L’invenzione della felicità. Il disegno in Lina Bo Bardi

Caterina Lisini





«Lo scrivere non mi interessa», dice con sobria franchezza Lina Bo Bardi a Francesco Tentori, «so perfettamente di saper scrivere bene. I miei maestri sono Stendhal e Majakowskij. Il primo mi ha insegnato la concisione, quando annotò di aver imparato a scrivere dai direttori del catasto edilizio francese e dagli estensori degli articoli del Codice Civile. Il secondo, invece, mi ha insegnato il ritmo, la fantasia del reale» (Tentori 2004, p. 151).

Anche il disegno, nella Bo Bardi, sembra vivere di una analoga doppia anima, fino a una multiformità di valenze straordinariamente feconde. Non solo, o non tanto, disegni di architettura, disegni tecnici funzionali al progetto, all’esecutivo, al cantiere. Ma neppure disegni semplicemente ideativi, schizzi di studio, disegni di ricerca teorica o d’espressione. E neppure, ancora, disegni di viaggio, di impressione, di fantasia. I suoi disegni, dal tratto a volte di impronta un po’ naïf, altre volte minuziosamente precisi e costruttivi, variati in tante tecniche, dallo schizzo a matita, alla gouache, all’acquerello, al disegno a china, al collage, e spazianti su temi e scale estremamente variegati, semplici oggetti d’uso, mobili, gioielli, vestiti, singole case d’abitazione, complessi di residenza popolare, edifici pubblici di grande scala e complessità e poi ancora scenografie teatrali e allestimenti museali ed espositivi, nel loro insieme sembrano tutti segnati dall’apparente, dichiarato ossimoro: «la fantasia del reale».

In piena guerra, nell’agosto 1942, la rivista “Domus”, allora passata sotto la direzione d’emergenza composta da Melchiorre Bega, Massimo Bontempelli e Giuseppe Pagano, chiede «ad alcuni architetti di raccontare […] con intima confidenza, l’ideale progetto di una loro casa di sogno», un tema sfuggente, quasi «a disegnare l’impossibile» (Redaz. Domus 1942, p. 312), tanto da poter essere declinato, nelle molte ‘confessioni’ che seguono (Banfi, Belgiojoso, Zanuso, Cattaneo, Diotallevi e Marescotti, Cocchia, Bianchetti e Pea, Mollino, Pica e altri) come simbolica casa razionalista, come spirituale casa astratta, come argomento di pura evasione, come fantasticheria autobiografica. Tra i molti disegni conservati da Lina Bo Bardi del suo periodo di formazione prima a Roma e poi a Milano, una litografia su carta del 1943, dal titolo Camera dell’architetto sembra poter appartenere a questa galleria di riflessioni, offrendo l’autoritratto, ironico e meditativo, di un periodo della sua vita che sta per concludersi e rivelando già in nuce una costante della sua opera, l’intrecciarsi profondo tra disegno e autobiografia. Su di una parete appena accennata un armadio in stile, con le ante semiaperte, fa da sfondo borghese ad un tavolino dalle gambe tornite a cui è affiancata una tradizionale sedia impagliata: l’intero spazio domestico è affollato da una moltitudine di modelli di architettura, per lo più di fantasia, dove si incontrano, in primo piano, un tempio classico e un tempietto rinascimentale, un frammento di villa palladiana ed elementi di abitazioni storiciste mentre a terra un capitello ionico è accostato ad astratti solidi geometrici. Dall’armadio affiorano sagome di architetture più connotate: obelischi, una torre medievale, la torre di Pisa, il Colosseo, e su di un lato, isolato sopra una piccola mensola, trova posto il modello di un’architettura moderna, connotata da pilotis e fenȇtre en longueur, che cela parzialmente un alto obelisco. Più che un’allegoria, il tratto continuo del disegno, da illustrazione, che non fa sfoggio di alcun virtuosismo tecnico, sembra rappresentare un allegro coacervo, stemperando in un’immagine lieve la molteplicità di riferimenti del bagaglio culturale dell’architetto, messi tutti insieme, senza gerarchie, piuttosto in muto dialogo tra di loro. Evidente è il segno di indirizzo culturale lasciato dalla collaborazione svolta, assieme a Carlo Pagani, alle imprese editoriali di Gio Ponti negli anni 1940-1943, che la vedono quasi abituale presenza nell’ultima annata di “Domus”, e con continuità su “Stile”, dove si occupa di arredamento, architettura d’interni, illustrazione e grafica, arrivando a disegnare molte copertine della rivista, e persino sporadicamente su altre riviste della galassia pontiana, quali “Aria d’Italia”, “Bellezza”, “Vetrina e negozio”. Tuttavia nel 1943 nuove inquietudini stanno attraversando la vita della Bo Bardi e sembrano trapelare dal senso di sospensione del disegno: le vicende drammatiche della guerra, l’impasse del razionalismo e i nascenti dibattiti in seno ai gruppi dei giovani architetti, l’incontro con Pietro Maria Bardi, il crescente bisogno di affermare le proprie convinzioni personali le rendono angusto l’orizzonte classico e idilliaco del milieu di Gio Ponti.

