La sacralizzazione architettonica della morte

Renato Capozzi




La morte, i riti e l’architettura

La paura o l’inspiegabilità della morte è all’origine del pensiero, il movente autentico della nascita della filosofia e della scienza. Ma la morte, che è parte della vita, per Svevo è «l’unica malattia sempre mortale». Chi vive spera di farlo il più a lungo possibile e uno dei modi per farlo è esorcizzare la morte sacralizzandola.

Come ha lucidamente rilevato Michel Ragon (1981) nel suo fondamentale studio L’espace de la mort, i riti, e le molteplici pratiche1 connesse alla morte, sono antichissimi consustanziali all’uomo che per Thomas «è l’unico animale che seppellisce i suoi morti» e, anche se «non tutti i popoli hanno avuto il culto dei morti», secondo François Carpenter invece «nessun gruppo umano si disinteressa dei propri morti». Secondo Rangon «all’origine dei riti funebri, sta la credenza nella sopravvivenza dei defunti e il desiderio di impedirne il ritorno, piuttosto che il rispetto. Tutto ciò è ancora dentro di noi nostro malgrado» e altrove «l’uomo primitivo, che attribuisce spesso ai sussulti dei morti i terremoti, ma anche i fulmini, la siccità, la carestia, le malattie deve conciliarsi con questi pericolosi spiriti con la persuasione, la conciliazione, l’astuzia o la forza. La maggior parte dei riti funebri hanno questa origine e questo senso». Secondo lo storico e critico d’arte francese la radice dei riti è sostanzialmente apotropàica [dal gr. ἀποτρόπαιος che allontana, der. di ἀποτρέπω allontanare] della morte attraverso la conciliazione col defunto, col suo spirito, ritenuto pericoloso. Su questo primordiale innesto archetipico naturalmente le regioni, i loro dogmi di fede (immortalità dell’anima, vita dopo la morte, ricongiunzione delle anime) e i loro riti codificati hanno costituito una modalità della necessaria riconciliazione che risarciva sia il distacco tra parenti e cari, sia la paura della morte in quanto Thauma.

Heidegger nel definire l’uomo come un «progetto gettato» nel mondo gli attribuisce lo stato di «essere per la morte» con condizione destinale inemendabile e irrimediabile. Si potrebbe continuare ad argomentare su quest’aspetto spesso trascurato del rito funebre come modo riconciliato in cui amore e dolore per il distacco si mescolano con la paura del ritorno del defunto e lo si potrebbe anche declinare e attualizzare, in senso ampliato, con la paura delle vittime della pandemia da Covid-19 a difesa, à-la Agamben, della «nuda vita», che portò nel 2020 in Italia e non solo – in mancanza di alcun rimedio oltre il c.d. aporetico “distanziamento sociale” – alla abolizione di ogni funerale o esequie, di ogni rito di commiato, di ogni possibile riconciliazione privata o collettiva coi defunti colpiti dal male. Su questo ci sarà modo, quando la crisi sarà davvero superata ma a partire da ora, si dovrà continuare a riflettere e rimediare, rielaborando quel lutto collettivo che ancora ci attanaglia. Il tema della sacralizzazione della morte ha naturalmente un corrispettivo naturale e una manifestazione tangibile nell’architettura che tra i suoi compiti, mettendo insieme forme del rito e forme dell’architettura, avrebbe appunto quello di «traghettare, attraverso la memoria e la sacralizzazione del passaggio, la condizione caduca umana in una condizione permanente e duratura […] e di far superare il trauma della morte, che è assieme terrore e meraviglia (Thaûma), mettendo in scena il rito» (Capozzi e Pirina 2021, p. 2).

Lo stesso Ragon nel presentare il suo studio lamentava la mancanza di studi attorno alla morte (indaga sul piano storico, filosofico, psicologico, sociologico e semiologico) dal punto di vista «dello spazio architettonico, dell’urbanistica, delle arti decorative» (Ragon 191, p. 29), dei luoghi occupati dai riti e dai bisogni della sepoltura. Dalla sua centralità in epoca medioevale si giunge, a partire dell’epoca dei lumi, alla sua progressiva de-sacralizzazione, ad un «allontanamento della testimonianza della fine della vita celebrato […] nei cimiteri-grattacielo e negli anonimi ospedali-obitorio della nostra civiltà» (Rangon 1981, risvolto di copertina) dimenticando che «il primo architetto conosciuto, Imhotep, l’autore della grande piramide a scalini del re Zoser, della III dinastia egiziana, il solo architetto che sia stato divinizzato, fu prima di tutto il progettista di una tomba» (Ragon 1981, p. 29). Del resto, anche Adolf Loos nella sua celebre definizione di architettura afferma «Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura» (Loos 1972) e nel suo famoso saggio Architektur esplicita che soltanto «una piccola parte dell’architettura appartiene all’arte, il sepolcro e il monumento».

