Minimum drawing, maximum dwelling. Forme di existenzminimum tra disegno e progetto

Giovanna Ramaccini



Introduzione

«Aldo Rossi aveva un modo di rapportarsi con i tecnici totalmente diverso da quanto avevamo sperimentato fino ad allora: faceva degli schizzi, poi li presentava e aspettava che i tecnici facessero tutte le osservazioni e correzioni […] tanto che un giorno lo zio glielo disse, con il suo modo burbero: ‘Ma architetto, non può portarci dei disegni esecutivi invece di questi schizzi da cui non si capisce niente?’ Fu quella l’unica volta che vidi Rossi arrabbiato» (Alessi 2016, p. 76). L’aneddoto, che ha per oggetto il burrascoso incipit di quello che poi si rivelerà essere il fortunato sodalizio tra Aldo Rossi e l’azienda Alessi, è esemplificativo della necessità di adottare un linguaggio codificato nella comunicazione dell’idea, persino quando l’interlocutore interessato è notoriamente esperto. La difficoltà del passaggio dall’immediatezza del disegno ideativo all’esattezza del disegno esecutivo risulta particolarmente evidente nei casi in cui la realizzazione del progetto prevede la definizione di standard, possibilmente da riprodurre in serie. In questo senso, con specifico riferimento al progetto di architettura, assume particolare rilievo il tema dell’existenzminimum, laddove l’alloggio, inteso come il luogo privilegiato volto a garantire standard qualitativi elevati e a rispondere ai bisogni dei suoi abitanti, viene concepito come una machine à habiter in cui le ridotte dimensioni degli spazi si combinano alle elevate caratteristiche di funzionalità. Come noto, il concetto di existenzminimum viene sancito a livello internazionale dal II Congrès International d’Architecture Moderne – CIAM – tenutosi tra il 24 e il 27 ottobre 1929 a Francoforte sul Meno (Die wohnung fur das existenzminimum 1979). Curato da Ernst May insieme a Mart Stam, il congresso vede partecipare al dibattito teorico, volto alla definizione di uno standard abitativo minimo per la popolazione urbana, alcuni dei principali protagonisti del panorama dell’architettura moderna europea.

Al Professor Dottor Water Gropius di Berlino è stato affidato il riassunto generale «I presupposti sociologici dell’alloggio minimo». Victor Bourgeois, di Bruxelles e Pierre Jeanneret di Parigi hanno trattato nei particolari la questione dell’abitazione per il livello minimo di vita. Bourgeois è partito dai fondamenti fisici e Pierre Jeanneret – in sostituzione di Le Corbusier che si trovava in America – ha indicato soprattutto le possibilità di realizzazione. Hans Schmidt, di Basilea, infine, ha tenuto una relazione sull’importante tema «Alloggio minimo e norme edilizie» in cui ha dimostrato come le attuali norme edilizie, con le loro rigide caratteristiche, non impediscono affatto di giungere a una soluzione efficace dell’abitazione per il livello minimo di vita (Aymonino 1976, p. 96).

A partire dai principi illustrati da Ernst May nel suo contributo introduttivo, lo standard abitativo minimo è interpretato sia in termini quantitativi sia in termini qualitativi, tenendo in considerazione le condizioni biologiche e sociologiche volte al soddisfacimento delle esigenze materiali e spirituali degli abitanti, con specifico riferimento all’edilizia di massa (Aymonino 1976, p. 100). Tra le diverse tipologie di casa studiate negli anni Venti, infatti, quella destinata al ceto popolare è la più indagata dagli architetti, in quanto permette di esprimere con maggiore forza le idee di razionalità applicate agli interni, quali l’ordine, la semplicità, l’economia (Savorra 2019). Nell’ambito dello stesso CIAM, oltre ai contributi teorici assume altrettanta importanza la mostra Die Wohnun für das Existenzminimum, coordinata dallo stesso May, in occasione della quale vengono esposti e successivamente pubblicati numerosi esempi di case minime. Si tratta di una serie di immagini in pianta che accomunano appartamenti localizzati in svariate parti del mondo e che, così come intenzionalmente espresso dai protagonisti del dibattito, è mossa dall’intento di codificare le diverse misure dell’attrezzatura con una convenzione internazionale, secondo i criteri dell’industrializzazione e della taylorizzazione – così come descritto da Le Corbusier e Pierre Janneret (Aymonino 1976, pp. 113-123) – e auspicando il raggiungimento di una standardizzazione tipologica. D’altronde, il concetto di tipo viene continuamente ricercato da parte del Movimento Moderno: «dall’urbanistica ‘prefabbricata’ del Bauhaus […] alle numerose esperienze legate alla costruzione delle Siedlungen» (Belloni 2014, p. 33). In particolare, per le finalità specifiche del presente contributo, si pensi agli studi e alle sperimentazioni condotti da Alexander Klein e all’importanza da essi assunta per lo sviluppo della teoria sull’existenzminimum.

