Il disegno della forma del territorio

Luigi Savio Margagliotta



La questione del disegno qui affrontata è legata al passaggio di scala del progetto di architettura: sulla capacità e sulla consistenza del Disegno nel rappresentare e comunicare una forma spaziale e un’idea di spazio anche alla grande dimensione, territoriale e geografica.

Lo sviluppo della rappresentazione del territorio procede di pari passo con il susseguirsi e l’evolversi delle visioni di territorio che si modificano nel tempo, motivo per cui si vogliono qui inizialmente proporre le vicende che nell’arco della seconda metà del Novecento hanno condotto alle più recenti teorie, nonché alle relative forme di scrittura progettuale.

A partire dallo scorso secolo la relazione fra spazio e tempo è radicalmente cambiata, sia per quanto riguarda l’avanzamento tecnologico che ha aumentato la rapidità e l’espansione dei processi insediativo-infrastrutturali, sia per la crescente velocità degli spostamenti e la possibilità di raggiungere ogni parte del globo in tempi sempre più ridotti. Mutando i raggi d’azione dell’uomo e l’estensione dei suoi interventi variano di conseguenza le dinamiche di mutazione del territorio e con esse le scale del progetto, che deve confrontarsi con dimensioni più ampie e nuove questioni che non riguardano più solo la scala della città e del suo intorno ma quella più vasta del territorio in cui la prima è inclusa.

L’insieme e l’espansione di questi fenomeni di accelerazione ha tuttavia reso evidente l’inadeguatezza degli usuali strumenti di progettazione e l’assenza di tecniche di intervento a grande scala in grado di controllare gli effetti o di provocarli. Ciò apre a livello sia pratico che teorico a delle riflessioni che non riguardano solo la ricerca di un’aggiornata metodologia progettuale, ma anche l’esigenza di un mezzo espressivo adeguato a rappresentarne gli intenti.

Il progetto nel territorio

Il progetto alla scala territoriale è stato fino allo scorso sessantennio legato al tema della città; solo dopo una serie di vicende assunse una propria autonomia tematica. Fu infatti l’insorgere dei problemi connessi alla conurbazione e all’espansione incontrollata della città a spostare via via il piano del dibattito architettonico oltre i limiti urbani.

Nel 1930 il geografo Walter Christaller pubblicava la sua teoria sulle localizzazioni centrali, in cui la città era considerata in una visione integrata come il polo fisico del sistema territoriale circostante. Da quel momento, come afferma Emilio Battisti, la città viene riconosciuta strutturalmente collegata al suo intorno territoriale; connessione a partire dalla quale non sarà più «concettualmente ammissibile parlare di città isolatamente dal territorio» (Battisti 1975, p. 224).

Era evidente che qualcosa stava cambiando: nuove e rilevanti questioni imponevano l’allargamento del punto di vista verso dimensioni più ampie e nuove criticità annunciavano l’esigenza di rinnovati strumenti per spingersi oltre il disegno e il funzionamento della forma urbis. L’irrisolto apparente dissidio tra città e campagna[1] da un lato, i problemi relativi alle relazioni dislocative di produzione-servizi-residenze dall’altro e infine il mutamento della fisionomia della città in metropoli, o megalopoli, che, avanzava incontrollata fagocitando disordinatamente il suolo circostante, davano conto di una indiscutibile verità: per disinnescare alcuni degli effetti prodotti dalle pratiche urbanistiche moderne non bastava far ricorso alle logiche previsionali e allo zoning ma bisognava interrogarsi su nuove figure spaziali in grado di trovar risposta alle nascenti problematicità[2].