Un altro significativo contributo a definire i contorni del tema della sacralizzazione è quello offerto – sui riti e la loro progressiva scomparsa come riflesso della condizione contemporanea – dal filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chun Han (2021) nel recentissimo saggio La scomparsa dei riti. Una topologia del presente. Han osserva che «i riti sono azioni simboliche, tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una ‘comunità senza comunicazione’, mentre oggi domina una ‘comunicazione senza comunità’. […] Oggi il mondo è assai povero di simboli […]. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando [attraverso medesimezza (Selbigkeit) e la ripetizione (Wiederbolung)] la vita. […] La ripetizione è il tratto essenziale dei riti» (Han 2021, p. 11). In atri termini il rito (funebre), che non è altro che codificazione di atti simbolici ripetuti, si oppone al “distanziamento sociale”
che distrugge l’idea stessa di comunità.

Se, come afferma Antoine de Saint-Exupéry (1999, p. 24), «i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio» e se vi è – secondo Mary Douglas (1979, p. 13) – «un ampio ed esplicito rifiuto dei rituali in quanto tali [e di conseguenza] assistiamo ad una rivolta contro la forma» allora si comprende come l’architettura nella sua durevole condizione oggettuale “resistente” (la resistenza delle cose direbbe Hannah Arendt) riferita all’abitare (che necessita della durata) possa e debba consentire e mettere in scena il rito. Ancora per Han (2021, p. 23), «nel rito funebre, il lutto rappresenta un sentimento oggettivo, collettivo, è impersonale […] Nel rito funebre è la comunità il vero soggetto del lutto: dinanzi all’esperienza della perdita. È essa stessa che se lo impone, e questi sentimenti collettivi la consolidano […]. I sentimenti collettivi si formano sempre più di rado». Come osserva Roland Barthes (2005, p. 210) «La cerimonia [...] protegge come una casa rende il sentimento abitabile. Un esempio è il lutto» e quindi essa «[…] si stende come una vernice protettiva sulla pelle e la isola dalle tremende bruciature del lutto dinanzi alla morte di una persona amata. Laddove vengono meno i riti, espedienti di protezione, la vita è del tutto inerme» (Han, 2021, p.27). In altri termini il rito diviene una sorta di “antidoto al caos” (Peterson 2018) e se i riti oggettivando riassumono il mondo allora l’architettura, come arte cosmica che si oppone al Cháos per proporre un Kósmos, non può che predisporsi ad essere teatro, e scena fissa della ierofania del rito della vita e della morte. Il “rito” come si è visto designa una «cerimonia articolata secondo una successione fissa di eventi» e in generale «il complesso di norme che regolano le cerimonie di un culto»2. Il rito è il modo effettuale, oggi si direbbe “evenemenziale”, per manifestare ad una comunità il sacro a partire da una struttura normativo-dogmatica che definisce un particolare “culto”. Rendere manifesta la condizione ultramondana, inconoscibile e “infinita nel finito”, insita nel rito in ossequio ad un particolare culto diventa l’arduo compito cui qualunque edifico religioso deve provare ad assolvere. La manifestazione del sacro, in tal senso, può essere associata al termine “ierofania” che è specificamente «il senso della presenza o della manifestazione di qualcosa di 'sacro' cioè di connesso, di inerente il divino, non necessariamente di un dio, che l’uomo avverte o può avvertire, a qualsiasi tipo di religione appartenga» cui corrisponde l’aggettivo “numinoso” coniato nel 1917 dal teologo Rudolf Otto (1917) per indicare «l’esperienza peculiare, extra razionale, di una presenza invisibile, maestosa, potente, che ispira terrore ed [al tempo stesso] attira». Una apparizione/manifestazione del sacro che può ipostatizzarsi in oggetti, pietre, piante, simboli che rimandano all’oltre, à-la Otto, all’“interamente altro” (ganz Andere) nel voler caricare di significati ulteriori irreali, attraverso oggetti e forme reali. Analogamente agli oggetti il problema investe le forme che edificano lo spazio sacro (Eliade 1982) ove avviene il rito cultuale, spazi capaci di rendere manifesto il sacro attraverso una struttura non solo simbolica e aderente al rito ma anche propriamente formale, a patto che tali forme siano in grado di palesare e amplificare il senso del mondo che tale spazio ricrea ontologicamente. In queste due riflessioni emerge significativamente la stretta relazione di senso tra la sacralizzazione della vita e quindi della morte e l’architettura come reificazione e condizione di possibilità di tale manifestazione sub specie æternitatis. Se i riti dovessero, tout à coup, scomparire cosa mai potrebbe rappresentare l’architettura?