Minimum drawing, maximum dwelling[1]

In relazione alle finalità specifiche del presente contributo, in questa parte del testo preme sottolineare il valore attribuito al disegno nelle ricerche dedicate all’existenzminimum, evidenziandone le ricadute dal punto di vista progettuale, a partire dagli studi condotti da Alexander Klein sin dal 1906 (Baffa Rivolta, Rossari 1975). Con l’obiettivo di fornire strumenti di misurazione e di verifica delle prestazioni ottimali in termini di organizzazione dello spazio dell’alloggio, funzionali alla messa a punto uno standard abitativo minimo, Klein sviluppa un metodo comparativo, interamente attuabile all’interno del processo del disegno, perché fondato sul confronto tra piante diagrammatiche uniformate graficamente, proponendo così una classificazione tassonomica che affonda le proprie radici nella trattatistica ottocentesca, in cui la trasmissione del sapere è funzionale alla sua applicazione pratica – si pensi alle tavole del Précis in cui, individuando nella Convenance e nell’Économie i due criteri fondamentali per la pratica progettuale, Durand propone un vero e proprio «prontuario ragionato di prototipi architettonici facilmente impiegabili in relazione alle necessità funzionali» (Belloni 2014, p. 30) – e che sarà adottata dai successivi manuali di progettazione (Strappa 1995, p. 110) –dal Manuale dell’architetto a cura di Mario Ridolfi (1946) all’Architettura pratica a cura di Pasquale Carbonara (1954). L’esperienza funzionalista, che trova in Klein uno dei suoi massimi esponenti, lavora sulla «messa a punto di parti-tipo degli organismi edilizi (scala, ufficio, bagno-cucina, stanza, aula, ecc.) che [possono] tornare ad essere strumenti di una più vasta composizione architettonica» (Aymonino, Aldegheri, Sabini 1985, p. 11). L’alloggio è progettato a partire dall’individuazione di tre momenti principali dello svolgimento dell’attività quotidiana nell’ambiente domestico, segnatamente cucinare-mangiare, abitare-riposare, lavarsi-dormire, collegati da passaggi brevi e privi di interferenze reciproche. Il metodo di indagine elaborato da Klein risulta articolato in tre fasi: procedendo dall’analisi statistica per mezzo di questionari, passando per la riduzione dei progetti alla stessa scala, fino a giungere al metodo grafico mediante cui «perfezionare un progetto cioè aumentare l’efficienza dell’alloggio mantenendo la medesima superficie oppure diminuire la superficie mantenendo l’efficienza dell’alloggio» (Baffa Rivolta, Rossari 1975, p. 93). Eppure, sebbene evidentemente orientata all’individuazione dei caratteri funzionali e distributivi degli edifici, la classificazione di Klein non può essere interpretata come un mero metodo oggettivo di valutazione dello spazio abitativo. Pur trattandosi di rappresentazioni schematiche, è ormai assodato il valore di mediazione che queste assumono tra l’elaborazione teorica e la concretizzazione progettuale «[combinando] una straordinaria capacità di sintesi descrittiva ad una grande potenzialità di proiezione poetico-ideativa, istituendo nel contempo la possibilità di un autentico dialogo scientifico fra le parole della teoria e le cose dell’edificazione» (Ugo 1986, p. 23). Se da un lato il metodo grafico si pone come strumento analitico, dall’altro assume un ruolo operativo nel processo creativo laddove, per comparazione, attribuisce una componente genetica e inventiva allo schema in pianta (Ugo 1986, p. 27; Purini 2000, pp. 155-156; Belloni 2014, pp. XXIII-XXV). D’altronde ciò avviene coerentemente al contesto del pensiero moderno che attribuisce alla pianta un valore centrale nel progetto alle diverse scale, dall’architettura alla città, fino a coinvolgere tematiche sociali (Carones 2017, pp. 37-59). Basti pensare all’esclamazione di Le Corbusier (1973/2010, p. 35): «È la pianta l’elemento generatore. Tanto peggio per chi è privo d’immaginazione!». Rispetto alla definizione scientifica dello standard, Klein introduce un obiettivo di tipo psicologico.

A tutti noi è noto l’influsso dannoso del tabacco, dell’alcol, delle spezie ecc. e ci interessiamo di questi problemi; tuttavia solo pochi di noi si interessano al fatto, dimostrato scientificamente, che un ambiente favorevole può esercitare un effetto salutare sulle nostre condizioni psichiche […]. L’alloggio che ci costruiamo deve essere in relazione attiva ed organica con le condizioni di vita ed i bisogni culturali della nostra epoca, inoltre deve soddisfare le necessarie richieste di maggiore economia e semplicità; in una parola deve aiutarci in ogni sua parte e sotto ogni punto di vista a renderci più facile la vita e nel contempo a mantenere le nostre energie fisiche e spirituali (Baffa Rivolta, Rossari 1975, p. 77).