Tali furono le premesse del Convegno di Stresa del 1962 che ebbe come tema centrale quello della città-territorio, una nuova entità dimensionale che avrebbe adesso dovuto basarsi sul decentramento delle funzioni portanti della città e sul loro ri-dislocamento più esteso e omogeneo. «Qual è la dimensione fondamentale cui far riferimento nelle nostre ipotesi di sviluppo urbanistico? Qual è, anche, la struttura che inquadra la nostra ricerca formale?» (1962, p. 16). Queste sono le fondamentali domande che Giorgio Piccinato, Vieri Quilici e Manfredo Tafuri si pongono in merito alla situazione corrente: ossia il termine di città-territorio indica solo un cambiamento di scala o anche una diversa angolazione visuale nell’affrontare i rapidi mutamenti allora in atto?

Il progetto di territorio

Parallelamente alle ipotesi per contrastare la periferizazzione e lo sprawl urbano che ancora individuano nel sistema-città l’unico focus da risolvere, si afferma un differente punto di vista che estende i concetti di spazio e forma architettonica all’intero ambito territoriale. Viene abbandonata la concezione urbanocentrica a favore di una visione che riconosce la struttura e la materialità dell’intero territorio, in quanto spazio concreto operabile mediante lo strumento del progetto: contesto morfologico di cui la città, al pari delle emergenze naturali e degli altri segni antropici, rappresenta solo uno degli elementi in esso contenuti; nonché sistema autonomo e risorsa esauribile, da comprendere, risignificare e tutelare attraverso operazioni architettoniche. Allo stesso modo il territorio rappresenta il risultato dello stratificarsi di azioni successive. E ciò non significa solo ambiente fisico più o meno modificato, ma anche attitudini comportamentali che ad esso si riferiscono (Olivieri 1978, p. 14).

«Il territorio non è un dato, ma il risultato di diversi processi», scrive a proposito André Corboz (1985, pp. 23-24). «In altri termini – prosegue lo stesso –, il territorio è oggetto di costruzione. È una sorta di artefatto. E da allora costituisce anche un prodotto. [...] Di conseguenza, il territorio è un progetto. [...] Queste diverse traduzioni del territorio in figure rinviano ad una realtà incontestabile: che il territorio ha una forma. Anzi, che è una forma. La quale, ovviamente, non è detto debba esser geometrica».

Alla luce delle attuali condizioni, la questione territoriale è oggi più che mai centrale in quanto si vanno a sommare alle precedenti rimaste irrisolte nuove e diverse problematicità legate all’avanzare di un conflitto che coinvolge sia i territori marginali che quelli più estesi, nei quali si estinguono forme, pratiche e culture che agiscono attraverso relazioni complesse e antichi equilibri (Falzetti 2015, pp. 10-11). Ragionare sulle capacità del progetto di architettura quale strumento in grado di produrre visioni e sul processo di costruzione della forma, che non ha dimensioni ma regole e principi, diventa quindi necessario per analizzare e comprendere i fenomeni del mondo e poter intervenire nei processi di trasformazione che riguardano tutte le scale del manufatto: dall’edificio, alla città, al territorio.

Il disegno del territorio

Il termine costruzione indica alla dimensione territoriale e geografica una pratica che non riguarda esclusivamente l’edificazione, ma il senso ed il valore di un processo di reinterpretazione e ristrutturazione formale dell’esistente. Nel progetto di architettura alla grande scala, che concorre alla costruzione di un insieme formale, mutano non solo le dimensioni ma anche la composizione dello spazio, determinato dalle relazioni spaziali tra elementi distinti, anche distanti. In rapporto allo spazio da rappresentare cambia pertanto il tipo di rappresentazione dello spazio, che deve descrivere non solo scale differenti, nonché comunicare, anche a questa scala, una forma spaziale e un’idea di spazio. I disegni canonici quali piante, sezioni e prospetti, spesso riferibili a manufatti dalle più ridotte dimensioni, vengono così sostituti da viste planimetriche e prospettiche adatte a restituire nella sua interezza il campo in esame. Analogamente le illustrazioni di tipo urbanistico lasciano il posto all’invenzione di una scrittura quasi biografa volta a descrivere intenzioni e interpretazioni mediante l’utilizzo di un codice espressivo «che si pone a metà strada tra concetto e immagine» (Pellegrini 1966, p. 103)[3].

