Peter Märkli: Things Around Us

Vincenzo Moschetti




Alfabeti
Questi disegni rimandano alla grammatica di base degli elementi. (Märkli 2021)

Le architetture di Peter Märkli si posizionano nell’increspatura delle Alpi svizzere secondo un principio di noia moraviana[1] modificando puntualmente la geografia che le accoglie, ovvero restituendo al lettore un alfabeto aggiornato nella sua sintassi dove cose scomparse, a volte, ritornano. Il processo di selezione dei corpi è lento, una sorta di affabulazione verso le lettere della composizione espletate secondo un percorso di anamnesi ereditato e trattenuto in continui disegni, in un’ansia verso la fissazione di pochi elementi che si riformano. Quelli di Märkli sono flussi di una sequenza che egli cerca di possedere, di ricostruire e osservare nei progetti all’interno di un sistema aperto ma fissato da pochi segni, al fine di strutturare una sorta di collezione risolta in immaginarie topografie. In questo senso afferma di essersi «reso conto che non solo queste parole potevano essere usate per descrivere cose […] ma anche che avevano, in letteratura, il potere di descrivere sentimenti e visioni del mondo. […] Ho guardato al profano e alle arti visive e ho iniziato a osservare e a imparare lentamente la lingua. Ho semplicemente iniziato osservando la grammatica della nostra disciplina» (Penn 2012).

Nella rielaborazione del linguaggio Märkli utilizza il paradigma delle lettere come costruzione di un alfabeto le cui frasi, molto complesse a volte, intercettabili nella sovrapposizione di più focali, introducono a un ribaltamento. Questa conseguenza può essere ribadita all’interno di una macchina autoriale dove, riconducendo l’espressione a quella etimologica, si ritrova come l’autore sia un accrescitore (Marini, Mengoni 2020) facendo in modo che questo aumentare diventi materia di sperimentazione ai fini della ricerca di un linguaggio (Azzariti 2019) per riscrivere porzioni geografiche attraverso la pratica professionale. Quella dell’autore è una sorta di riduzione proveniente da un approccio programmatico che consente di affermare come «per poter comunicare, dobbiamo conoscere le regole del linguaggio» (Märkli 2008 (2006), p. 10).

L’esistenza di un codice alfabetico è la traccia dentro la quale l’autore si muove, un sistema di armamenti propri della disciplina che messi insieme nella forma di disegno o nel progetto “cantierizzato”, configurano frasi capaci di costruire traiettorie che aumentino distanze stabilite dai confini territoriali per aggiornare posizioni e lavorare per prefigurazioni. Come per l’uso del nero da parte di Ad Reinhardt (Viray 2008) anche per Märkli – sulla scorta di Max Raphael – i disegni spesso sperimentano le possibilità attraverso l’opposizione dei due campi, da un lato il segno pieno «l’indeterminato, l’illimitato, l’immateriale» (Bronfen 1992, p. 9) dall’altro il bianco, una costante. Questo uso del segno stabilisce pertanto non limiti ma movimenti profondi, lontani, che il progetto potrà sperimentare come oggetto di discussione e di commento a un dato luogo che il bianco del foglio, al momento, non sempre specifica.

Avventure
Questi disegni devono essere piccoli – non possono essere grandi perché non riguardano i dettagli. Sono esplorazioni di principi. Catturano l’essenza delle cose in poche righe, racchiudendo molte possibilità. (Märkli 2021) 

Questa ricerca definisce un immaginario che dagli anni all’ETH di Zurigo lavora per mezzo dei termini dell’avventura. L’insistenza sulla manifestazione di una «vicenda singolare […] caso inaspettato»[2] costituisce il territorio entro il quale osservare la produzione e collocare le lettere per fissare l’aggiornamento disciplinare che egli propone rispetto a un territorio dalle ombre severe. L’idea fondamentale alla base delle operazioni tra disegno e progetto è quella del «tout ce qu’on invente est vrai» (Flaubert 1998) dove la rappresentazione soprattutto in forma di “schizzo”, prima ancora del cantiere, stabilisce un processo di riscrittura e di programmazione, di spoliazioni apparentemente provenienti da altri mondi. La relazione tra disegno e progetto sembra essere già in partenza un programma dove può essere riconosciuta l’espressione secondo la quale «i nostri antichi padri costruirono le loro capanne dopo averne creata l’immagine» (Boullée 1967, p. 55).

