Les enfants nous parlent

Francesca Belloni




Dal punto di vista disciplinare, riflettere sul significato di ambiente di apprendimento – intendendo con tale locuzione un sistema complesso di luoghi, modi e attori – implica domandarsi se sia possibile operare una trascrizione (letterale) in termini fisici delle istanze pedagogiche, considerando lo spazio dell’azione come insieme complesso di caratteri non solo spaziali.

Les enfants nous parlent del titolo si riferisce all’esperienza marsigliese di Le Corbusier e alla particolarissima vicenda della scuola La Maternelle de Marseille-Michelet sul tetto dell’Unité d’habitation, considerata qui come termine di confronto attraverso cui guardare ad alcuni progetti recenti. Questo principalmente a partire dai rapporti tra Le Corbusier, il pedagogo francese Céléstin Freinet e Lilette Ripert (Mme Ougier), che dell’asilo fu la direttrice tra il 1953 e la fine degli anni Sessanta. Certamente quella di Marsiglia è un’esperienza straordinaria per il carattere sperimentale e per la profonda corrispondenza tra spazio della scuola e suo uso, tra ambiente e sistema educativo; è un’esperienza che pare interessante esaminare a partire dal tentativo di Le Corbusier di «ricollegarsi al vocabolario architettonico del suo periodo purista (Sbriglio 1992). L’ambiente di apprendimento dell’asilo al diciassettesimo piano dell’Unité si modella attraverso la plasticità degli oggetti architettonici, disposti come in una composizione pittorica. L’articolazione degli spazi è enfatizzata dalla rampa di accesso alla copertura che, usata dai bambini come oggetto ludico, anticipa gli elementi presenti sul tetto: il piano inclinato, la piscina, le rocce artificiali e il famoso “muro della morte”. Al contrario di quanto sostenuto dai detrattori, che criticarono La Maternelle de Marseille-Michelet per il carattere eversivo, ogni elemento, concepito per favorire la sperimentazione quotidiana dei principi educativi di Freinet e utilizzato a tale scopo dalla stessa Lilette Ripert, è capace di risuonare positivamente e mostrare le sue qualità pedagogiche tanto più viene caratterizzato dal punto di vista spaziale e plastico secondo i dettami dell’estetica purista. Le Corbusier pare in qualche modo mettere alla prova le possibilità del proprio linguaggio esaltando, tramite la pianta libera, la concatenazione degli ambienti e la loro capacità di «veicola[re] modelli e valori educativi in modo più profondo e pervasivo di tante parole e documenti progettuali» (Castoldi 2020). In tal senso è esemplare la collaborazione con Freinet, promotore del metodo naturale, basato sul modello della scuola-laboratorio, sull’esperienza diretta dei bambini e sull’apprendimento per tentativi ed errori sperimentali. A Marsiglia la grammatica purista, per certi versi impiegata in forme surrealiste negli elementi disposti sulla copertura, consente la sperimentazione del materialismo pedagogico sostenuto da Freinet, che riconosce agli spazi della scuola e al loro contenuto materiale una forte valenza pedagogica: se il principio educativo è quello del pensare agendo e agire pensando, lo spazio in cui l’azione si svolge è esso stesso agente educatore.

A partire da Marsiglia, pare di una certa utilità domandarsi come possa venir tradotta in termini architettonici la portata educativa degli spazi, quali intenzioni raccontino e come queste vengano messe in forma, se e in che modo si possa parlare di architettura educativa. Questo forse senza arrivare ad affermare, come Leclerc de Buffon, che «le style c’est l’homme même», ritenendo tuttavia che per l’architettura, in quanto fatto fisico, l’esito (formale) sia strettamente legato all’idea che si vuole sostenere, ne sia in qualche modo lo specchio fedele e per questo rappresenti una scelta di campo, proprio come La Maternelle Marseille-Michelet dimostra.