Una data molto importante per lo sviluppo storico e tematico della questione è quella del 1963-64, anno della tesi di laurea di Salvatore Bisogni e Agostino Renna appunto titolata Introduzioni ai problemi di disegno urbano dell’area napoletana[4]. Non è un caso che tale punto di svolta avviene proprio a Napoli, un territorio in cui le emergenze naturali, in primis quella del Vesuvio da sempre punto di riferimento fisico e simbolico dell’ambiente partenopeo, si impongono con notevole impatto formale ed evocativo.

Lo studio si interroga sui problemi morfologici a grande scala di fronte alla ricerca di una metodologia progettuale che cerca di superare l’impasse operativa, motivo per cui viene applicato un punto di vista non descrittivo ma più specificatamente progettuale. Inizialmente i due autori compiono una scomposizione del campo analizzando isolatamente i caratteri presenti, per proporre infine un modello urbano senza gerarchia di livelli, in cui struttura orografica e tessuti edilizi, preesistenze naturali e impianto antropico, costituiscono una continuità formale ed inscindibile: un complesso «[…] “Disegno” da non intendersi come un insieme visualmente ben ordinato, ma come un “campo” di relazioni formali tra gli elementi costitutivi» (Bisogni e Renna 1966, p. 131).

Il temine Disegno assume qui infatti il doppio significato di strumento e di composizione; è sia mezzo di rappresentazione che oggetto della rappresentazione stessa. Ciò è importante per cogliere che il tema del lavoro di Bisogni e Renna sia duplice, poiché indaga nella sua interezza la questione progettuale della grande scala ma anche i problemi relativi alla sua rappresentazione. «L’insieme dei loro disegni, sospesi in una produttiva ambiguità tra immagine simbolica e proiezione obbiettiva, è […] capace di restituire tutta la complessità materica, geografica, tipologica e storica di un insieme urbano e territoriale», scrive infatti Vittorio Gregotti (1974, p. 7). All’inizio si è operato in modo consueto, affermano Bisogni e Renna, servendosi di disegni planimetrici per rappresentare le organizzazioni dell’area; poi, attraverso diagrammi e viste a volo d’uccello (Figg. 1, 2), «figura il tentativo di sostituire a dirette annotazioni di tipo realistico dei simboli tendenti a rappresentare relazioni tra forme più che forme» (1966, p. 129). La rappresentazione del territorio fino ad allora limitata ad una visione urbanistica viene definitivamente superata da una un disegno capare di illustrare in maniera autografa e interpretativa quanto analizzato ma anche quanto desunto e proposto: vengono trasportate sul piano del simbolismo e dell’evocazione formale le immagini delle forme concrete, mettendo in luce le relazioni formali fra queste attraverso l’approntamento di modelli espressivi (Fig. 3), elaborati sintetici ed evocativi in cui anche le suggestioni e le proprie interpretazioni sono tradotte in un disegno.

