Phalaris, un Giornale di Architettura

Luciano Semerani



A Vienna, nell'anno in cui ho insegnato all’ABK, vedevo, nei foyers ma anche nelle piccole librerie specializzate, riviste e giornali per noi inconsueti, fuori mercato, di tendenza, che mescolavano spettacoli e mostre seguendo l'attualità.  Un tipo di stampa che non avevo ancora visto in quegli anni in Italia. Dopo un poco, quando mi sono ficcato come un cuculo negli spazi inutilizzati della Fondazione Masieri, in volta de canal, trovai i soldi per un primo giornale. Pensai a pochi fogli di notizie insieme alla documentazione, su grande formato, dei progetti in mostra alla “Galleria di architettura”, che nel frattempo avevamo messo in piedi alla Fondazione Masieri. Tra il 1987 e il 1989 furono esposti 24 progetti, disegni originali e modelli appositamente realizzati.
Si partì con la “Stazione ferroviaria di Lambrate”, di Ignazio Gardella, e si finì con una “grande mano meccanica”, realizzata con una pasta bianca armata da un congegno interno, immersa nelle acque del Canal Grande, di Santiago Calatrava.
L'attività impegnava con me volta a volta i docenti e i ricercatori del Dipartimento e soprattutto i due tecnici laureati, Anna Tonicello, che avviò un primo nucleo di quello che divenne poi l'Archivio Progetti dell'IUAV, e Gianni Testi, per la realizzazione dei modelli in legno.
“El Mol de la Fusta” di Manuel de Solà Morales, e “L'Ala Sainsbury della New Gallery” di Bob Venturi furono tra le prime opere ad essere presentate.
Con Manuel eravamo amici dai tempi di San Sebastian, Bob mi ringraziò molto per il pranzo da Montin e soprattutto per non averlo scocciato parlando d'architettura.