Irrompono l’urgenza della realtà e nuove consapevolezze: «Vedevo il mondo intorno a me, scriverà la Bo Bardi qualche anno più tardi, solo come realtà immediata, e non come esercitazione letteraria astratta» (Carvalho Ferraz 1994, p. 10).

Prende corpo così una visione architettonica e delle opere umane sempre tenacemente aderente alla realtà, una realtà che per la Bo Bardi, da quando approda nel 1946 a Rio de Janeiro, città principe dello spirito brasiliano, è intrisa di speranza e di vitalità, a cui Lina risponde con una creatività spontanea e impetuosa, – «furiosa» la definisce Semerani (2012, p. 8)–, inseparabile dalla esperienza del corpo e dalla fisicità del reale, esercitata nel plasmare progetti rigorosi subito contaminati con festose e ironiche evocazioni.

«Architettura come spazio abitato, umano, scrive la Bo Bardi nei primi anni Cinquanta, è una realtà potente, responsabile del comportamento dell’uomo, responsabile perfino della sua felicità. E in questo senso il Movimento Moderno continua» (Carvalho Ferraz 1994, p. 86).

Tra i disegni elaborati per il Museu de Arte Moderna da Bahia (MAMB), nati all’interno della complessa rifondazione culturale maturata negli anni dell’esperienza di Bahia e dell’esplorazione del Nordeste brasiliano[1], spiccano quelli elaborati per la realizzazione del teatro «uno dei mezzi più diretti di propaganda culturale, dato che sintetizza tutte le altre arti» (Carvalho Ferraz 1994, p. 144) . Su di una carta è tratteggiata, con pochi tratti di grafite e inchiostro, rimarcati dalle consuete pennellate ad acquarello, la prospettiva della cavea del pubblico, costruita con semplici impalcati di tavole di legno e racchiusa da un intrico di tralicci e scale percorribili, praticabili anche per l’azione scenica, nella forma quasi di ramificazioni vegetali. Nessuna aggettivazione formale o scenografie superflue, nessuna divisione funzionale tra spazio del pubblico e spazi tecnici, abolizione della meccanizzazione scenica, contiguità tra azione della rappresentazione e spettatori data dalla prossimità dell’improvvisato palcoscenico e come sfondo la nudità della grande struttura del Teatro Castro Alves ancora parzialmente distrutta dall’incendio del 1958. Un teatro popolare moderno, semplice, «povero ma violentemente emotivo» (Carvalho Ferraz 1994, p. 144). Gli schizzi di studio della Bo Bardi sembrano appropriarsi della profonda lezione di semplificazione[2] mutuata dall’esperienza popolare di Bahia: nei loro tratti non è presente alcuna originalità o gratuita invenzione ma anzi la costante ricerca di essenzialità e la propensione per un’architettura ‘povera’ e spoglia e per materiali grezzi e non rifiniti sembra scaturire direttamente dalla traduzione dello stretto legame tra necessità umane e il loro soddisfacimento, tra utilità e bellezza. In questo caso il disegno per la Bo Bardi non è solo un momento di approccio al progetto ma diventa riflessione esistenziale e sociale, espressione tout court della sua poetica, riassumibile, secondo le sue stesse parole, in quella tenace «ricerca antropologica nel campo delle arti contro la ricerca estetica» (Carvalho Ferraz 1994, p. 216). E quando i suoi disegni si popolano e si colorano di figure e di forme, sono la realtà dell’ambiente umano brasiliano e la specificità della comunità di destinazione che agiscono, ‘sporcando’ il foglio con innesti e contaminazioni. Così nel suo lavoro la memoria, il rapporto con le manifestazioni culturali e la tradizione popolare non è mai nostalgia, una mera rivisitazione del passato per amore del passato, non è neppure un atto critico, un’interrogazione del tempo per comprendere l’arte o la disciplina, è piuttosto un moto di continua meraviglia, esperito quasi con gli occhi di un bambino, uno stupore per un giacimento di forme, per un groviglio di espressioni ed esperienze, tutte umane, indispensabili ad alimentare l’immaginario della sua arte.