Prendono avvio in quegli anni diverse ricerche progettuali che si concentrano adesso sulla forma e sulla struttura del territorio. Carlo Doglio e Leonardo Urbani costituiscono due figure particolarmente rilevanti e, per ragioni accademiche, anche per certi versi due ponti tra Napoli e Palermo per quanto riguarda la metodologia applicata. Alla base delle loro teorie progettuali si evincono un certo grado di astrazione che svincola la dinamica forma-struttura del territorio al sistema che la identifica in un determinato periodo, e l’utilizzo di un linguaggio espressivo in grado di offrire interpretazioni culturali del territorio (Doglio e Urbani 1970, p. 35). Tali assunti sono perfettamente corrisposti dalle visioni che i due architetti propongono per Napoli (Fig. 4) ma soprattutto per la Sicilia. Nello specifico, i disegni che corredano La fionda Sicula. Piano della autonomia siciliana[5] (Figg. 5, 6) e Braccio di bosco e l’organigramma[6] (Figg. 7, 8, 9) mostrano appieno la complessità di illustrare un discorso che tiene assieme il dato naturale e quello immateriale sia esso economico o amministrativo. Ed è proprio la ricerca di una matematicamente impossibile somma tra elementi diversi a condurre ad una forma di disegno che deve in certi momenti necessariamente abbandonare l’oggettività per riuscire a comunicare un’idea. Ne derivano dei disegni che in parte raffigurano la struttura del territorio attraverso l’analisi dell’orografia, in parte invece degli elaborati (sia per l’invenzione creativa che per l’esecuzione tecnica di notevole contenuto estetico) alla cui interpretazione formale è affidato il senso dell’intenzione progettuale.

Uno dei principali disegnatori delle opere di Doglio e Urbani fu Nicola Giuliano Leone, architetto e urbanista, autore di numerosi progetti e piani regolatori e territoriali in Italia e all’estero. Le sue rappresentazioni costituiscono la cifra distintiva dei suoi progetti, veri e propri «endo-prodotti capaci di comunicare immediatamente l’idea di città e di territorio in una virtuosa simbiosi di segno e pensiero» (Gabellini 2020, p. 10). Si tratta di un lavoro paziente e meticoloso a cui difficilmente i mezzi di rappresentazione digitali potranno sostituire la forza comunicativa di un tratto a mano dalla grande valenza artistica ed espressiva. Un’esperienza in particolare riassume l’importanza del disegno quale strumento di ricerca nell’opera di Leone. Nel 1979 fu incaricato di curare una prospettiva che servisse da icona per il lancio turistico del monte Amiata e di costruire un marchio per la produzione di insaccati di maiale avviata sullo stesso monte (Fig. 10). Il disegno, assunto quale mezzo figurativo attraverso cui comprendere, razionalizzare e dar forma all’esistente, diviene qui anche strumento per rafforzare la coesione sociale di un territorio fisicamente unitario ma suddiviso in undici amministrazioni comunali e due provincie. Al pari del Vesuvio per il capoluogo partenopeo, dell’Etna per la Sicilia orientale e oltre, delle costruzioni figurative del monte Fujiyama di Hokusai e della montagna di Sainte-Victoire di Cézanne, il monte Amiata è eletto a riferimento territoriale e paesaggistico per la costruzione di un’idea di territorio, in cui l’elemento fisico acquista artificiosamente significato sociale e diventa icona culturale.

«Rappresentare il territorio è già impadronirsene – scrive infatti Corboz. Ora, questa rappresentazione non è un calco, ma una costruzione. Si fa una mappa prima per conoscere, poi per agire» (Corboz 1985, p. 25).

Attraverso il disegno il territorio viene scomposto in forme che tentano di essere conosciute attraverso la sua geometrizzazione grafica. Allo stesso modo per progettare bisognerà intervenire ricomponendo la materia di cui lo stesso è costituito, cioè forme assemblate nello spazio. Le semplici proiezioni ortogonali non riescono tuttavia ad esibire le complessità fisiche, antropologiche ed immateriali presenti nel territorio. Si passa così ad una forma di scrittura meno oggettivante, talvolta pittorica, ma capace di interpretare i fenomeni spaziali del territorio, culturali e formali, nonché comunicare attraverso uno stesso segno un’idea di progetto. Il Disegno di Architettura, anche alla scala territoriale, costituisce pertanto parte inestricabile di tutte le sue fasi. Oltre che strumento di analisi e di rappresentazione ad esso è affidato anche il canale espressivo: collaborando con gli aspetti formali è infatti in grado sottolinearne il tema e gli accenti; e attraverso l’utilizzo di un codice stilistico specifico permette di comprendere, assieme all’opera, costruita o solamente immaginata, anche l’autore.

