Forme del rito, forme dell'architettura

Renato Capozzi, Claudia Pirina




Interrogandosi sulla permanenza e il mutamento delle forme, ne L’eterno presente: le origini dell’architettura Sigfried Giedion individua nella religione la chiave per comprendere l’atteggiamento di un popolo di fronte al suo destino, ma soprattutto per esprimere quel «desiderio umano […] inestinguibile ed universale […] di una vita più lunga, di una sopravvivenza dopo la morte» (Giedion 1969, p. 7). La religione, in senso ampio, è intesa pertanto come quel «complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità» (Eliade 1982), qualunque essa sia. Lo storico ne individua la genesi «nell’aspirazione dell’uomo a mettersi in contatto con le forze soprannaturali per poter conoscere il futuro» (Giedion 1969), rintracciando una relazione tra tale aspirazione e le forme primigenie dell’arte e dell’architettura.

Durante i mesi di pandemia da Covid-19, le immagini di fosse comuni, di bare accatastate in attesa di trovare degna sepoltura o di lunghe file di camion militari che le allontanano dai propri cari, sollecitano una nuova riflessione sulla condizione tragica, ma del tutto umana, della transizione dalla vita alla morte e sulle forme adeguate in grado di reificare, in una ierofania anche laica, la sacralità ingenita all’abbandono e al distacco dal transito terreno. La contingente condizione ci ha posto di fronte all’impossibilità di svolgere i nostri «riti funebri». Ma cosa sono i riti funebri? Come ci avverte Alain (1975, p. 109-110)

«[…] quando il basto ci ferisce, la natura, che muore senza saperlo, non basta a richiamarci al nostro mestiere di uomini, ed occorrono altre cose, cose umane […] ben piantate in terra, uguali dalle due parti, e procedenti secondo una regola. […] C’è tuttavia una ragione comune, figlia della terra al pari di noi, ma che della terra è il frutto più bello
e il vero Dio, se ne vogliamo proprio uno, secondo la quale il coraggio si piega assieme al corpo, e per cui ognuno sa che deve alzarsi e guardare lontano, al di là delle proprie pene. Non coricati e neppure in ginocchio. La vita è un mestiere che si fa in piedi».

I “riti funebri” sono quindi riti che nel farci restare umani ci devono proiettare in-oltre, mentre l’architettura attraverso le sue forme convenienti si deve far carico di mettere in opera e in scæna le ripetute sequenze di atti legati alla rammemorazione, al distacco, al ricordo, al passaggio, al sacro e al simbolo.

Il ruolo dell’architettura non può allora in essenza risiedere nella capacità di traghettare, attraverso la memoria e la sacralizzazione del passaggio, la caduca condizione umana in una condizione permanente e duratura? E nel compito di far superare il trauma della morte, che è assieme meraviglia e terrore (Thaûma), mettendo in scena il rito?

La proposta iniziale per il numero era di sollecitare una riflessione critica e propositiva da un lato sui modi, i luoghi e le architetture deputate ai riti di passaggio dalla vita alla morte, dall’altro di concentrare l’attenzione sui luoghi di rappresentazione della memoria, su quelle architetture che, secondo Étienne-Louis Boullée (1967, p. 121), «richiedono, in modo più particolare rispetto ad altre, la Poesia dell’architettura». Nel primo caso, al fine di promuovere possibili risposte anche a nuove istanze laiche oltre che alle specifiche esigenze dettate dal momento contingente, si proponevano interrogativi relativi a possibili temi di invenzione o reinvenzione architettonica, o a nuove tipologie e modelli quali “aule del commiato” o funeral homes. Nel caso invece dei luoghi deputati alla rappresentazione della memoria, si avviava una riflessione sulla condizione dei “cimiteri dei poveri”, di “monumenti” del ricordo, delle città dei morti di costruirsi frequentemente a immagine delle città dei vivi, rendendo manifeste differenti, ma confrontabili, culture e tradizioni. Se nell’Europa del nord cimiteri in forma di parchi e giardini rimandano all’archetipo del Giardino dell’Eden, nell’Europa meridionale è la Città di Dio a essere accolta nei luoghi di sepoltura come riferimento e modello per “strade” e “piazze”.

Forme elementari e simboliche, alla scala domestica o monumentale, immortalano la memoria nella solennità dei luoghi, si pensi su tutti al Cimitero di Modena di Aldo Rossi.