Moltissimi, e distribuiti in un arco temporale che va dal 1957 al 1966, sono gli studi per la soluzione dei tamponamenti di facciata del grande portale del Museu de Arte de São Paulo (MASP), sospeso iconicamente ad un’estremità dell’Avenida 9 de Juhlio. La versione più cara alla Bo Bardi, e da lei tenacemente esplorata per molto tempo, vede il corpo sopraelevato del Museo come un unico possente monolite in cemento, illuminato dall’alto, densamente materico e completamente cieco, ad eccezione di una lunga feritoia orizzontale in corrispondenza del livello delle esposizioni temporanee, e interamente ricoperto di incrostazioni vegetali, che disegnano una trama irregolare di piante tropicali affiorate «tra gli interstizi del cemento bruto, come fra le pietre di una vecchia cattedrale» (Lima 2021, p. 259). Nella stessa serie, una prospettiva insolita del Belvedere, tratteggiata proprio sotto l’imponente impalcato del museo e in asse con questo, tanto da sembrare allungata quasi all’infinito, raffigura tra le efflorescenze della vegetazione schizzate a matita, un collage di grandi sculture tribali, disposte libere nel vasto spazio e circondate dalla popolazione dei visitatori, quasi a saggiare la visione di una nuova società capace di immaginare una sovrapposizione senza soluzione di continuità di arcaiche manifestazioni d’arte e creatività contemporanea.

Lina Bo Bardi disegna ciò che sta pensando e progettando, anzi pensa disegnando e contemporaneamente pensa guardando il mondo. A guidare la sua mano, come in ogni autentico artista, sembra esserci «la testa quadrioculare» indagata da un contemporaneo come Tullio Pericoli (2021, pp.43 e 41), «con la sua doppia coppia di occhi, una sulla fronte e una nel cervello», la vista materiale e la vista dell’intelletto che non possono fare a meno l’una dell’altra così come «non è possibile guardare senza coinvolgere il cuore e la mente». Anche i suoi disegni più specificamente architettonici raramente hanno qualcosa di concettuale, lontani dall’essere levigati, hanno un che di immediato, di spontaneo, di vitalistico, una specie di corrente continua tra arte e vita, quasi fatti per se stessa – la Bo Bardi ha confessato: «Lavoro di notte, quando tutti dormono, […] e intorno è silenzio» (Dos Santos 1993, p. 17) –, per la urgenza di mettere in carta il pensiero mentre si forma.

C’è nei disegni di Lina (così, col solo nome, è chiamata affettuosamente ancora oggi quasi dovunque in Latinoamerica) una conflittualità, o meglio una fruttuosa compresenza, tra una propensione razionale da un lato, che ben si sposa con la sua formazione eurocentrica, e una vena surrealista dall’altro, che si fonde con l’adesione istintiva alla cultura popolare, ai miti, ai riti ancestrali della tradizione locale: quell’«incanto», come dirà, provato immediatamente al suo arrivo a Rio, «una speranza reale quasi quotidiana, non metafisica, nella semplicità delle soluzioni architettoniche, nei ciao umani, cose sconosciute per una generazione che arrivava da molto lontano» (Carvalho Ferraz 1994, p. 12).

