tutto. È questa è la
prima cosa».
È chiaro, dunque, che riflettendo su tali premesse, il
tentativo di queste brevi note introduttive non possa essere che quello
di riconoscere convergenze tra ambiti apparentemente distanti,
individuando analogie e facendo emergere riflessioni comuni, che il
lettore dei saggi che compongono il numero sarà a sua volta
libero di riorganizzare secondo altri criteri e differenti categorie.
L’analisi di questioni di carattere generale, come
il rapporto tra pedagogia e architettura in Italia a partire dal
secondo Dopoguerra, è affrontata da Claudia Tinazzi, nel cui
saggio si legge la volontà di guardare alle recenti
realizzazioni italiane alla luce della tradizione del Novecento per
ricostruire il filo che lega tale tradizione culturale alle esperienze
contemporanee del “caso Alto Adige”. Per
l’autrice, infatti, solo all’interno di questo
ampio affresco è infatti possibile comprendere
l’eccezionalità di tale unicum del panorama
italiano e i motivi per cui il tentativo di esportazione di tale
modello «ha generato fino ad oggi un interessante processo di
contagio metodologico […] i cui esiti finali, a volte
incerti, ci interrogano […]
sull’impossibilità […] di affidare
solamente al processo concorsuale e alla formazione “su
misura” del corpo insegnante lo sviluppo di trasformazione
del nostro sistema scolastico», suggerendo piuttosto un tempo
lento ma necessario «per ridare spazio e corpo alla
scuola».
Tempo lento a cui si riferiscono anche altri autori per i quali
è la città il punto di vista privilegiato
attraverso cui guardare allo specifico scolastico. Il saggio di Anna
Irene Del Monaco ripercorre l’esperienza romana
dell’edilizia scolastica e universitaria dalla fine
dell’Ottocento agli anni Settanta, sottolineando lo stretto
legame tra i progetti analizzati e la città, intesa quale
imprescindibile sfondo conoscitivo e ambito culturale di confronto per
la definizione – anche linguistica – dei singoli
interventi. Riferendosi infatti al primo decennio del XX secolo, Ciro
Cicconcelli, uno dei protagonisti di quell’esperienza di
rinnovamento degli studi sull’edilizia scolastica, lamenta
come ancora non vi fosse «un livello qualificato di studi
sull’edilizia scolastica e che il principale riferimento
fossero ancora chiese e caserme, rispettivamente elaborate sulla base
della tradizione inglese e di quella tedesca» e che
«se in fatto di urbanistica esistono alcuni principi
generali, non ve n’è nessuno per quel che riguarda
il dimensionamento delle scuole e la distribuzione di queste nella
trama cittadina. Si costruiscono edifici scolastici senza accorgersi
dell’importanza che essi hanno per l’organismo
urbano e senza vederne chiaramente gli aspetti economici, pedagogici e
sociali inquadrati nella stessa vita della
comunità».
Spostandoci a Torino, Caterina Barioglio e Daniele Campobenedetto
presentano alcune sperimentazioni tipologiche condotte a partire dagli
anni Settanta attraverso gli edifici scolastici a servizio delle aree
di espansione residenziale costruite a seguito della legge n.167 del
1962 e sviluppate attraverso i Piani di Edilizia Economica. Gli autori
analizzano la questione della ricerca di modelli reiterabili come
possibile soluzione al problema dell’edilizia scolastica, ma
anche sottolineando come «le pratiche d’uso
contemporaneo di questi edifici riflettono lo scollamento tra gli
strumenti – distributivi, costruttivi, normativi –
messi in campo da progettisti e amministratori e le sollecitazioni a
cui l’infrastruttura scolastica è sottoposta dalla
trasformazione della città e delle culture
didattiche». Questo scollamento degli usi, rispetto ai
modelli didattici e alle politiche originarie apre secondo gli autori
alla necessità di narrazioni capaci di ricomporne la
complessità, sfruttando appieno il «potenziale di
trasformazione di una infrastruttura capillarmente distribuita sul
territorio comunale».
Seppur con un taglio differente, su temi analoghi si interroga
Annalucia D’Erchia, analizzando la figura di Arrigo
Arrighetti e i numerosi progetti di scuole sviluppati in
qualità di Dirigente dell’Ufficio Tecnico del
Comune di Milano: «Si tratta di strutture non concluse,
dominate da schemi crescenti secondo modelli che dispongono elementi
costanti, riconoscibili, familiari e alternano parti flessibili a parti
che non lo sono, parti dedicate più specificatamente
all’educazione dei discenti e parti con vocazione collettiva
e pubblica, alcune delle quali, aperte anche alla città
[…] È proprio in queste esperienze, quindi, che
si sviluppa la sensibilità specificità della
relazione che intercorre tra la scuola e la città, tanto dal
punto di vista del ruolo sociale che assume quanto nel disegno urbano
che definisce».