Se infatti certe esperienze sono sicuramente significative per la sperimentazione di nuove strategie didattiche, che affiancano al ripensamento del modello scolastico tradizionale una certa innovazione degli spazi, è importante domandarsi quali siano le diverse accezioni con cui, in anni recenti, l’architettura ha partecipato a costruire tale riflessione, non solo dal punto di vista del design degli interni, in molti casi impiegato come strumento per promuovere modelli pedagogici alternativi[1], ma tentando di individuare alcune categorie specifiche. Ciò significa ritornare in qualche modo alle origini del discorso architettonico per distinguere tra principi insediativi, variazioni tipologiche e qualità spaziali in relazione ai modi di vita e ai loro caratteri. Tutto questo attraverso alcuni casi, non necessariamente esemplari, ma certamente indicativi delle possibilità implicite nella disciplina.

Una prima riflessione può essere avviata guardando al complesso scolastico di Vila Nova da Barquinha degli architetti Aires Mateus. Criticato da alcuni per il disegno radicale, la marcata afasia e il minimalismo linguistico, il progetto permette di avviare il ragionamento a partire dal rapporto tra edificio e città. L’impianto, pensato come una cittadella introversa, è frutto dalla composizione di solidi puri ripetuti e variamente assemblati. La struttura dei vuoti, ottenuti per omissione di volumi, conforma gli spazi interni, concepiti in stretta relazione con i patii esterni, tipici della tradizione portoghese; la rigidità dello schema di partenza e l’impiego di un numero limitato di elementi produce, come nei giochi con i blocchi di legno dei bambini, un numero concettualmente infinito di possibilità e apre l’edificio alla vita che in esso si svolge:

The universes we attend in childhood tend to linger in our memories. It’s the time when we interact with architecture in a more free and genuine way. It is when we settle appropriations and intuitively hierarchize values of architecture. We are interested in identifying the assets that are esteemed by all, and design the memories that will be formed[2].

Concettualmente organizzata secondo un principio insediativo totalmente differente – quello del tutto sotto un unico tetto, secondo la nota classificazione di Albert Demangeon – pur tuttavia con una relazione analoga tra aule e ambienti della condivisione informale, non meno che per l’importanza attribuita agli aspetti compositivi e alla connotazione linguistica, è la scuola di Angela Deuber a Thal, nel Canton San Gallo. Organizzata secondo uno schema tripartito e una struttura portante modulare, l’edificio gioca sul contrasto tra composta staticità dell’impianto e articolazione plastica dei piani di facciata. Lo spazio centrale, che organizza e distribuisce l’accesso ai diversi ambienti, raccorda le singole aule, svolgendo una funzione analoga ai patii della scuola dei Mateus. A differenza di quella, il rapporto con la luce, l’aria e il paesaggio è demandato alla loggia che, correndo lungo tutto il perimetro dell’edificio, accentua la spazialità e la ricchezza compositiva della facciata, enfatizzata dalle insolite geometrie degli elementi strutturali, delle aperture e del parapetto. La marcata attenzione nella definizione dei singoli elementi architettonici e strutturali caratterizza l’esperienza spaziale offerta nel passaggio dal nucleo centrale, introverso e comunitario, alla loggia, luogo della contemplazione individuale, aperto verso il paesaggio. Evidentemente la ricerca linguistica e il tentativo di specificare, forse anche in modo fin troppo marcato, l’identità dell’edificio è un preciso intento progettuale, soprattutto se letto in riferimento alla destinazione scolastica e alla volontà di produrre un’architettura per certi versi prossemica, individuando spazi destinati alle relazioni sociali, aree filtro e di circolazione ed ambienti semipubblici, che permettono l’estensione della dimensione personale a quella collettiva e verso il paesaggio.

Debitore alla tradizione inauguratasi con la scuola di Paspels di Valerio Olgiati, il progetto per Thal è certamente imparentato con il complesso scolastico di Raphael Zuber a Grono nei Grigioni. In questo caso la plasticità degli elementi architettonici diviene dispositivo educativo spaziale e linguistico. Il parallelepipedo, adagiato come un oggetto scultoreo sul terreno, è l’esito di un puro esercizio compositivo di forme primarie: un quadrato inscritto in un cerchio con al suo interno il volume curvo della scala. La molteplicità delle viste prospettiche, ricomposte all’interno di un’organizzazione planimetrica e distributiva ancora una volta statica, è l’esito architettonico certamente più interessante del tentativo di costruire uno spazio linguisticamente connotato e, proprio per questo, evocativo di una dimensione altera ed elitaria, capace di incoraggiare i bambini che lo abitano a un esercizio critico creativo, simile a quello che si produce di fronte a un’opera d’arte.