Anche in questi spazi, tuttavia, recenti ri-semantizzazioni ed esperienze si propongono di offrire risposta a nuove istanze ed esigenze conseguenti alla multietnicità e multiculturalità della popolazione. Spazi per sepolture laiche, o di differenti religioni, necessitano allora di un ripensamento profondo e progressivo dei luoghi e delle forme di sepoltura.

Alla dimensione privata del lutto si affianca inoltre la dimensione sociale (e talvolta politica) di “memorie collettive”, per dirla à-la Halbwachs, messe in scena in santuari, memoriali, mausolei o monumenti, che trasmettono il ricordo icastico (che si ricorda con fissità) di specifici eventi come quello che ha coinvolto il mondo nei mesi appena trascorsi e, purtroppo, ancora in corso.

Rispetto a un’iniziale ipotesi di organizzazione del numero in due precise sezioni – riti che accompagnano il defunto nel passaggio dalla vita alla morte, e riti che ne tramandano la memoria –, i contributi ricevuti e selezionati hanno mostrato come, in molte occasioni, ai due distinti momenti del rito, in architettura, corrispondano organici sistemi o complessi architettonici espressione della coesistenza e corrispondenza dei due tempi. Tale grado di complessità impediva pertanto l’incasellamento forzato dei saggi in tale binomio, e ha comportato una conseguente operazione di riconfigurazione secondo un ordine e un indice più complesso, che raggruppasse i saggi per tematiche o categorie affini.

Nel testo di apertura, Renato Rizzi esplora il tema del “rito dell’Architettura” ovvero del «rituale del Progetto». Secondo l’autore, il senso profondo del progetto guida (o dovrebbe guidare) l’architetto in quel «rito che pervade comunque e ovunque gli atti della nostra quotidianità come dei nostri più reconditi pensieri» e che deve essere compreso focalizzando l’attenzione su tre punti fondamentali: «A- innanzitutto sulla struttura semantica del nome Architettura; B- sul paradigma del nostro tempo; C- sul superamento della filosofia occidentale».

A seguire, Renato Capozzi articola il saggio in una prima riflessione che ripercorre alcuni studi filosofici e teorici (Ragon e Byung-Chun Han) sul tema generale del sacer e sui concetti di morte e rito in rapporto all’architettura, e che costituisce il prodromo dei successivi messa a confronto di due opere esemplificative rispettivamente dei rito di passaggio e del rito della memoria: il Tempio di cremazione a Parma di Paolo Zermani e il Cemiterio de Fisterra dell’architetto galiziano César Portela.

Nel riconoscere l’«estrema icasticità» che contraddistingue i due progetti, all’interno del testo emergono «differenze tematiche e formali», ma anche «sottili legami di senso». Alla maestria del rendere «in forma la difficoltà di trasformare […] la materia impalpabile del sacro in spazio architetturato» del progetto di Zermani, si giustappone il riconoscimento delle qualità insediative del progetto di Portela che rivoluzionano «e non di poco la consolidata idea di cimitero come luogo separato, marginale» per trasformarlo in «un luogo felice, brulicante di vita ove celebrare la memoria dei defunti a cospetto della natura». È nella capacità di «sacralizzare la morte e, al tempo stesso la vita» l’intento e la mèta sottesa a queste due opere.

I progetti dello Studio Monestiroli per l’ampliamento del Cimitero Maggiore di Voghera e di quello sull’isola di San Michele a Venezia costituiscono invece il nucleo delle riflessioni del saggio di Tomaso Monestiroli. Nel progetto di queste architetture l’autore riconosce il ruolo fondativo di alcune preliminari domande: qual è «il senso profondo del rito funebre»? E quali sono «gli elementi architettonici adeguati a rappresentarlo»? Attraverso la lettura degli elementi dei due progetti, della loro composizione, o della declinazione del rapporto tra natura e architettura, Monestiroli intende proporre risposte a tali quesiti, marcando peculiarità o differenze. Da un lato infatti il rapporto con il luogo riveste un ruolo primario nella definizione della “forma rispondente”, raccogliendo l’eredità dei cimiteri nordici «in cui il luogo di pace e del riposo eterno è rappresentato dal bosco, dove la natura è protagonista del senso del luogo». Dall’altro gli elementi dell’architettura, e ancora una volta il luogo, nei due progetti concorrono a definire quel duplice carattere – privato e pubblico – che, secondo l’autore, deve convivere nel «luogo del commiato e della custodia della memoria».