A cavallo tra architettura, società e pedagogia, Francesca
Serrazanetti racconta la vicenda dello studio di Giancarlo Mazzanti e
del forte impatto sulle periferie colombiane dei suoi progetti, capaci
di “agire” in senso performativo sullo spazio che
definiscono e sulla comunità che lo abita. Chiarendo le
modalità e le ragioni dei “giochi”
associativi e compositivi messi in atto nei progetti
dell’Equipo Mazzanti, l’autrice mostra come
«andando oltre la fisicità del progetto e la sua
esecuzione formale, l’architettura svolge un ruolo guida
nella trasformazione della città e nella costruzione della
cittadinanza. Nella metodologia progettuale di Giancarlo Mazzanti, lo
spazio architettonico diviene, possiamo affermare, un meccanismo di
apprendimento in sé».
Comunità – come quelle su cui
“agisce” il lavoro dell’Equipo Mazzanti
– è anche la parola chiave per leggere il lavoro
di Hassan Fathy, la dimensione necessaria affinché
attraverso un’idea di cooperazione e di autocostruzione si
possa immaginare una struttura economica e sociale più
giusta. Scrive Viola Bertini: «Formare gli abitanti,
insegnare tecniche costruttive tradizionali, rivitalizzare
l’artigianato locale attraverso scuole artigianali,
incoraggiare la spontaneità nel campo delle arti applicate
sono azioni che assumono dunque un profondo significato sociale e
culturale. Sociale perché si immagina un possibile modello
di sviluppo che, sebbene a tratti lontano dal reale, rivendica per
l’architettura un valore civile. Culturale perché,
tramandando alle nuove generazioni saperi antichi, si prova a costruire
una rinnovata identità».
A partire da temi analoghi – tanto che il suo saggio si apre
con una lunga citazione Hassan Fathy – Camillo Magni analizza
il contesto culturale, sociale e architettonico di alcune esperienze
particolarmente significative nell’ambito dei processi di
Cooperazione Internazionale nei Paesi del Global South. Guardando a
tali processi con sguardo politicamente critico, interessato a
individuare le differenze tra pratiche “coloniali”
e interventi capaci di promuovere lo sviluppo delle comunità
locali attraverso l’architettura e in particolare attraverso
la costruzione di edifici scolastici, Camillo Magni afferma:
«Osservando gli edifici scolastici realizzati
nell’ultimo decennio nell’ambito della cooperazione
internazionale […] si può riscontrare, nonostante
l’eterogeneità dei luoghi e dei professionisti,
una comune matrice progettuale capace di coniugare linguaggi
contemporanei ed atmosfere vernacolari. […] In forma un
po’ caotica questi progetti dimostrano una disinibita
modalità di attingere a repertori formali molto distinti,
attraverso i quali coniugare culture diverse […]. Il
positivismo che sosteneva il Movimento […] lascia qui spazio
ad un procedere pragmatico di chi si pone l’obiettivo di
risolvere problemi concreti attraverso l’architettura e che
non ha timore a contaminare il progetto per accoglierne tutte le sue
contraddizioni».
Il ruolo transitivo che hanno gli organismi scolastici
dell’architetto egiziano Hassan Fathy, dell’Equipo
Mazzanti o delle realizzazioni della Cooperazione Internazionale nei
Paesi del Global South nei confronti del loro ambiente sociale,
è anche quello prototipi didattici di Guido Canella, da cui
prende le mosse Tommaso Brighenti nel suo saggio. Questi prototipi,
infatti, che hanno la loro origine negli esperimenti sulla scuola
primaria portati avanti nel corso di Ernesto Nathan Rogers di cui
Canella era assistente e che troveranno negli anni del sistema teatrale
milanese la loro maturità, sono, usando la definizione di
Canella stesso, veri e propri embrioni formali, nei quali si fa
più «incisivo il dettato della
società». Insomma, organismi che
programmaticamente congelano la declinazione linguistica, materica,
stilistica al fine di «arrivare ad una scelta
“conoscitivamente fondata”, in cui lo studente
poteva ‘assecondare, fino a vincolare, il rispetto, di un
preciso programma e di una decisiva trasformazione’,
pervenendo ad una sintesi coerente alla sua logica formale o
costruttiva».