A Paspels, a Grono e a Thal, così come in molti altri edifici che adottano il medesimo principio distributivo, si assiste a una progressiva riscoperta dello spazio intermedio, dello spazio tra gli spazi, senza alcuna specifica funzione se non quella di essere disponibile all’uso flessibile e dinamico[4]. Di progetto in progetto, il tipo si affina e si specifica, codificando funzionalmente lo spazio centrale interno al blocco; ne è prova il frequente impiego di questo schema in diverse realizzazioni[3] tanto da poter sostenere che si stia assistendo a un vero e proprio consolidamento del tipo, accompagnato da una pluralità di connotazioni linguistiche possibili. È sufficiente, a questo proposito, ricordare il progetto per il complesso scolastico di Orsonnes di TEd’A arquitectes che organizza tale spazio di mezzo in modo centrifugo, riportando in sezione il gioco complesso delle intersezioni tra le parti, per poi caratterizzare linguisticamente l’intera struttura e la sua figurazione con un codice che riscrive il dialetto locale con inflessioni contemporanee.

Non si deve tuttavia pensare che l’attenzione per tale spazio intermedio, figlia della rilettura operata da Hertzberger del modello montessoriano, e le sue differenti interpretazioni architettoniche si limitino al solo blocco tra i blocchi del paesaggio alpino. La Bülowsvej School di Cebra a Frederiksberg in Danimarca, collocata in un isolato della città consolidata, seppur in condizioni differenti, impiega il medesimo principio aggregativo-distributivo, modificato in rapporto alla posizione in cortina e ai vincoli che questa comporta. Cebra opera una trascrizione volumetrica di tale impianto, distinguendo tra spazi serviti e di distribuzione, estrudendone gli elementi ed inserendo collegamenti multipli, sia in orizzontale sia in verticale, tra le stanze. Un unico modulo – quello dell’aula – organizza la scacchiera all’interno della quale, in un gioco di combinazioni differenti piano per piano, vengono individuate le tre parti di cui si compone l’edificio: quella verso strada, con coperture inclinate che alludono (pur contraddicendola nei fatti) alla giustapposizione seriale di elementi sviluppati in profondità, quella centrale di distribuzione, con gli ambienti informali, e quella verso il giardino, dove il principio di variazione (volumetrica, materica e linguistica) trova libera espressione, talvolta con accezioni molto marcate.

Tornando al Demangeon del tutto sotto un unico tetto, per capire quali siano le ulteriori variazioni possibili di tale principio insediativo in termini di edifici scolastici, si può considerare la scuola di Leutschenbach di Christian Kerez a Zurigo, che, per ridurre al minimo l’occupazione di suolo, realizza una scuola-torre sovrapponendo la palestra, l’auditorium e la biblioteca ai piani delle aule e dell’ingresso. La struttura a più livelli – a stacked school programme – è priva di corridoi e i singoli ambienti si affacciano, ad ogni piano, su ampi spazi informali. Frutto di un minimalismo intellettuale portato alle estreme conseguenze strutturali e formali, l’edificio mostra come, a differenza dei casi sopracitati, il tipo del blocco isolato prevalga concettualmente e spazialmente e non sia lo spazio centrale a organizzare le relazioni tra le parti quanto piuttosto la starke Einheit / forte unità, risultato della coincidenza tra impianto, forma e struttura: «The rooms, stacked above one another, vary in size and height. They constitute variations on the same overall spatial and architectural concept»[5]. Non più spazio tra gli spazi, ma totale rimozione degli spazi interstiziali. L’assenza di corridoi, che frammenterebbero tale ininterrotta unità, si traduce in un’organizzazione centripeta dinamica, enfatizzata dalla coerenza della struttura portante che, pur variando da piano a piano in relazione al programma funzionale, conferma il suo carattere oggettuale:

«Ma priorité n’est pas la simplicité ni la clarté d’une idée. En fait, une idée n’est pour moi qu’un moyen de réussir un projet. Le projet au final existe par lui-même et devrait être compris sans explication. L’école Leutschenbach est dans ce sens une réussite. Les escaliers et la structure porteuse figurent sans cesse dans les dessins des enfants. […] Je suis ravi que les enfants aiment l’école Leutschenbach et qu’ils puissent se lier à elle grâce aux cadres et aux escaliers. J’en suis d’autant plus content que je n’ai jamais essayé de faire de l’architecture dédiée aux enfants.» (Kerez 2012)

Dal punto di vista del rapporto tra pedagogia e architettura, con la scuola di Leutschenbach si assiste alla declinazione algida e senza mediazione alcuna di un principio distributivo frequentemente impiegato, quello del grande spazio indistinto con poche aule o stanze separate, a seconda delle necessità, da pareti mobili o di vetro, come nell’Ørestad Gymnasium di 3XN architects a Copenhagen, o, per arrivare all’estremizzazione del medesimo principio, nella configurazione senza classi né muri del Vittra Telephonplan di Rosan Bosch a Stoccolma. Qui «l’ambiente non è solo uno spazio fisico, ma è soprattutto un atteggiamento»[6] e all’architettura non resta che fornire un contenitore il più neutro possibile da caratterizzare e attrezzare in modo versatile. Per ricondurre tale esperienza a una metafora linguistica, mentre nei casi precedenti si può rintracciare una sorta di strutturalismo linguistico applicato alla spazialità architettonica – dato un contenuto si assiste al variare dell’ordine delle parole impiegate per raccontarlo – a Stoccolma è quasi come se le parole sparissero o potessero avere qualunque significato a seconda di chi le legge o in base alle relazioni mutevoli e dinamiche tra i lettori.

Per questo sembrano più interessanti dal punto di vista strettamente architettonico e per le possibilità di rintracciare possibili valori spaziali nella configurazione di edifici compatti gli studi di Thomas Fischer, che da più di un decennio sta conducendo diverse sperimentazioni sulla possibilità di accorpare sotto un unico (molteplice) tetto una sequenza ininterrotta di ambienti interrelati a modellare un flusso continuo tra stanze comunicanti all’interno di un superblocco. I progetti di Fischer, trascrizioni fisiche del concetto pedagogico di ambiente di apprendimento aperto, mostrano come la ricercata coincidenza tra compattezza e flessibilità possa diventare un tema architettonico. Non è un caso che i motti dei progetti – Atelier Himmelslicht (Scuola secondaria a Laufen), Atelier im Park (Complesso scolastico Freilager a Zürich-Albisrieden) – sottolineino la dimensione creativa dello spazio, che, seppur rigidamente conformato, offre agli utenti diverse possibilità di appropriazione spontanea, favorendo sinergie di azioni, comportamenti e modalità di apprendimento, differenti e contemporanee. Le proposte radicali di Fischer, reinterpretazione contemporanea delle scuole laboratorio degli anni Settanta, come la Laborschule a Bielefeld di Ludwig Leo, individuano alcuni principi organizzativi e li ordinano in relazione al programma funzionale: pianta compatta organizzata a matrice, assenza di corridoi, stanze passanti, piani profondi illuminati dall’alto da lucernari o tetti a shed. Un ininterrotto piano sequenza architettonico, un flusso spaziale senza gerarchia alcuna.

È importante sottolineare come questi progetti non rappresentino un caso isolato, quanto piuttosto un campo di sperimentazione comune; ne è riprova l’edificio per asilo nido e scuola elementare ad Azmoos nel Canton San Gallo dello studio berlinese Felgendreher Olfs Köchling. Di nuovo un paesaggio di apprendimento articolato sotto un unico (ripiegato e molteplice) tettoAlle unter einem Dach titola il progetto – in cui scala del villaggio e scala dell’edificio si confondono: una (grande) tetto tra i tetti, una (grande) casa tra le case.