I disegni di Märkli conducono un programma basilare di anatomia comparata, come si insegna nei corsi ai primi anni di scienze veterinarie, dove il confronto tra le strutture dei vari gruppi fissa una risignificazione possibile di contenuti da applicare tra rappresentazione e progetto d’architettura. Lo sguardo dell’architetto entra nelle stanze del disegno, quindi corpi restituiti in doppia dimensione, spazi che solo apparentemente sono chiusi dalla squadratura del foglio dove linee nere evidenziano connessioni in cui l’architettura si presenta come atto. La figura della stanza è una strategia illusiva grazie alla quale è possibile rendere concreto e visibile il mondo immaginario; il disegno consente di produrre tensioni da abitare, dove il gioco di specchi tra diverse geografie e mondi costruisce complessità a più livelli. «Collegando il regolare e l’irregolare, Peter Märkli ha potuto creare ordine, forme organizzate e spazio immersivo. All’interno dell’opera, attraverso l’occhio di Peter Märkli, potevo muovermi e sentire la mia presenza nel mondo, in silenzio o con un piacevole sussurro. L’‘occhio’ di Peter Märkli è ‘io’» (Viray 2015, p. 114). Questo essere dentro è la lente per attivare il processo di ricostruzione, non qualcosa che abbia a che fare con le macerie, quanto un programma che in realtà osserva una genealogia per fare architettura. Il disegno con le sue “stanze” anticipa il cantiere con la possibilità di non dover osservare leggi statiche se non quelle richieste dalla rappresentazione stessa.

Ognuno di questi disegni non vedrà sempre la sua realizzazione, sono in parte exempla, sperimentazioni di un cantiere aperto che risente ancora della necessità dell’esercizio figurativo per rendere il progetto attuativo. Ordinati insieme essi rappresentano, appunto, avventure, stabilite per segni che altro non sono che pratiche narrative dove l’inversione fra luci e ombre, la prova di colori e materiali, così come di griglie e proporzioni connette le parti dei mondi dai quali essi provengono. Sono interrogativi che allontanano la prova progettuale da distanze predefinite rendendo verificabile la dichiarazione secondo la quale Märkli congiuntamente a Shakespeare approssima quel remoto, e familiarizza con il meraviglioso, l’evento che rappresenta non accadrà ma se fosse possibile, i suoi effetti sarebbero probabilmente quelli che ha assegnato; e si può dire che non solo ha mostrato la natura umana come agisce nelle reali esigenze, ma come si troverebbe nelle prove, alle quali non può essere esposta» (Johnson 1765, pp. XI-XII). 

Il disegno in Peter Märkli non può pertanto essere considerato esclusivamente come strumento di indagine, quanto come fatto progettuale in sé dove il processo degli spolia in re viene sostituito nel territorio del foglio da quello degli spolia in se, traducendo di fatto un principio di auctoritas nel campo dell’architettura.[3] La composizione subisce allora ribaltamenti dove la continuità dell’antico viene assunta dalla ricomparsa del colore, superando la lettura del Winckelmann, per dar corpo al ritorno di uno strumento reale che si sovrapponeva alla pietra dei templi prima della sua scomparsa. Il colore è l’evento singolare e inaspettato dell’avventura dentro la quale l’autore trasporta chi osserva, dove immersi in una collezione vengono riposizionati cause ed effetti di un tempo – che è quello dell’architettura – che non vede pause, ma ritorni.

Se i biologi, basandosi sull’idea che le strutture animali di oggi derivino da chi li ha preceduti utilizzando bisturi e microscopi per accedere al mondo concreto dei vertebrati, Märkli si serve di fogli A4 e matite colorate per costruire lo spazio dell’architettura in un processo di verifica analogo e curioso a quello degli scienziati veterinari ma figlio di un’esperienza che affonda le mani nell’insegnamento dell’architettura.

Architetture
I meccanismi percorsi segnano l’esistenza di elenchi dove il posizionamento degli elementi dell’architettura, assunti come lettere, scoprono attraverso la pratica del disegno l’esistenza di una sintassi grammaticale aggiornabile. Come in una vertiginosa lista di cose (Eco 2009) entrando nello studio professionale di Zurigo «il modus operandi di Märkli è reso esplicito dalla presenza di un tecnigrafo […] sul pavimento, libri aperti, schizzi, e disegni fissati alle pareti» (Chipperfield 2020, p. 18). L’atelier esprime l’esigenza di star dentro, come in uno spessore entro il quale «i disegni diventano il luogo dove trovare e formulare le idee» (Chipperfield 2020, p. 20) definendone una centralità operativa. Il territorio della rappresentazione diventa per l’autore il campo sul quale far scorrere e prefigurare la fisicità dell’architettura e il suo fare. 