Il tema della sperimentazione sul linguaggio e dei processi compositivi
che ne determinano i modi di formulazione viene invece approfondito dal
saggio di Elvio Manganaro in termini speculativi e figurativi sul filo
dell’astrazione geometrica come strumento, che in
sé si dimostra – almeno per la
modernità – intrinsecamente pedagogico, sebbene
– nota l’autore – «è
come se il processo combinatorio di tipo linguistico, ovvero
l’insistenza sulle possibilità configurazionali di
un linguaggio ridotto a pochi segni elementari il cui senso risiede nel
mondo, avesse reciso il portato mistico
dell’astrazione».
E se il concetto di spazio come “terzo educatore”
permea molti dei saggi del numero in oggetto, esso è
certamente un tema centrale che accomuna trasversalmente le riflessioni
sullo stato dell’arte dell’edilizia scolastica
italiana di Claudia Tinazzi, la sottile disanima dei progetti de
l’Equipo Mazzanti condotta da Francesca Serrazanetti, come
anche in senso lato la narrazione di Lucia Pennati
dell’esperienza di Dolf Schnebli a Locarno e della
particolare relazione tra una visione progressista
dell’educazione e il progetto di spazi ad essa deputati,
rispetto ai quali la capacità pedagogica
dell’architettura e dell’arte trovano espressione
concreta: «l’architetto […] assume un
ruolo attivo progettando un ambiente educativo flessibile e
antiautoritario, che dalla sua composizione fino al singolo dettaglio,
fornisce strumenti di didattica e autodidattica. L’ambiente
educativo prepara il bambino a far parte di una nuova
società e la funzione formativa dell’architettura
non è svolta esclusivamente dalla distribuzione spaziale o
dalle scelte tecnologiche, ma anche attraverso la presenza di numerose
opere d’arte».
A partire da simili considerazioni, il saggio di Francesca Belloni
riflette sulla relazione tra istanze pedagogiche e conformazione
spaziale degli spazi dell’educazione a partire
dall’esperienza di Le Corbusier a Marsiglia per analizzare
alcune realizzazioni contemporanee del panorama europeo, individuando
schemi tipologici e distributivi ricorrenti in cui la
capacità dell’architettura di organizzare spazi si
dimostra prezioso strumento pedagogico, pur mantenendo i suoi precisi
caratteri disciplinari: «Ciò significa ritornare
in qualche modo alle origini del discorso architettonico per
distinguere tra principi insediativi, variazioni tipologiche e
qualità spaziali in relazione ai modi di vita e ai loro
caratteri. Tutto questo attraverso alcuni casi, non necessariamente
esemplari, ma certamente indicativi delle possibilità
implicite nella disciplina».
Dal medesimo punto di vista pare prendere le mosse la disanima di
Andrea Ronzino del progetto di Alison e Peter Smithson per
l’estensione dell’università di
Sheffield; apparentemente distante per il tema proposto, in
realtà la puntuale analisi del progetto mostra come
l’architettura pensata dagli Smithson introduca dispositivi
organizzativi, distributivi e linguistici pensati in relazione
all’uso scolastico e alla formazione che esso incarna e in
qualche modo deve essere in grado di promuovere, producendo uno spazio
in between, cioè di volta in volta aperto
all’interpretazione: «Lo spazio tra, aperto e
fluido che […] può essere riconosciuto nella
virtuosa tensione tra disegno e parola sembra rappresentare un
‘campo d’azione’ entro cui si
è chiamati a muoversi, per decodificare e interpretare il
linguaggio dell’architettura di Alison e Peter Smithson. Uno
‘spazio’ sospeso – ma sempre e per sempre
disponibile – in between».
Pur nella differenza di interpretazioni e nella diversità dei temi trattati, ciò che preme sottolineare è che ogni singolo saggio e le reciproche interrelazioni all’interno delle tre sezioni e tra le sezioni stesse mostrano come in questo numero dedicato alle architetture della scuola lo sguardo storico, quello progettuale e quello critico si sovrappongano e si intreccino a delineare un quadro composito che trae alimento da numerose fonti e – proprio perché si tratta di un giornale di architettura – tenta di mostrare i mezzi – siano essi scelte tipologiche, declinazioni linguistiche, elementi costruttivi, teorie, parole o disegni – attraverso cui lo spazio possa divenire “terzo educatore”.