Anche il campus scolastico di Bregenz-Schendlingen di Matthias Bär impiega principi analoghi, pur organizzando cluster autonomi tra loro interconnessi, unità base che consentono la messa in forma del concetto pedagogico su cui si basa il progetto. All’interno dei diversi cluster e tra un cluster e l’altro, le stanze sono concepite in sequenza continua e gli ambienti semitrasparenti definiscono una «topologia schematica e fluida»[7]; gli ampi e misurati ingressi, i cavedi centrali, la riduzione al minimo della circolazione e le visuali continue tra un ambiente e l’altro caratterizzano un’organizzazione modulare (Netztypologie), all’interno della quale, data la richiesta di un programma funzionale ibrido, vengono individuate abbondanti porzioni di spazio bianco multifunzionale, particolarmente adatto alla didattica flessibile. Tutto ciò organizzato in un blocco isolato, compatto e unitario, linguisticamente omogeneo e dal carattere familiare, scavato da un grande lichthof centrale e dai due vani scala laterali, che scandiscono il ritmo dell’impianto e accentuano la continuità tra le parti.

Analogamente il progetto per la scuola Oberstufenzentrum Sozialwesen OSZ Anna-Freud a Berlino di Bruno Fioretti Marquez impiega il tipo del blocco isolato organizzato attorno a un nucleo centrale di distribuzione: un teutonico e per certi versi ordinario telaio in calcestruzzo, tipico del linguaggio industriale più che delle costruzioni auliche, viene trasformato in un edificio articolato. L’impiego di pochi elementi, la cura dei dettagli e l’accurato studio spaziale permettono variazioni misurate, capaci, all’interno di una concezione di matrice classica, di contribuire alla definizione del carattere architettonico; l’elogio della monotonia di schimidtiana memoria e l’uniformità della sintassi aspirano a «diventa[re] mezzo artistico» e traducono il programma funzionale in un luogo ricco di effetti spaziali inediti, di opportunità di apprendimento alternative.

Dal punto di vista del rapporto tra aule, elementi di distribuzione e cavedi, la Volta Schulhaus di Miller&Maranta a Basilea rappresenta in qualche modo l’antesignano dell’edificio di Bregenz, dimostrando come, malgrado i vincoli imposti dall’area di progetto, un’intenzione spaziale precisa sia capace di dar forma a un’articolazione distributiva e funzionale complessa, senza sforzi apparenti. A Basilea, un enigmatico blocco in cemento, che secondo quanto affermato da Quintus Miller, «potrebbe essere qualunque cosa, soprattutto dall’esterno» poiché «non c’è nulla che suggerisca che questa sia una scuola» (Schindler 2002, p.10), rivela all’interno una spazialità unitaria e articolata, altera e domestica, capace di recuperare, pur con un linguaggio minimale e del tutto astratto, la dimensione individuale dell’abitare un luogo, dell’appartenere ad esso. Le aule, le stanze per la didattica speciale e gli ambienti ad esse correlati si organizzano intorno a stretti cavedi di proporzioni gotiche, scavati nel volume compatto e monolitico; lo sguardo si perde in un continuo variare di scorci e visuali; la luce naturale è diffusa e penetrante, amplificata dalle prospettive multiple e dal trattamento di alcune superfici con vernici madreperla; tutto è unitario, coerente e severo, disponibile alla vita e alle sue impreviste manifestazioni:

«Solo le giacche e i cappotti che fuoriescono dal guardaroba e i disegni dei bambini, appesi col nastro adesivo, rivelano che è una scuola. Mentre l’esterno si mostra piatto, quasi cieco, refrattario, all’interno si apre una spazialità inaspettata e difficile da cogliere al primo sguardo.» (ivi, p. 11)

Alla luce di questa parziale ricognizione non pare dunque azzardato, ritornando alla scuola di Vila Nova da Barquinha, leggervi il tentativo di costruire un universo in sé coerente. L’individuazione di un recinto scavato al suo interno, libera traduzione del concetto più generale espresso da Demangeon, produce, per via di aggregazioni concettualmente identiche l’una all’altra, un’unità riconoscibile. Il ricordo non può che andare all’iconica scuola Munkegaard a Gentofte di Jacobsen che, all’interno di una maglia potenzialmente infinita, organizza aule e corridoi attorno ad ampi cortili. Tuttavia, se Jacobsen, pur nella ricercata uniformità e nella ripetizione del modulo aula-cortile, caratterizza volumetricamente le diverse parti, aggregandole e differenziandole, senza rinunciare a mostrare gli elementi di giunzione, i fratelli Mateus articolano i singoli volumi e costruiscono una spazialità ininterrotta, eliminando di fatto la distribuzione tradizionale. Così, se esternamente il recinto ricorda i caravanserragli, l’organizzazione interna allude alla varietà dello spazio urbano, a quelle antiche città costruite dalla combinazione e variazione di un unico tipo.