Le architetture di carta, prima di approdare sul terreno, negoziano quindi con la geografia e con il tempo una possibilità inventiva dove il rapporto con la storia si traduce in quello con più “storie” e dove il disegno diviene esso stesso progetto. Märkli, perciò, ha il merito di lavorare su un doppio binario, quello della carta e quello del cantiere; per mezzo di queste architetture egli compone dispositivi (Deleuze 1989) secondo una identificazione con quelle che saranno le “strutture” del progetto compiuto e dello spazio abitato.

L’Headquarters building for Synthes a Solothurn, completato nel 2011, interroga la storia attraverso il disegno. Linee e superfici si susseguono per affondare nella carta e armare, ancor prima del getto di calcestruzzo, l’intero spazio di lavoro. Le domande che l’autore pone a se stesso attraversano nell’esecuzione grafica gran parte della vicenda dell’architettura, riassunta in un insieme di immagini che sovrappongo il livello della facciata di Palazzo Rucellai dell’Alberti a quella di Palazzo Thiene del Palladio per arrivare a definire una soluzione traducibile nel termine di nodo. L’esattezza esecutiva è pertanto figlia di un crocevia in cui «l’unione dell’orizzontale e del verticale è diventata una preoccupazione» (Johnston 2017, p. 120) e dove la cantierizzazione dell’opera, così come le soluzioni strutturali, sono discusse nella bidimensionalità del foglio. Territori orizzontali, privi di spessore, anticipano la verticalità del progetto dove la presenza del segno nero nel campo dell’A4 raccoglie interrogativi pratici privandosi della regolarità delle misure. L’assenza di una squadratura non porta all’abbandono di una regola geometrica, di una costruzione logica e proporzionale, ma dimostra la conoscenza della professione negli statuti disciplinari che emergono nella veste di oggetti ed elementi, colori, punti a risolvere l’intera composizione. In questo senso il Synthes si aggiunge alla successione logica che l’autore ha riportato sul foglio dove a partire dal Rinascimento le cose riemergono nella riproposizione di una lettera A capace, tuttavia, di aggiornare le posizioni, ovvero riunendo le sperimentazioni in un destino in grado di produrre figure nuove da oggetti copiati.

La giunzione tra il sistema verticale e quello orizzontale è evidenziata dalla presenza di un elemento quadrato in calcestruzzo a vista: il nodo, sintesi importante a cui Märkli giunge finalmente dopo molte ricerche e dopo un’approfondita indagine sulla capacità di ricostruire un’intera rete di relazioni basata su una semplice allusione a parziali indizi formali. Questa ricerca trova la sua origine nelle colonne della casa Radulff di Olgiati, nei disegni di modanatura di Palladio, e si fa strada attraverso le sue prime case con i rilievi di Josephsohn sopra i pilastri, raggiungendo infine la massima astrazione nella giunzione/nodo della Picassohaus di Basilea. Una delle immagini utilizzate per illustrare il progetto presentava due diversi riferimenti architettonici: Palazzo Thiene – in cui è piuttosto canonica la distinzione tra elementi verticali (colonne), orizzontali (trabeazione) e di transizione (capitelli) – e Palazzo Rucellai – dove invece questa distinzione tende a diminuire. (Azzariti 2019, p. 111) 

La facciata è un processo di risignificazione di questo programma progettuale dove l’architettura si pone domande alle quali il cantiere cerca di rispondere per verificare l’esistenza di un disegno che non sia solo visibile ma anche, soprattutto, attraversabile. Il nodo – un accurato avanzamento delle pratiche scultoree apprese nell’atelier di Josephshon[4] – annuncia il lavoro che il progetto fa in sezione tra piano orizzontale, determinato da una scansione puntiforme, e quello verticale dove i pilastri incontrano i solai sui quali gli ambienti trovano posto. La presenza dell’ordine architettonico segnala l’intervento di un doppio registro rivolto a più dimensioni scalari: il primo, quello “gigante” alto 22 metri sembra volersi collocare in un paradigma territoriale, al contrario, il secondo ordine, quello interno, si rivolge alla vita dell’uomo. Tale distinzione è la discussione di un palinsesto esecutivo di prove grafiche dove griglie geometriche e ortogonali tra loro, verificano la grammatica tra oggetti primari e secondari che emergono o vengono sommersi dalla sintassi scelta.

