L’architettura della scuola nei Paesi del Sud del Mondo. Opportunità e sperimentazioni all’interno dei processi di Cooperazione Internazionale

Camillo Magni




In molti ritengono che progettare nell’ambito della cooperazione internazionale, nei contesti del “Sud del Mondo” (il Global South) sia riconducibile unicamente a valori umanitari e sociali. Visione miope e limitata. È necessario praticare un grande sforzo per sottrarsi al «logoramento retorico che accompagna i modi nei quali questi luoghi vengono descritti, analizzati, vissuti e, soprattutto, comunicati dai media. Per gli architetti che lavorano nei diversi Paesi del Global South dei quali non è semplice conoscere sia le condizioni presenti sia il passato, le tradizioni e le culture, da ogni punto di vista la retorica è un serio pericolo. Lo è, in particolare, quando l’architettura se ne serve per dar prova della propria capacità di aderire alla celebrazione dell’altro, trasformando la diversità in simulacro, in un artificio retorico per l’appunto»[1].

Ma se questo è il pericolo, quale antidoto si può mettere in campo? Una strada per iniziare a metterlo a punto, forse, dovrebbe partire dallo studio dei luoghi, dei processi e dei contesti nei quali si opera con l’obiettivo di comprendere quali siano le opportunità, le ricorrenze e le sfide progettuali più significative all’interno di un processo per sua natura complicato e contraddittorio che vede nell’architettura uno dei mezzi privilegiati per promuovere lo sviluppo delle comunità locali. L’obiettivo è dissipare la retorica per apprendere quali siano le implicazioni più significative per chi opera nei contesti del Sud del Mondo. Al tempo stesso, come architetti, l’obiettivo è interrogarci sul valore dell’architettura rispetto questi luoghi e su quali siano le conseguenze del nostro operato, quali siano le opportunità e quali le sfide che questi progetti offrono alla riflessione disciplinare.

Nelle righe che seguiranno proverò a concentrare l’attenzione su una specifica tipologia edilizia che caratterizza un grande numero di progetti realizzati nella cornice delle Cooperazione Internazionale: l’architettura per la scuola. Proverò ad argomentare i motivi di questa scelta evidenziando gli aspetti più innovativi e significativi che le recenti costruzioni scolastiche hanno messo in evidenza.

Architettura vs sviluppo locale

L’obiettivo principale per ogni azione promossa dalla Cooperazione Internazionale è lo sviluppo delle comunità beneficiarie. Per tale ragione la prima domanda da porsi riguarda il tipo di sviluppo che una architettura è in grado di promuovere. Per rispondere a questa domanda è necessario ponderare, con arguta onestà intellettuale, le differenze tra promotori e beneficiari, misurare le rivelanti difficoltà economiche e sociali e considerare i differenti punti di vista. Quando si costruisce una scuola in un contesto informale o remoto, quale idea di sviluppo si sta promuovendo per le comunità locali?

Questo tema caratterizza un dibatto aperto e in continua evoluzione che da circa settant’anni coinvolge operatori e politici internazionali e che ha coinvolto anche gli architetti a partire dal CIAM del 1956 di Dubrovnick[2] quando il tema della decolonizzazione e della “modernizzazione” delle città d’Africa è diventato centrale.

«Pensiamo, per esempio, agli architetti portoghesi e alle esperienze, loro precluse in patria durante gli anni della dittatura tra il 1926 e il 1974, compiute in Angola e Mozambico; oppure all’opera di Otto Königsberger che, dopo aver lasciato la Germania nazista, studiò a Il Cairo, lavorò in India e poi diresse il Department of Tropical Architecture all’Architectural Association di Londra, o a personaggi quali Maxwell Fry, Jane Drew ed Ernst May, il progettista delle Siedlungen di Francoforte» (AA.VV. 2020). Fra i molti altri architetti che si potrebbero citare è di particolare interesse tornare alle parole dell’architetto egiziano Hassan Fathy che in una lettera[3] del 1963 indirizzata a Gamal Abdel Nasser, Presidente del suo Paese, rivendica con toni straordinariamente attuali il valore dell’architettura quale strumento per promuovere lo sviluppo delle comunità.

Più di mezzo secolo è trascorso dal momento in cui Fathy scrisse a Nasser. Sarebbe opportuno tenerlo presente leggendo le sue pagine, così amare nell’affrontare il tema della “città africana” e dello sviluppo postcoloniale.