Come a Vila Nova da Barquinha, anche la scuola dell’infanzia a Cassarate di Bruno Fioretti Marquez utilizza, seppur celato, il principio dell’assemblaggio e ne offre una trascrizione volumetrica e formale. La deformazione tridimensionale di una ideale scacchiera produce l’alternanza tra pieni e vuoti, in maniera tanto misurata da non poter dire se si assiste a un processo di addizione o, al contrario, di sottrazione. L’individuazione e la ripetizione di un unico modulo a costruire una sequenza di cortili interni a una serie di casette – identificate ciascuna dal proprio tetto – consente, chiarite le regole in gioco, di procedere per alterazioni e variazioni e di costruire un ensemble marcatamente orizzontale, dalle proporzioni familiari e contenute. L’organizzazione delle cinque sezioni è caratterizzata da una ricercata continuità che, pur alludendo alla griglia che l’ha generata, non dipende più da essa; spazi serviti e serventi hanno la stessa natura, esterni e interni sono in relazione diretta. Abbandonata la grammatica classica di Jacobsen, il piano continuo opera con una sintassi non convenzionale, giustappone e altera, e, come nei monologhi joyciani, produce una lingua allusiva e completamente inedita.

In anni successivi, gli stessi progettisti, nel KinderUniversum KIT a Karlsruhe, dimostrano non minore sensibilità nel maneggiare il tipo del blocco compatto organizzato intorno a uno spazio centrale, impiegando principi architettonici già presenti a Cassarate. Sebbene infatti i due progetti presentino caratteri opposti, entrambi lavorano sulle corrispondenze sottili tra i diversi ambienti: luce naturale e geometrie irregolari sono ricomposte all’interno di un volume silenzioso e monolitico, scavato da aperture profonde che ne rimarcano la compattezza. Nell’uno e nell’altro caso il rapporto con la città è diretto, mai mediato da elementi che non siano di per sé già presenti nella concezione architettonica dell’edificio, progetti urbani per mezzo di architetture.

Di nuovo case tra le case, tetti tra i tetti, si ritrovano a Copenhagen nel Frederiksvej Kindergarten di Cobe: il programma funzionale di un asilo per quasi duecento bambini viene scomposto in undici edifici che, anziché optare per una costruzione di grandi dimensioni, riconducono – sotto tanti piccoli tetti – l’intervento alla grana della città. Il progetto lavora sulla scomposizione formale e volumetrica e mostra particolare cura nel ricondurre ogni elemento a una scala compatibile con la percezione dei bambini. L’intera figurazione rimanda all’idea di casa tipica dell’infanzia – As simple as a kid’s drawing è il motto – e utilizza l’archetipo della casa con tetto a falde come elemento figurato per produrre un istintivo senso di appartenenza, un adeguato “sentimento dello spazio”.