Se il pilastro appare autonomo, alla luce di questo, si può indicare come i disegni dimostrino che esso sia “vittima” di un’eteronomia che già a partire dalle residenze di Sargans (1986) rifletteva su un doppio binario di considerazioni. A Sargans la massa dell’edifico – primitiva nella dimensione – si posizionava come commento alle montagne circostanti entrando in una narrazione di oscurità e cavità; a Solothurn, tuttavia, i commenti continuano per rispondere alla geografia nei termini di una contemporaneità che non ha rinunciato all’arcaismo del 1986 ma che ne ha visto una possibilità di progresso procedendo verso nuove dimensioni delle cose. 

Anche il disegno è una cosa. Una volta che la mano ha tracciato sulla carta, il disegno ha una presenza fisica, una presenza propria. Ha una “Gestalt” e si fa avanti verso lo spettatore. Questa forma propria è anche accanto all’immagine, all’impulso, all’idea, alla ricerca o al contesto originari. È un segno. Esso fa un segno. (Hatz 2015, p. 146) 

Il sistema di disegni che hanno preceduto il progetto, e che precorrono ogni architettura dell’autore, manifesta la presenza di un metodo che ricerca l’esistenza di un linguaggio che va a costituirsi come prova e riprova nell’esecuzione grafica per divenire materia costruita. All’interno delle linee prodotte dagli spostamenti, Märkli elabora oscillazioni[5] in grado di chiarire che quei segni neri sono profondi, presenze dai contorni non ancora definiti ma chiari rispetto a una filologia dell’architettura. Gli oggetti che affiorano sono figli di un esodo che raccoglie indizi riportati su carta dove il progetto, in questo caso Synthes, ma ancor prima a Sargans, è la soluzione a un enigma dove l’uso di elementi fondamentali come basamenti, colonne, pilastri…, ovvero le lettere del linguaggio compositivo, come una lettera A, gli permette di fondare nuove geografie attraverso la costruzione e rielaborazione di cose collocate intorno a noi dove il rimando è spazio.

 L’autore desidera ringraziare Peter Märkli e Theresa Hacker per la loro collaborazione e disponibilità nella “costruzione” di questo testo. Si ringraziano Alexander Gempeler e Caroline Palla per le immagini.

Note

[1] «Märkli’s working procedures, however, are self-induced and are in part a deliberate reaction to the prevalent notion of the architect’s studio as an office machine. Among the writings of Alberto Moravia, one of a host of influential twentieth-century Italian writers well known to Märkli, is a novel published in 1960, entitled La noia. Moravia defines through his protagonist the concept of noia, boredom: ‘The feeling of boredom originates for me in a senso of absurdity of a reality which is insufficient, or anyhow unable, to convince me of its own effective existence… For me, therefore, boredom is not only the inability to escape from myself but is also the consciousness that theoretically I might be able to disengage myself from it thanks to a miracle of some sort.’ Most people think of boredom as the opposite of amusement, but for Moravia this is not the case. In fact, for him boredom comes to resemble amusement […]. In the same way that the interruption of the electric current highlights the artefacts of Moravia’s fictional house, distraction leads to a closer reading of things» (Mostafavi 2002, p. 8).

[2] Avventura, voce in Devoto G., Oli G.C. (2000), Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, p. 193.

[3] «Spolia in re (mediante il trasporto fisico di oggetti antichi - sculture, elementi architettonici e gemme - e la loro inclusione in un nuovo contesto) e spolia in se (oggetti creati ex novo, ma sulla base di modelli antichi) sono dunque le due facce di una stessa medaglia: l'antichità vi appare non più percepibile nella sua totalità, eppure fortemente caratterizzata e dotata di senso. Questo senso s'incarna e si traduce nel principio di auctoritas, che avvolge come un'aura le tramandate antichità, ed è definito da un lato dalla loro presenza, visibilità e accessibilità, e dall'altro dal vuoto (relativo) di conoscenze e abilità tecniche corrispondenti, e più ancora dalla coscienza, o dal senso, di quel vuoto», S. Settis, Continuità dell’antico, voce in AA.VV. (1994), Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, p. 256.

[4] È come se questi nodi abbiano assunto un’ulteriore precisione o precisazione rispetto a ciò che li ha preceduti. Märkli ha più volte evidenziato – citando gli studi di Kubelik – come anche gli elementi di Palladio fossero già presenti nell’architettura veneta e di come questi abbiano assunto nei progetti delle ville, ad esempio, una precisione superiore. Si veda Kubelik M. (1986) – “Palladio’s Villas in the Tradition of the Veneto Farm”. Assemblage, 1, pp. 90-115.

[5] «Che cosa accade se le immagini [cioè le mappe] cominciano a oscillare?», Wittgenstein L. (1956) – Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik. Blackwell, Oxford; trad. it. (1971) – Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Einaudi, Torino, p. 183.

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