Analogo interesse verso lo spazio cimiteriale è espresso dalla riflessione di Paolo Giordano che ripercorre la storia del Cimitero delle 366 fosse e del Sepolcreto dei Colerici di Napoli, con uno sguardo rivolto al presente e al futuro di questi straordinari spazi che disegnano un pezzo di città. Lo stretto rapporto che intercorre tra la configurazione architettonica, la morfologia del luogo su cui si insediano, e l’elemento naturale caratterizza questi spazi di sepoltura che, nelle loro differenti peculiarità «ben esprimono la diversità di atteggiamento nutrita nei confronti della morte e della sepoltura nella società monarchica, prerivoluzionaria, settecentesca e in quella ottocentesca, post-rivoluzionaria, di stampo borghese». All’architettura della ragione illuminista del Cimitero delle 366 Fosse di Ferdinando Fuga «basata su di un rigoroso anonimato incapace di rammemorare storie di vita vissuta» Giordano contrappone il parco romantico del Sepolcreto dei Colerici di Leonardo Laghezza «di forma irregolare e punteggiato da alberi di alto fusto, nel cui recinto sono disseminate diverse tipologie sepolcrali». Proposte di restauro e di riconfigurazioni spaziali dell’intero sistema mirano a un nuovo ordine che a partire dallo studio degli antichi assetti, e dalla successiva selezione di quello identificato come maggiormente efficace renda manifesti i loro differenti caratteri.

Uwe Schröder amplia il concetto di spazio sacro proponendo una lettura dei «Sette Spazi Sacri di Simon Ungers a partire da una prospettiva sensuale e simbolica» ripresa dal lavoro di Étienne-Louis Boullée. Alle categorie individuate e trasposte nei termini Poesia, Oggetto, Misura, Proporzione, Luce, Carattere, Sublime, Schröder associa direttamente i sette tipi
di spazi sacri esaminati da Ungers: la Basilica, il Duomo, la Cattedrale, la Sinagoga, la Moschea, la Chiesa e la Cappella. Tali binomi sostanziano la convinzione di Schröder, ripresa da Boullée, che «gli edifici sono pensati per catturare i nostri sensi e […] risvegliare in noi sentimenti», e quella mutuata da Ungers che «pensare lo spazio sacro è pensare all’architettura nella sua forma più pura».

Il mistero della permanenza è il tema indagato da Claudia Pirina nelle forme del sacro e in quei dispositivi architettonici capaci di mettere in relazione l’uomo con il divino. Tale aspirazione è rinvenibile in una serie di forme archetipiche primigenie dell’architettura che dimostrano quanto «nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera» (Parmiggiani 2010, p. 4). Tali forme tuttavia si perpetuano nel tempo, in una circolarità che si fa essenza, stimolando la reminiscenza. «La memoria [infatti] non significa passato ma pensiero. Mettere a contatto forme lontane, nel tempo e nella mente, far incontrare un tempo con un altro tempo, creare dei cortocircuiti; un’altra idea di tempo» (Parmiggiani 1995, p. 170). Due opere sono utilizzate, in forma di esempio, per la loro capacità di farsi espressione di un’altra idea di modernità, tra forme arcaiche e nuove figurazioni: il Giardino dei Morti di Jože Plečnik a Lubiana e il Memoriale di Kampor di Edvard Ravnikar nell’isola di Rab.

L’idea di tempo permea il contributo di José Ignacio Linazasoro che affida alla descrizione del progetto della chiesa di Valdemaqueda il compito di esemplificare «il carattere che dovrebbe avere uno spazio sacro visto con occhi contemporanei». L’architetto basco racconta la genesi dell’opera, mutuata dal proprio mondo di riferimenti antichi e contemporanei, giustapposti a considerazioni retroattivamente suscitate dall’opera conclusa (utili a comprenderne le ragioni profonde), e alla descrizione e declinazione di quei dispositivi architettonici che consentono di conferire «allo spazio la massima intensità con il minor numero di mezzi possibile». La modulazione della luce e la conformazione dello spazio attraverso un attento controllo della sua struttura, secondo Linazasoro, sono quegli elementi capaci di trasformare lo spazio sacro in spazio simbolico.