Certamente la ricognizione avviata potrebbe proseguire a lungo, individuando altri criteri attraverso cui classificare e distinguere generi, identificando tipi e configurazioni ricorrenti, esaminando casi concreti e comparando edifici per analogie e differenze. Tuttavia, senza alcuna intenzione enciclopedica, si è preferito raccogliere, come tra le pagine di un’antologia, opere di più autori, porle una dinanzi all’altra, leggerle in parallelo, come se l’una fosse il testo a fronte della precedente, in modo da riconoscere modalità ricorrenti attraverso cui tradurre specifiche istanze pedagogiche in termini architettonici. Solo in questo senso è possibile dar ragione degli esempi scelti e ricondurre la loro apparente arbitrarietà a un discorso comune, che mostra come nei casi migliori la necessità di rispondere a determinate necessità funzionali non detti le regole della composizione, ma diventi essa stessa parte del progetto. Così per rispondere alla domanda se si possa parlare o meno di architettura educativa e se esista una certa corrispondenza tra la configurazione degli edifici, il loro linguaggio e i modelli pedagogici adottati, se cioè la questione distributiva venga definita in funzione delle famiglie pedagogiche a cui ci si riferisce e da qui si passi poi agli aspetti compositivi e linguistici, pare utile tornare a Le Corbusier. A Marsiglia la definizione di uno spazio linguistico capace, attraverso i suoi caratteri architettonici, di influire positivamente nel processo di apprendimento, si produce impiegando la percezione come strumento di relazione e di comunicazione e la spazialità architettonica per la sua capacità di dar forma a modalità alternative di fare e vivere la scuola. Il grande plasticienne declina in maniera tumultuosa e scultorea i principi del tâtonnement expérimental. Il carattere spaziale e distributivo e le scelte linguistiche e compositive de La Maternelle de Marseille-Michelet paiono addirittura capaci di mostrare quali siano i possibili termini architettonici de la méthode naturelle applicata all’insegnamento della grammatica e dell’ortografia che, secondo quanto sosteneva Freinet, si apprendono per esperienze tangibili progressive e non per via mnemonico-cognitiva:

«L’ortografia è come l’abito delle parole. La struttura, le particolarità delle parole si inscrivono nella nostra mente e nelle nostre abitudini non attraverso il ragionamento e la memoria ma attraverso canali esclusivamente sensibili, per mezzo di successive fotografie, la cui indelebile chiarezza è soltanto in funzione degli organi che la registrano e della luce particolare che noi proiettiamo sugli elementi che andranno ad inscriversi sulla lastra sensibile.» (Freinet 2021)

In questo senso l’ortografia lecorbuseriana si applica a una sintassi purista ottenuta per schiacciamento bidimensionale di una composizione che, per l’accentuazione del rapporto spazio-tempo, è di matrice cubista. Se infatti, come nota Sbriglio, la sintassi è certamente purista, l’esperienza spaziale rievoca il codice cubista, arricchendolo di accenti surrealisti: il marcato uso dei cromatismi, la nudità del cemento e l’insistenza sulla composizione polifonica delle relazioni tra architettura ed elementi naturali – tra questi la luce e il mare – costruiscono una narrazione per scene in sequenza.

Ancora una volta Le Corbusier dimostra che il meglio dell’architettura risiede nella capacità di gestire e organizzare lo spazio e che, nel caso specifico di edifici scolastici, questa capacità è legata a doppio filo con il ricordo dell’infanzia. Chiedersi come si vorrebbe che i bambini vivessero e ricordassero la loro è quindi essenziale, pur consapevoli che proprio l’infanzia, come nota Foucault, ha innate capacità di riconoscere e immaginare contro-luoghi, luoghi alternativi rispetto alla visione monolitica dello spazio stesso:

«[…] i bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori. È in quel letto che si scopre l’oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perché nelle sue molle si può saltare; è il bosco perché ci si può nascondere; è la notte perché fra le sue lenzuola si diventa fantasmi.» (Foucault 2018).

Perché quindi non affidarsi anche a questo?

Note

[1] A titolo di esempio si vedano i progetti di Rosan Bosch, a partire dalla Vittra Telefonplan School di Stoccolma.

[2] Descrizione fornita dall’architetto.

[3] Sarebbe utile risalire alla genesi del tema dello spazio tra gli spaziin-between realm – a partire da van Eyck fino a Hertzberger, riflettere sulle differenti interpretazioni di Eisenman, Koolhaas, Tschumi e altri e leggerle in relazione alle declinazioni artistiche e filosofiche di tale concetto.

[4] È possibile riconoscere una sorta di discendenza che dagli impianti centripeti di matrice rinascimentale, per via tedesca, tra le mani di Ungers e altri, o per via anglosassone, ad esempio attraverso le Houses di Eisenman, arriva in Svizzera e qui, per motivi legati alla sempre più marcata ricerca di compattezza volumetrica, si declina come tipo ricorrente in particolare per gli edifici scolastici.

[5] Descrizione fornita dall’architetto.

[6] Indire Ricerca, Vittra - Telefonplan. Senza pareti e senza classi, ultima cons. 25 febbraio 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sato4iut_vk

[7] Descrizione fornita dall’architetto.


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