Accanto a chiare logiche di distribuzione, infatti, l’adozione di forme semplici nella costruzione, nella disposizione e nell’arredamento sono considerate fondamentali per garantire la tranquillità, il riposo e il recupero delle forze impiegate durante lo svolgersi dell’attività lavorativa. Da questo punto di vista è interessante notare come l’attenzione riposta verso la dimensione intima dell’abitare trovi conferma in rappresentazioni esclusivamente rivolte agli spazi interni. Gli schemi in pianta degli alloggi sono associati ai relativi prospetti interni al fine di valutare la qualità spaziale percepita dagli abitanti. Vengono così messe in evidenza le superfici delle finestre – fonti di illuminazione e di ventilazione – la disposizione dei mobili lungo le pareti, le parti in ombra nonché le superfici libere. Così, per garantire spazi di circolazione il più possibile liberi e scongiurare «uno spreco di forze fisiche inutile, generato dalla continua necessità di dover accelerare e rallentare il passo e ruotare ripetutamente il corpo» (p. 95), la nuova abitazione richiama alla necessità di contenitori incassati alle pareti piuttosto che mobili ingombranti addossati ai muri, portando all’integrazione dell’arredo nello spazio architettonico e quindi a una normalizzazione dell’arredamento basata sui criteri quali la modularità, la versatilità e la componibilità (Forino 2019, pp. 193-195; Nys 2020). Così come intuito da Le Corbusier e Pierre Jeannert nel progetto dei casiers standard del 1924 o da Adolf Loos nel suo scritto programmaticamente titolato L’eliminazione dei mobili, datato proprio 1924, laddove l’autore sottolinea il futuro dissolversi degli arredi mobili, previsti fagocitati dal muro.

All’architetto appartengono i muri della casa. Qui egli può fare ciò che vuole. E come i muri gli appartengono i mobili che non si possono spostare. Essi non possono fungere da mobili: fanno parte del muro e non hanno una vita propria come gli antimoderni armadi di lusso (Loos 1972/2014, p. 324).

Avviandosi a introdurre l’evoluzione dell’existenzminimum nell’epoca contemporanea (Irace 2008), è proprio a partire dal riferimento all’elemento del muro, per definizione limite tra spazio interno e spazio esterno, che appare necessario soffermarsi su un aspetto finora trattato solo implicitamente. Sebbene associata a un aumento del livello delle attrezzature e delle prestazioni, la riduzione delle superfici nello spazio abitativo comporta una concezione articolata e complessa dell’alloggio, che tiene inevitabilmente conto di una relazione con l’esterno (Baffa Rivolta, Rossari 1975, pp. 36-37), tanto dal punto di vista funzionale quanto dal punto di vista emozionale. Si pensi alla lungimirante Casa telematica di Ugo La Pietra (1972), concepita come una micro-architettura a sezione triangolare, in cui la comunicazione con l’esterno avviene attraverso collegamenti virtuali mediati da apparecchiature quali il “Ciceronelettronico” e il “Videocomunicatore”. O ancora, si pensi al più recente progetto Diogene, dello studio RPBW (2011-2013), concepito come una perfetta machine à habiter, standardizzabile e all’avanguardia tecnologica, in cui il rapporto con l’esterno viene garantito mediato da un taglio verticale, di umanistica memoria, “a contatto” con il cielo (Ottolini 2010, pp. 17-31).

Considerazioni conclusive

Volgendo alle conclusioni, è doveroso soffermarsi su come l’avvento della pandemia di Covid-19 abbia evidenziato l’esigenza di abitare in case adattabili e flessibili, i cui interni possano essere modificati e riconfigurati agilmente e con interventi leggeri (Bassanelli 2020; Molinari 2020). Una necessità ancor più esasperata in condizioni di spazi di vita minimi. In questo senso, sebbene precedente al manifestarsi dell’emergenza sanitaria, risulta esemplificativa l’esperienza condotta dall’architetto giapponese Gary Chang (Chang 2012). Nell’arco di trent’anni, dal 1976 al 2006, il progettista ha trasformato i 32 mq della sua abitazione in ventiquattro differenti soluzioni distributive, di volta in volta variate in risposta al mutare delle condizioni personali, concependo l’architettura come un dispositivo in grado di adattarsi ai cambiamenti. Se da un lato l’idea viene rappresentata attraverso schizzi in pianta in cui si stratificano annotazioni e ripensamenti, certamente funzionali allo sviluppo del pensiero e probabilmente sufficienti alla relativa comunicazione – data la specifica coincidenza tra progettista e committente – dall’altro l’autore sviluppa schemi in pianta, rivolti a un pubblico esterno, affidando al disegno un gesto di registrazione e di documentazione volto a testimoniare una situazione progettata ma mutevole, perché in continua evoluzione. Ancora una volta, come nel caso delle rappresentazioni diagrammatiche di Klein, l’abaco delle piante redatto da Chang non è uno schema astratto, ma piuttosto lo strumento per la lenta e progressiva definizione di forme minime, massimamente adeguate alla vita. 


Note

[1] Il titolo del paragrafo, così come quello dell’intero articolo, è volontariamente riferito all’opera The minimum dwelling (1932/2002) di Karel Teige. Il testo, pur differenziandosi per trattazione dagli argomenti oggetto del presente contributo, è un riferimento imprescindibile per la letteratura relativa alla riflessione intorno al tema dell’alloggio minimo che interessa il dibattito internazionale dei primi del Novecento.

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