Tapiro, il grafico, impastava con un monocolore ora verde acido, ora viola, ora azzurro testi e immagini in modo che risultassero illeggibili, tanto le parole quanto i disegni, ma il formato gigante rendeva giustizia e alla fine proprio grazie al formato e all'alta tradizione tipografica del Veneto la lettura dei progetti era perfetta.
Non secondo Massimo Vignelli.
Massimo e Lella ci invitarono a cena, ero con Giovanna a N.Y., e gli mostrai con orgoglio i primi numeri: “...una pubblicazione così appartiene al sottoproletariato della lettura, un giornale deve essere dark, se è un giornale”.
Così disse Massimo che aveva appena vinto il “Premio Reagan” per la grafica dei parchi USA, una specie di Nobel nel suo campo.
Provammo a ripensarlo il Giornale. Doveva essere comunque coloratissimo, ma con una struttura precisa: un mio editoriale su temi d'attualità, tribune, interviste, corrispondenze dall'estero, teatro, cinema, poesia, arti figurative, grafica, design e non solo architettura, note di costume ed insinuazioni sulla quotidianità, un po' come le riviste d'architettura degli anni '30, la «Domus» di Ponti, «Quadrante» di Bardi e Bontempelli.
Nel frattempo, nell'88, con Gigetta Tamaro e Marco Pogacnik andammo a Berlino.
La “Stalin Allee” costituiva per noi, fin dai tempi dei nostri viaggi con Carlo Aymonino e Aldo Rossi in DDR, il nostro modello assoluto in fatto di urbanistica e nonostante tutte le perplessità dei “moderni” di qua e di là del “muro” ne realizzammo già nel primo anno la presentazione. Diventammo grandi amici di quell'Hermann Henselmann, un comunista pieno di umanità e di gioia di vivere. Era l'autore, nella “Stalin Allee” della “Strausberger Platz”. Per convincere Erich Honecker, Presidente della DDR, della sua “Torre della televisione”, erano a tavola, aveva infilato su un coltello un'arancia.
Grande amico di Hermann era Jurgen Treder, un importante fisico teorico, che a pochi passi dalla Torre Einstein, abitava dentro un bosco, in una casa sospesa su dei trampoli costruita da Konrad Wachsmann per un altro fisico famoso, Albert Einstein.
Forse non gli piaceva la casa, o più semplicemente, come capita con i matematici ed i fisici teorici che sono geniali ma anche matti, non gli piacevamo noi per cui si scatenò prima a sostenere la superiorità dell'orgasmo onanistico su quello di coppia e poi si mise ad insultare gli architetti che tutti, sosteneva, avrebbero dovuti essere sottoposti al trattamento che il Tiranno di Siracusa aveva riservato al suo architetto ateniese. Quell'architetto era stato costretto a collaudare per primo una scultura abitabile che gli era stata commissionata, un Toro. Dentro il bronzo rovente l’urlo diventava muggito e risuonava per tutta la piana. 
Henselmann sorrideva divertito, la badante e noi riuscivamo a stento a nascondere il disagio, Treder si arrovellava in silenzio perché non gli veniva il nome del Tiranno.
La badante aveva preparato il tè con i biscottini ma la visita, con quei conversari, si era intristita.
Finalmente ci salutammo e Marco mise in moto l'automobile. Fu in quel punto, mentre eravamo già quasi partiti che, inaspettatamente, Treder uscì dalla casa di legno sospesa sui tiranti wachsmaniani, con un urlo strozzato che si perse nel bosco: Phalaris....
Il nome lungamente inseguito gli era tornato alla mente.
Con quel nome e quel motto uscirono 20 numeri di un giornale insolito per la ricerca di temi e immagini soprattutto capaci di togliere all'architettura il suo solito tono funebre e autoritario e obbligare i lettori a riflettere sul senso delle cose.
Merito soprattutto di Enrico Camplani, uno dei due partner di Tapiro, e di Giovanni Fraziano che, tra i miei assistenti, era il più adatto a svolgere le funzioni di caporedattore se questa esigenza morale veniva trasmessa con la leggerezza del gioco.
Ogni numero partiva da un tema, in parte suggerito dal progetto in mostra, articolato nelle dieci rubriche (corrispondenza, minisaggio, inchiesta, ecc.) dettate dall'attualità.
NeIle rubriche si alternavano come collaboratori o come autori dei progetti firme già autorevoli nel mondo del teatro (Bernardi, De Incontrera) della poesia (Zanzotto, Universo) e persino della cucina (Cipriani, Danieletto), a nomi di persone di valore destinate a diventare qualcosa. Un'idea originale fu quella della doppia pagina indifferentemente destinata alla pittura (Gillo Dorfles, Miela Reina, Felicidad Rodriguez), alla fotografia (Leo Castelli) e al disegno d'architettura (La “casa/giraffa” di Frank) ecc..
Per l'architettura due i fili rossi intrecciati: “La Scuola italiana” (BBPR, Figini e Pollini, Gardella, Canella, Portoghesi, Rossi, Polesello, Semerani e Tamaro, Grassi, Monestiroli) e, nella scoperta o riscoperta “L'altro moderno” (Luis Moya Blanco, Bogdan Bogdanovic, Dimitri Pikionis, Sedad Eldem, Josef Frank, Gustav Peichl, John Hejduk, Boris Podrecca, Vojteh Ravnikar).
Solo due degli ospiti, forse proprio quelli più importanti, Giorgio Grassi e Rafael Moneo, mi regalarono uno dei loro disegni.
L'illusione era anche quella di poter formare, attraverso un confronto libero da riscontri commerciali, un'opinione pubblica consapevole e un diverso tipo di responsabilità nelle scuole di architettura che non fosse solo quello nei confronti degli Enti Locali o ancora peggio dei meccanismi del successo.
Tanto l'editore dei primi dieci numeri (L'Arsenale) quanto il secondo editore (Marsilio) trovarono comunque nell'università e nei due sponsor, Bonifica, del gruppo IRI, e Italcementi un impegno generoso ed illuminato accompagnato dal successo che il giornale aveva nelle vendite e negli abbonamenti.
L'entusiasmo ci portava a credere che anche per chi collaborava ci sarebbe stato qualche riconoscimento economico.
Con Barbara Ernst, la prima segretaria, mi trovavo al Bauer ad attendere Andreotti per un incontro nato da una sua idea. Che «Phalaris», pubblicato anche in lingua inglese, acquisisse una proiezione internazionale diffondendo attraverso l'architettura e il design made in Italy il know - how dell'intero settore produttivo.
Ma l'elicottero quel giorno non atterrò a Venezia.
Il caso volle che uscisse proprio in quei giorni sui quotidiani la storia del suo bacio con Riina.
Arrivò anche Tangentopoli e il presidente di Bonifica, una bravissima persona, e quello di Italcementi, ebbero anche loro dei grossi problemi giudiziari.  Una stagione di idee ambiziose, che erano sfuggite al controllo delle mediocrità, era finita. Non solo «Phalaris».