«Mi perdoni, Eccellenza, se sono uscito dal mio campo, l’architettura, e sono entrato in quello della politica. Se l’ho fatto è perché lo sviluppo è intimamente legato alla politica e perché è mia ferma convinzione che le sfide per l’Egitto rurale sono identiche a quelle di fronte alle quali si trovano le altre parti del mondo in Asia e America Latina. […] Attualmente non vi sono città nel nostro continente che possano dirsi africane nel vero senso della parola, mentre invece vi sono città europee localizzate in Africa [...]. Le case nubiane e le moschee sono molto più belle e architettonicamente più armoniose di ogni complesso residenziale costruito da qualsiasi governo od organizzazione internazionale del mondo [...]. Lo stato miserevole della gran parte dei villaggi egiziani è dovuto alla ignoranza diffusa e alla povertà che affligge le costruzioni nelle campagne, prodotte dal sistema feudale della proprietà fondiaria e non ha nulla a che vedere col fatto che le costruzioni siano realizzate con mattoni di terra o in cemento armato. [...] il declino dei metodi costruttivi tradizionali, che rendevano facile per molti costruirsi una casa e nel mentre garantivo la conservazione dei valori artistici antichi. La diffusa imposizione degli stili e dei metodi di costruzione occidentali nelle campagne egiziane, quale prerequisito dello sviluppo, ha portato all’estinzione delle vecchie tecniche prima che nuove capacità ne prendessero il posto. Molti pianificatori e architetti considerano la costruzione più veloce possibile di città e villaggi come un male necessario. Per portare questo approccio alla sua logica conclusione, immaginiamo che si possano approntare nel volgere di una notte villaggi e città già pronti da offrire alla popolazione. Sarebbe la peggiore cosa che potremmo fare per loro: distruggeremmo la cultura e la civiltà che derivano dalla mobilitazione dell’inventiva, della creatività e dal sapere artigianale delle popolazioni locali. Costruendo cose la gente costruisce il sentimento di sé: forgiare un cittadino dotato di competenze e capace di costruire è più importante che erigere un edificio».

Queste parole, a distanza di settant’anni, toccano le corde del problema più avverso: come fa un’architettura a promuovere lo sviluppo dei suoi abitanti?

Come fa una scuola, nel nostro caso, a generare una crescita che coinvolga, non solo gli studenti che la frequentano, ma anche gli abitanti che vi abitano?

La rilevanza della funzione scolastica: identità e valore civico

Al netto delle molte retoriche, negli ultimi anni è possibile riscontrare un innegabile interesse nei riguardi dell'architettura realizzata nel "Sud del Mondo". Interesse confermato da un vorticoso dibattito critico disciplinare che trova uno dei momenti più significativi nella 15° Biennale di Venezia del 2016 “Reporting from the Front” a cura di Alejandro Aravena[4]. Le ragioni di tale interesse sono da imputare a diversi fattori, tra cui l'originalità delle soluzioni adottate, frutto di una ricerca dove è la cultura del progetto a trovare le risposte più che una assoluta fiducia nella tecnologia, la libertà di espressione, dove i vincoli al progetto sono parte dell'ambito disciplinare in cui si opera, più che un sistema di norme spesso anacronistiche, oltre a una sorta di ricerca di senso della professione dell'architetto che trova in questi luoghi un immediato riscontro in termini si sostenibilità sociale. Prospera l’idea che i progetti realizzati in questi contesti contengano aspetti di rilevanza per tutta la comunità degli architetti. Fra questi la funzione scolastica riveste un ruolo di primordine, rappresenta l’edificio più importante promosso dalla cooperazione internazionale. Figure come Francis Kere[5], ad esempio, hanno costruito la propria notorietà a partire da un’attenta produzione di scuole che nelle diverse forme hanno sviscerato molteplici declinazioni tipologiche.

Le ragioni di questo protagonismo sono riconducibili a diversi fattori. Innanzitutto, gli aspetti finanziari: sia i grandi attori internazionali, sia le più piccole ed indipendenti associazioni di volontariato, vedono (con lungimiranza) nei progetti educativi uno dei settori primari per la promozione dello sviluppo locale. Questo approccio ha fatto confluire ingenti risorse economiche di diversa natura all’interno di progetti educativi che hanno consentito tra le altre cose la realizzazione di molteplici edifici scolastici. Questa crescente domanda ha coinvolto sia architetti locali che internazionali favorendo una fiorente riflessione disciplinare intorno a questa specifica tipologia edilizia.