Chiudono la prima parte del numero due contributi che, completandosi a vicenda, raccontano il progetto del doppio ipogeo della Cattedrale di Caserta di Francesco Venezia attraverso i differenti sguardi dell’architetto e del fotografo. Al laconico ed intenso scritto utilizzato dall’architetto partenopeo per accompagnare il progetto, si affianca infatti il lavoro del fotografo Mario Ferrara che, attraverso un brevissimo testo e una serie di fotografie, dimostra quanto fertile possa essere il rapporto tra le due discipline. Ghirri, Basilico, Guidi sono solamente alcuni di quei fotografi che hanno avuto la capacità di tessere relazioni con gli architetti, costruendo con essi un rapporto artistico, e contribuendo a offrire nuovi sguardi sul loro lavoro. L’ipogeo di Caserta esplicita icasticamente molteplici temi cari a Venezia che, a Caserta, modella lo spazio e modula la luce, accompagnando il visitatore attraverso un percorso che si fa transito per il mondo dell’al di là. La sequenza spaziale si articola secondo un andamento discendente che, attraverso la luce, guida successivamente ad un’ascesa verso l’esterno. «L’architettura, al percorrerla, si rivela ritmo d’ombra, luce, penombra», interpretando sezioni “siracusane” «ricordo lontano di una discesa nel profondo delle latomie di quella città».

Forme dell’ipogeo e architettura degli spazi cavi ritornano nel testo di apertura della seconda sezione dedicata agli articoli selezionati tramite call for paper, in cui Giuseppe Ferrarella utilizza il concetto dello spazio come luogo «cavato dal pieno» per proporre uno sguardo che indaga analogie e differenze tra il Pantheon di Agrippa (Apollodoro), la basilica di Sant’Andrea a Mantova e la montagna sacra di Tindaya a Fuerteventura.

I tre progetti, secondo l’autore, possono essere intesi come spazi «prodotto di forme massive e logiche di sottrazione dei volumi» utili a innescare una riflessione sul senso dello spazio nei luoghi deputati al sacro e al rito.

Dell’atto del cavare si occupa altresì il testo di Adriano Dessì che indaga l’identità essenziale tra rito e spazio nel Pozzo Sacro. I riti propiziatori della pioggia presenti nel Mediterraneo danno luogo a tali architetture ctonie, intese come spazi «della catarsi, legati al rito della discesa, del ritorno alla ‘fonte’ in quanto ritorno alle ‘origini’». Il testo riflette su analogie tra questo mondo e temi e progetti di Francesco Venezia e Aldo Rossi, che da quel mondo traggono diretta ispirazione per loro stessa ammissione. Aldo Rossi, con il suo ampliamento del cimitero di San Cataldo a Modena progettato con Gianni Braghieri, è anche il campo di esplorazione del saggio di Claudia Tinazzi che apre una serie di interventi incentrati su alcuni progetti di cimiteri, in cui archetipi, rapporto con il rito, con la natura e con la città e le sue forme distintive sono diversamente declinati. Se nel cimitero della Chacarita di Clorindo Testa, esaminato da Federica Conte, «il cammino senza fine, dove giochi di luce e labirintici corridoi animano lo spazio ‘eterno’ nel sottosuolo» rimanda a temi precedentemente citati, nel progetto per il nuovo cimitero di Pesaro, analizzato da BoKyung Lee, Luciano Semerani e Gigetta Tamaro concepiscono e sviluppano uno spazio simbolico in cui le forme del progetto ricorrono «all’analogia tra le forme della ‘città dei vivi’ e le forme della ‘città dei morti’». «La città dei morti si relaziona sempre con la città dei vivi per analogie e contrapposizioni morfologiche, in linea con la cosmologia islamica» anche negli antichi cimiteri del mondo islamico mediterraneo del testo di Eliana Martinelli. Recinti, relazione con la topografia e con la struttura urbana sono comparati con quelli di cimiteri europei nell’intento di far emergere singolari analogie e differenze.

Il tema del percorso è declinato invece nei cimiteri Nou di Igualada di Enric Miralles e Carme Pinós analizzato da Carlo Palazzolo e in quello di Muda Maé a Longarone studiato da Andrea Valvason.

Nel cimitero catalano «i temi della discesa agli inferi, il decomporsi dei corpi, il risorgere […] sono evocati […] da un’architettura sospesa tra costruzione e rovina [in cui] memorie personali e collettive si stratificano per dare vita a un paesaggio non solo geografico ma anche culturale». Tale duplice rapporto costituisce altresì elemento fondativo del progetto di Muda Maé che «si configura come un’antica necropoli ritrovata, simbolo di memoria e di rinascita in seguito ai drammatici eventi provocati dal disastro del Vajont dell’ottobre 1963». Scavi e trincee, che segnano fortemente quel luogo, fanno da contrappunto alla forma del solco inciso dal cimitero sul suolo che rimanda a memorie e ferite non ancora rimarginate.