Il surrealismo sembra conquistare interamente i disegni del Centro per il tempo libero SESC Fábrica da Pompéia, ricavato nella periferia industriale di San Paolo con la riconversione di un’antica fabbrica di fusti metallici, che dimostrano, nell’ingente numero di schizzi e prove, la straordinaria capacità con cui la Bo Bardi riesce a tenere insieme le diversissime scale del progetto, dalle alte ‘torri’ in cemento degli impianti sportivi fino al disegno minuto degli arredi, delle divise dei lavoratori e persino delle indicazioni pubblicitarie. «Come in ogni ricerca surrealista, da Savinio a Picasso, da Breton a Buñuel o Jarry, sono le immagini e i materiali che generano la composizione per cui il meccanico e l’organico, il puro e l’impuro, il desiderio e il caso, attraversano le frontiere che li separano» (Semerani e Gallo 2012, p. 29). Ma nel caso della Bo Bardi vi si aggiunge in più una capacità ermeneutica: si tratta di un’attitudine a disegnare e mettere in scena «il frusciare inavvertibile della vita» che sembra apparentare il suo percorso artistico a quello di una scrittrice come Natalia Ginzburg, un’altra straordinaria figura femminile del Novecento, a lei coeva. «È il piacere di adoperare la mente come le viscere, di fare camminare la mente nell’oscurità, non essendo il viaggio e la peripezia della conoscenza intellettuale altro che lo specchio appena un po’ annerito dove si riflette ciò che in quelle profondità […] è buio ma leggibile» (Garboli 1989, p. 116 e 106). Probabilmente per entrambe una facoltà tutta feminina di inclusione e appropriazione del mondo che sembra guidare la mano sicura con cui la Bo Bardi delinea le sue creazioni.

Fin dai primi elaborati planimetrici nell’intersezione a croce dei lunghi percorsi pubblici esterni che distribuiscono il centro è posto un teatro, simbolo della vita e della partecipazione. Un significativo schizzo prospettico mostra, nel rettangolo allungato dell’ex capannone, lo schema compiuto di un moderno teatro a scena centrale interamente in cemento, con il blocco monolitico delle due gradonate a cavea contrapposte circondato da gallerie lineari in quota, che ospitano ulteriori spazi per il pubblico, alla maniera di balconate con vista di lato e dall’alto sulla scena, e animato dalle presenze scultoree di grandi piastre in acciaio color argento, come i Mobiles di Calder, appese in alto in funzione acustica. Tutto intorno, nei capannoni liberati dalle tamponature interne le attività ludiche e culturali, come la biblioteca, gli ateliers, gli spazi per la lettura e per il gioco dei bambini, le aree per la sosta e per le esposizioni, il vasto living con l’intaglio evocativo di un corso d’acqua e la foguiera – il grande focolare –: tutti luoghi per la socializzazione intrecciati e intercomunicanti in una ricercata ‘accidentalità’ che è l’accidentalità della vita. Tutti i disegni della Bo Bardi, pieni di voci e colori, sembrano spargersi in mille rivoli di accesa creatività che investe persino gli arredi, come le sedute del teatro, austere, interamente in legno massiccio, non imbottite né rivestite in velluto come nei teatri di corte del Settecento e nel comfort contemporaneo, pensate per «restituire al teatro la sua proprietà di distanziare e coinvolgere». I disegni, anche quelli più compiutamente architettonici, non hanno mai il fine di presentare un’opera o una creazione, un intento di proposta professionale, sono piuttosto strumenti di ricerca e di conoscenza. Su di essi aleggia ininterrottamente un’atmosfera festosa, un’ironica ilarità, che è inscindibile nella Bo Bardi da una forma di comprensione o di saggezza della vita, e che sembra riassumere la sua peculiare e particolarissima invenzione della felicità. «Todos juntos», vuole Lina i destinatari del suo Sesc Pompéia, «giovani, bambini, terza età, tutti uniti nel piacere di ritrovarsi insieme, nel danzare, nel cantare» (Bo Bardi 1992, p. 225).

Note

[1] Lina Bo Bardi si reca a Salvador de Bahia per la prima volta nel febbraio del 1958. Vi ritorna nel 1959 e vi rimane fino all’agosto del 1964, pochi mesi dopo il colpo di stato militare. Su questa esperienza pubblica nel 1967 un articolo dal titolo Cinco anos entre os brancos (“Mirantes das artes etc”, 6, novembre –dicembre) poi tradotto in Cinque anni tra i bianchi (Carvalho Ferraz 1994, pp. 161-162).

[2] Sul significato di ‘semplificazione’ per Lina Bo Bardi si vedano le sue parole negli scritti Museu de Arte de São Paulo e Mostra Nordest (Carvalho Ferraz 1994, pp. 100 e 158).

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