Una seconda ragione può essere ricercata nel valore simbolico che la scuola riveste: in molti casi l’edificio educativo assume un significato che travalica gli usi funzionali. Spesso gli edifici sorgono all’interno di aree informali caratterizzate dalla precarietà e dall’assenza di infrastrutture pubbliche. Sono luoghi poveri in cui manca praticamente tutto: strade, acqua, elettricità, case, fognature. In altri casi sorgono in aree remote in cui la desolazione e lontananza dalle aree urbanizzate rende particolarmente difficoltosa ogni costruzione. In questi luoghi l’edificio scolastico assume un valore civico di spiccata rilevanza. La scuola, oltre a ospitare le attività didattiche, si trasforma nell’edificio pubblico per antonomasia. Testimonia la presenza dello stato, rappresenta il valore civico della comunità, interpreta i valori comunitari coagulati in un luogo. È molto più di un edificio per l’istruzione, è lo spazio nel quale si concentrano gli sforzi fisici, sociali ed economici dei suoi abitanti. Alcuni esemplificazioni che attingo da esperienze sul campo e che mi permetto di condividere in questo scritto di natura scientifica al fine di evocare le condizioni sociali che caratterizzano questi luoghi: la scuola è il luogo in cui viene offerto almeno un pasto completo al giorno, dove ci si rifugia durante i tornado, dove le divise degli studenti sono sempre pulite, stirate ed in ordine anche nei contesti più disperati, dove i maestri dormono, sul suolo la notte, perché troppo lontani da casa. È il luogo in cui si concentrano gli aiuti umanitari, è l’edificio più alto, più grande, più visibile, con più alberi e più ombra, in cui gli animali domestici non entrano e in cui si organizzano le feste comunitarie e dove, ovviamente, si vota (ogni tanto). Sotto questa prospettiva la scuola assume un valore simbolico prioritario all’interno della comunità la cui importanza va ricercata sia nelle funzioni che accoglie sia nelle virtù che evoca.

Una terza ragione riguarda gli aspetti identitari. Come avvenuto, ad esempio, nella Milano del diciannovesimo secolo quando i grandi plessi scolastici, occupando interi isolati, sono stati capaci di incardinare il piano urbano dello sviluppo della città elaborato da Beruto prima e da Albertini poi[6], contribuendo all’identità della nuova borghese Milano ottocentesca, così le scuole dei paesi del Sud del Mondo possono partecipare alla costruzione delle identità nazionali. Sono Nazioni relativamente giovani, esito dell’eredità coloniali che troppo spesso hanno ignorato i confini reali delle preesistenti culture. Sono Nazioni in cui l’architettura scolastica contribuisce alla costruzione di un’identità nazionale. Per tale ragione ricerche tipologiche, principi insediativi, materiali, forme e colori possono contribuire alla definizione di un’identità nazionale attraverso la sistematica organizzazione di uno dei suoi edifici più rappresentativi. Ne sono una prova alcuni esempi: negli ultimi decenni, un fervente proliferare di manualistica dedicata alla costruzione di scuole ha caratterizzato i progetti di attori come UNICEF[7] in collaborazioni con i Governi locali. Questo approccio testimonia un disegno politico più amplio volto a superare la reiterazione di singole azioni locali a favore di una visione identitaria più complessa capace di incorporare riflessioni pedagogiche, tipologiche, sistemi costruttivi, principi insediativi, uso dei materiali, con l’ambizione di formare tecnici e uffici locali preposti al governo del processo.

Un secondo esempio riguarda il rapporto con l’architettura vernacolare. Molti esempi contemporanei esplorano proficue reinterpretazioni di sistemi costruitivi tradizionali e l’uso di materiali locali. Tra questi l’opera di Francis Kerè o di Albert Faus in Burkina Faso, le scuole dello studio Caravatti in Mali, le opere di Fabrizio Carola nel Sahel, e molti altri ancora a partire dal già citato Hassan Fathy. Questa sensibilità mette in luce, tra le altre cose, il riuscito tentativo di costruire un legame con la storia dei popoli che abitano queste ragioni, rafforzando gli aspetti identitari che caratterizzano questi luoghi.

Il valore civico, il contributo sociale e gli aspetti identitari sono alcuni dei caratteri che esplicitano l’importanza dell’edificio scolastico in questi contesti. Non può essere assimilato agli altri servizi o altre costruzioni; è l’edificio più rappresentativo e che primeggia all’interno di ogni villaggio o quartiere. Il tradizionale rapporto tra significato e significante travalica ogni gerarchia evidenziando come il secondo (significante), a pari merito del primo (significato), sia lo strumento con cui governare i processi insediativi e identitari di questi luoghi.

La scuola come strumento di innovazione

I contesti del Global South offrano sotto molti punti di vista, un campo di sperimentazione ricco e fecondo di nuove opportunità. La riduzione di vincoli normativi, ad esempio, stimola una rinnovata indagine sulla relazione tra spazio e funzione, le ristrettezze economiche rappresentano lo strumento con cui eludere i modelli costruttivi più banali a favore di nuove forme più efficienti ed infine l’incontro tra culture diverse facilita un maggiore ascolto da parte dei progettisti verso i luoghi e le culture locali.