Nucleo di indagine del saggio di Alessandra Carlini è invece il tema della ri-semantizzazione del cimitero moderno al fine di dar forma architettonica alle nuove pratiche di sepoltura e dispersione delle ceneri. I progetti analizzati, nonostante a prima vista possano apparire lontani o addirittura estranei ai casi precedentemente affrontati, declinano nuovamente lo spazio del recinto e il rapporto con paesaggio e natura, dimostrando che, «come già avvenuto nella storia, ripensare i luoghi di sepoltura vuol dire rinnovare i valori culturali della comunità che li realizza» proponendo “nuove forme archetipe” per antiche e immutate istanze.

Una serie di articoli si occupano della rammemorazione in monumenti o mausolei. Se Claudia Sansò rivolge, con acutezza, nuovamente lo sguardo al mondo islamico e ai principi insediativi della tomba islamica in relazione allo spazio pubblico della città trasposti nel Memorial Rafic Hariri di Marc Barani in cui «la tomba/mausoleo dunque partecipa alla costruzione dello spazio collettivo, […] fino a diventare un’occasione per la ridefinizione di uno spazio pubblico, offrendo i luoghi della morte allo svolgimento della vita»; i saggi di Giuseppe Tupputti e Gaspare Oliva propongono rispettivamente una lettura dell’Ossario dei Caduti Slavi di Barletta che «appare in lontananza, appoggiato sul bordo di una leggera china rivolta verso l’Adriatico» e dei tre monumenti italiani post regime fascista di Aldo Rossi, Gianugo Polesello e Luca Meda per Cuneo, di Giorgio Grassi e Luca Meda per Brescia, e di Costantino Dardi con Giovanni Morabito, Michele Rebora ed Ariella Zattera per Milano. Alla dimensione collettiva del lutto esplicitata in tali opere si contrappone quella privata della Tomba Brion progettata da Scarpa e analizzata da Fabio Guarrera che «sulla base delle argomentazioni teoriche elaborate da Vittorio Ugo in riferimento al problema degli archetipi dell’architettura» propone una lettura «archeo-logica» del complesso sepolcrale, «con lo scopo di effettuare una ‘classificazione’ delle forme interne al monumento».

Spostandoci su un differente tipo di spazio sacro, Alberto Calderoni e Luigiemanuele Amabile propongono una lettura de Duomo di Neviges dell’architetto tedesco Gottfried Böhm che «raccoglie e amplifica l’esigenza rappresentativa della celebrazione del rito in una espressione formale fortemente evocativa e caratterizzante lo spazio urbano, in grado di intessere rinnovate relazioni fra lo spazio interno della chiesa e il suo esterno». Lo spazio sacro del tipo della Cappella è invece il centro dell’indagine dell’articolo di Francesca Addario che si occupa della «sacralità della natura e interiorità delle forme» attraverso l’analisi di alcuni progetti di cappelle nel bosco. L’ancestrale archetipo del bosco sacro «profondamente radicato […] nell’immaginario dell’uomo e dell’architetto» è riconosciuto dall’autrice come «spazio topico nel quale l’architettura rivela la sua presenza» e nel quale trovano forma le idee di Vitruvio, Alberti, Loos, Asplund o Tessenow.

Chiudono infine il numero della rivista quattro articoli che interpretano il tema proposto secondo differenti e inedite prospettive. Dalle riflessioni su città, memoria e monumento che indagano la forma dell’assenza nel progetto per Braunschweig di Luigi Snozzi di Carlotta Torricelli, l’attenzione si sposta sul contributo di Roberta Esposito che «analizza la forma del mundus quale fossa di fondazione della città romana e, al contempo, dimensione architettonica in grado di stabilire una connessione tra il mondo infero dei morti e il mondo superno dei vivi». Gennaro di Costanzo intende invece riflettere sull’archetipo del labirinto e della caverna «attorno cui si articola il discorso sul Palazzo di Cnosso, opera costruita per accogliere i riti di trapasso tra vita e morte» e in ultimo il testo di Susanna Pisciella ripercorre criticamente alcune riflessioni introdotte da Renato Rizzi nel testo di apertura, che indagano i concetti di “limite” e “morte” in varie opere e testi di John Hejduk.

Per tornare, infine, ai temi proposti per la costruzione del numero, si ritiene e si ribadisce quanto siano proprio le forme di raffigurazione ed evocazione dell’oggetto assente e inattingibile ad essere al centro dell’interesse dell’architetto mediante l’ineludibile e inesauribile capacità educativa e di monère dell’architettura quale nova sed antiqua rappresentazione appropriata e riconoscibile della memoria della vita dell’uomo nella fissità immota delle pietre.

Bibliografia

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PARMIGGIANI C. (2010) – Una fede in niente ma totale, (a cura di) A. Cortellessa. Le Lettere, Firenze.