Note

[1] A tal proposito Giuseppe Samonà propone nel 1976 la sua teoria su La città in estensione, la cui sempre attuale chiave di lettura risiede sulla possibile «dialettica assai viva tra gli equilibri delle nuove relazioni spaziali che si creeranno tra il territorio agricolo diventato città in estensione e il grande territorio naturale non permanentemente abitato».

In: Samonà G. (1976) – La città in estensione. Atti della conferenza tenuta presso la Facoltà di Architettura di Palermo il 25 maggio 1976. STASS Stampatori Tipolitografi Associati, Palermo.

[2] Si collocano in quest’ambito le ricerche spaziali e figurative di Ludovico Quaroni, le sperimentazioni sul tema dell’unicum dei centri direzionali o dei parchi territoriali, o ancora quelle sulla continuous city in qualche modo già introdotta a cavallo degli anni Trenta da Le Corbusier che conia il termine di geo-architetture: piani di città che si sviluppano sulla grande scala proponendo nello stesso segno un sistema abitativo e un modello di mobilità.

[3] Le proposte progettuali di Cesare Pellegrini pubblicate nel 1966 nel numero 87-88 La Forma del Territorio di «Edilizia Moderna», una sorta di esercizi compositivi definiti dallo stesso con i termini di interventi di qualificazione figurativa, dimostrano in tal senso un impiego del disegno non come strumento di rappresentazione ma come mezzo del comporre. Pellegrini opera con il preciso intento di riorganizzare la struttura (ristrutturare appunto) di una parte di territorio attraverso l’inserimento di segni, spesso astratti e dall’incerta entità ma carichi di intenzione formale, che introducono potenziale di immagine nel circostante.

[4] Il lavoro relativo alla tesi di laurea (Relatori proff. Giulio De Luca e Francesco Campagna) fu pubblicato inizialmente nel 1966 nel numero monografico curato da Vittorio Gregotti La Forma del Territorio di «Edilizia Moderna» n. 87-88 e, successivamente, nel 1974, nel volume Il disegno della città di Napoli dagli stessi autori Salvatore Bisogni e Agostino Renna con introduzione di Gregotti.

[5] Il progetto de La fionda sicula riguarda innanzitutto la visione di una Sicilia come punto centrale e ponte di scambio all’interno del Mediterraneo, che propone un nuovo quadro di infrastrutture territoriali (i polidotti) per rendere agevole l’attraversamento e i trasporti interni; poi anche un Piano per l’autonomia di una regione attenta alle proprie risorse, che punta sui propri talenti territoriali per intraprendere attività di produzioni e un nuovo sviluppo economico.In: Doglio C. e Urbani L. (1972) – La fionda sicula. Piano della autonomia siciliana. Il Mulino, Bologna.

[6] In Braccio di bosco e l’organigramma i due architetti presentano un possibile modello per lo sviluppo amministrativo e produttivo della regione, in cui geometrie naturali e geometrie ideali si sovrappongono generando un nuovo disegno territoriale governato da un’impostazione a duplice normativa. Nei Bracci di Bosco prevalgono le vocazioni naturali: questi si dipartono dalle linee di forza storico-naturali dell’isola costruendo un tessuto territoriale per il quale è previsto una normativa a vincolo rigido, finalizzata alla salvaguardia e alla conservazione dei suoi caratteri originali. Per le restanti zone, nelle quali prevale invece l’indifferenza territoriale, la normativa sarà a vincolo agile, cioè di volta in volta indirizzata alle emergenti esigenze dei singoli comprensori produttivi ed al loro potenziamento.In: Doglio C. e Urbani L. (1984) – Braccio di bosco e l’organigramma. Flaccovio Editore, Palermo.

Bibliografia

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DOGLIO C. e URBANI L. (1984) – Braccio di bosco e l'organigramma. Flaccovio Editore, Palermo.

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