In questi contesti il progetto di una scuola si libera dei molti schematismi indotti dalle diverse convenzioni (normative, economiche e sociali) e può tornare ad indagare, con rinnovata creatività, la costruzione dello spazio come luogo speciale per l’apprendimento. Luce naturale, materiali locali, relazioni spaziali diventano gli elementi con i quali organizzare i luoghi della didattica. La rinuncia ad ogni superfetazione, ad ogni forma di eccesso e ridondanza porta il progetto ad esprimersi nella sua più naturale semplicità. È nella forza di questa radicale semplicità che risiede il valore di queste architetture che non si limitano ad una francescana riduzione degli elementi, ma esibiscono la paolista sobrietà delle forme.

Osservando gli edifici scolastici realizzati nell’ultimo decennio nell’ambito della cooperazione internazionale (ASFItalia, E. Caravatti, E. Roswag / A. Heringer, Tyin architets, …) si può riscontrare, nonostante l’eterogeneità dei luoghi e dei professionisti, una comune matrice progettuale capace di coniugare linguaggi contemporanei ed atmosfere vernacolari. Questo approccio evoca una radice postmoderna, svuotata dell’ideologia antimodernista che caratterizzò gli anni Ottanta. In forma un po’ caotica questi progetti dimostrano una disinibita modalità di attingere a repertori formali molto distinti, attraverso i quali coniugare culture

diverse esito dell’incontro tra beneficiari e donatori. Il positivismo che sosteneva il Movimento Moderno e le diverse sperimentazioni che questo ha attuato nelle giovani Nazioni dei Paesi del Sud del Mondo tra gli anni Cinquanta e Settanta lascia qui spazio ad un procedere pragmatico di chi si pone l’obiettivo di risolvere problemi concreti attraverso l’architettura e che non ha timore a contaminare il progetto per accoglierne tutte le sue contraddizioni.

Per queste diverse ragioni osservare dalla nostra prospettiva le esperienze progettuali realizzate in questi contesti, senza relegarle a specialismi o regionalismi critici, ci consente di alimentare un dibattito disciplinare intorno ad una specifica tipologia edilizia. Nutre feconde riflessioni che aiutano ad ampliare il tema recuperando l’essenza dei problemi perché più evidenti là dove le i problemi sono più urgenti e le sovrastrutture meno opprimenti.

È con rinnovato interesse, quindi, che allontaniamo ogni romanticismo e le molte retoriche per praticare il rigore dell’analisi tipologica e morfologica anche ai contesti del Sud del Mondo con l’ambizione di scoprire nuove ed entusiasmanti architetture.

Note

[1] Con queste parole la Redazione di Casabella apriva un lungo servizio dedicato a due edifici scolastici rispettivamente di Albert Faus in Burkina Faso e André Benaim In Etiopia. Casabella 910, giugno 2020, pag 3.

[2] Nel 1956 il X congresso del CIAM si svolse a Dubrovnik. In quella sede, oltre alla celebre frattura generazionale che diede origine al Team X (sia Le Corbusier che Gropius non parteciparono alla manifestazione limitandosi ad inviare riflessioni scritte) si diffusero nuove attenzioni progettuali intorno alla redazione della “Charter of Habitat” associando l’idea di città a quelli di “cluster”, “mobility”, “growth and change”. In particolar modo il gruppo britannico MARS mise in relazione lo sviluppo urbano a quallo sociale aggiungendo i termini “identity’, ‘association”. Dei 35 pannelli dedicati a casi studio alcuni erano dedicati a progetti in Paesi nel Sud del Mondo.

[3] Il testo in questione è tratto da bel libro di Salma Samar Damluji e Viola Bertini, Hassan Fathy. Earth & Utopia, 2018, Laurence King Pub, Londra, 2018, pag. 86

[4] Alejandro Aravena a partire dall’esperienza progettuale di Elemental è l’interprete più riconosciuto della relazione tra architettura e progetti sociali. Insignito del Prizker Price nel 2016 con la curatela della XV Biennale di Venezia “Reporting from the Front” è stato in grado di consolidare nel dibattito contemporaneo un ambito di riflessione disciplinare.

[5] Francis Kerè, architetto originario del Burkina Faso ha studiato ed attualmente lavora in Germania. All’inizio del millennio alcune sue opere realizzate nel paese natale di Gando hanno suscitato un forte interesse internazionale anche grazie alla visibilità indotta dal Aga kahn Award.

[6] Cesare Beruto autore del primo Piano regolatore di Milano nel 1884-89 (AAVV, La Milano del Piano Beruto (1884-1889), Società, urbanistica e architettura nella seconda metà dell'Ottocento, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1992. Nel solco dei medesimi principi insediativi sono seguiti piano Pavia Masera del 1912 e il Piano Albertini del 1934.

[7] Sotto la guida della sede centrale di Unicef negli ultimi 30 anni sono stati avviati molteplici programmi nazionali per sostenere le politiche educative dei vari Governi locali.