Due esempi di reificazione del rito del passaggio e del rito della memoria

L’architettura che coincide col sepolcro, nel senso più essenziale del tumulo, manifesta nelle sue forme codificate, negli spazi che tali forme definiscono il senso e il valore del trapasso e della memoria dei defunti oppure costruendo una dimora “per chi non ne ha più bisogno”, o magnificando la morte nel monumento come veicolo e rappresentazione ilemorfica di valori senza tempo. Moltissimi e costanti sono stati i modi di tramutazione e trasfigurazione della morte e dei riti ad essa concessi sub specie architecturæ: dalle tombe egizie ai mausolei, alle aree sacrificali, dai templi alle chiese, ai cimiteri e in tempi recenti dai luoghi per il commiato spesso connessi alle pratiche di cremazione.

Tra i numerosissimi esempi che si potrebbero fare e mettere in questione al fine di emblematizzare due casi esemplari rispettivamente della reificazione del rito del passaggio e del rito della memoria, di seguito, saranno sinteticamente analizzate due opere di due autori contemporanei che singolarmente nella estrema icasticità che li contraddistingue intrattengono, nelle differenze tematiche e formali, non pochi e sottili legami di senso: il Tempio di cremazione a Parma di Paolo Zermani e il Cemiterio de Fisterra dell’architetto galiziano César Portela3. Il Tempio di cremazione di Parma, collocato tra la via Emilia e la città e la campagna ordinata dalle tracce della persistente centuriazione si isola, attraverso un recinto, che ne costituisce il crepidoma, dal contesto circostante ridefinendone il paesaggio attraverso la sua presenza icastica. Come si legge nella relazione di progetto:

Quale frammento tagliato, ospita e sospende nel tempo il rito del passaggio, rendendolo un unico grande simbolo urbano, quasi altare, in cui la città celebra, in modo incessante, la memoria di sé attraverso la memoria dei suoi morti.[…] un recinto fatto di spazio architettonico perché pensato come un muro porticato e abitato dai cellari che ospitano le polveri, contiene, in un percorso ininterrotto, il rapporto tra vita e morte, fissandone la lettura nel senso di una continuità ideale della vita. [Il Tempio] segna, anche spazialmente, i tempi del rito, tra esterno e interno, dividendo, in un percorso processionale, la zona dell’accoglienza del defunto e dei famigliari, posta in prossimità dell’ingresso, da quella del Giardino di aspersione delle ceneri, collocato dopo gli spazi di commiato e di cremazione, caratterizzandosi per due facciate analoghe a Nord e a Sud, quasi due sezioni che consentono di ricavare altrettanti spazi aperti e coperti. (Zermani 2006)

Un tempio di esatte proporzioni è posto all’interno del temenos quasi a ribadire il distacco, il taglio che lo spazio sacer deve poter realizzare rispetto alla condizione prosaica per poter far avvenire il rito. Uno spazio per il commiato orientato, delimitato e protetto con un solo ingresso e una sola uscita poiché

nell’eccesso dell’apertura e dell’abbattimento dei confini che domina il presente, perdiamo la capacità di chiudere [e il luogo è una forma di chiusura]. In tal modo la vita diventa meramente additiva. La morte presuppone che la vita stessa abbia una conclusione, quindi se si priva la vita di qualsiasi possibilità di conclusione, essa finirà nel momento meno opportuno. […] Negli spazi dotati di infinite possibilità di accesso, la conclusione diventa impossibile.

Il Tempio compone due quadrati connessi da un quadrato che rappresenta la soglia. Il primo quadrato ospita la Sala del Commiato un’aula indivisa anticipata da un portico e definita da un peribolo interno di colonne addossate alle pareti chiamate a sostenere una copertura cassettonata da cui poter far entrare la luce che illumina l’ambone del celebrante il rito. Il quadrato intermedio più piccolo, che connette attraverso un alto varco la sala col crematorio vero e proprio, costituisce una «camera di luce illuminata zenitalmente, completamente vuota. La salma così scompare nella luce», un sacello che sacralizza con le forme dell’architettura il passaggio e il distacco. Come rimarca Han:

I riti modellano i passaggi fondamentali della vita [e] i riti di passaggio, rites de passage, strutturano la vita come le stagioni. Chi varca una soglia conclude una fase della vita ed entra in una nuova. Le soglie come passaggi ritmano, articolano e raccontano proprio lo spazio e il tempo, rendono possibile una profonda esperienza dell’ordine. Sono le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate prive di fratture. In tal modo ci impoveriamo di spazio e di tempo: nel tentativo di produrre più spazio e più tempo, finiamo per perderli. […] Le soglie parlano.
Le soglie trasformano. Oltre la soglia c’è l’Altro, l’Estraneo. Senza la fantasia della soglia, senza la magia della soglia esiste solo l’inferno dell’Eguale. (Han 2021, pp. 50-51)

Un’opera questa di Paolo Zermani, che più e più volte si è cimentato col tema del sacro e delle forme in grado di manifestare il rito – si pensi alla raffinata e diafana cappella nel bosco, o al cimitero di San Sepolcro, al monumento ai primi martiri cristiani, alla chiesa di San Giovanni a Ponte d’Oddi o al nuovo ingresso per le cappelle medicee di San Lorenzo a Firenze –, che rende con maestria la difficoltà di trasformare il rito in forma, la materia impalpabile del sacro in spazio “architetturato”, il distacco e la morte manifestati attraverso una calibrata sequenza di atti e di soglie ritmati dalla luce a testimoniare la presenza del divino.

Il Cemiterio de Fisterra4, chiamato a presidiare verso l’Oceano l’omonimo capo, rivoluziona e non di poco la consolidata idea di cimitero come luogo sperato, marginale, confinato, definito da cappelle o campi di inumazione all’interno di un recinto escludente in un luogo articolato e discontinuo ottenuto dalla ripetizione sincopata di stanze, o meglio di cajas stereometriche, con differenti giaciture ad assecondare la forma del suolo, aperte su una delle sei facce verso l’orizzonte. Stanze, sacelli dischiusi «che si adagiano sul terreno cercando di conquistare la vista dell’oceano, dove non esistono limiti tra i luoghi designati ai vivi e quelli per i morti ma l’unica soglia è un confine sacro che sancisce la fine della terra annunciando l’infinito» (Sansò 2021, p. 43). Per Portela «L’immagine del cimitero è quella di un sentiero che attraversa un agglomerato di case, un serpente che striscia lungo il fianco della montagna fino al mare, adattandosi alle improvvise variazioni del terreno […]. È un lavoro per perdere la paura della morte» (Portela 2010) per cui:

Il cimitero ha un carattere tragico, certo, ma in Galizia c’è una grande abitudine di visitare il cimitero non solo in un certo periodo dell’anno, ma ogni settimana o ogni giorno. I parenti di coloro che sono sepolti si incontrano lì […]. Stabiliscono relazioni. Volevo incoraggiare questo, non volevo che fosse solo un luogo dove si rende omaggio ai morti, ma dove i vivi si comportano come i vivi: parlano, camminano, si siedono […]. (Trujillo e Ferreirós 2017)

Come ha segnalato appropriatamente Claudia Sansò si tratta di «Un’architettura ‘apotropaica’ e fiduciosa nella riconciliazione con la vastità naturale che è scaturigine e intimo albergo della vita di ognuno» (Sansò 2021, p. 45).
Litici ripari preceduti anche qui, come a Parma, da luoghi per la ricomposizione delle salme e per la meditazione e la preghiera. Una piccola cappella ruotata rispetto alle due congiunte con unica fenditura su di una lastra di Cor-ten, come una composizione di Fontana, da dove osservare il mare, tre panche che abitano lo spazio illuminato dall’alto da un lucernario e poi le 14 cajas sino ad un agognato mirador – purtroppo non realizzato – che avrebbe dovuto concludere il percorso rituale. Un luogo felice, brulicante di vita ove celebrare la memoria dei defunti a cospetto della natura, infatti come osserva Carlos Martí Arís (2010) «[…] Le casse funerarie, come granai della memoria trasmettono non tanto un sentimento di tristezza e di cupezza, ma una strana sensazione di serenità e di riconciliazione con la vita, con quella precaria e fragile vittoria transitoria sulla morte che chiamiamo vita». Un luogo dove il riposo dei defunti, accompagnato solo dallo sciabordio delle onde del mare e dal fruscio degli alberi, consente a chi li onora di godere, per dirla à-la Nietzsche (1882), della «sublimità del meditare e dell’appartarsi». Un luogo dove la soglia si sposta sull’estremo confine del mare e dell’abisso che, come ci dice Galimberti (2006), «[…] tutte le cose sottende, vuole che così si ami il mondo. Le linee del mare sono infatti, la ‘profondità’ dell’abisso e il ‘senza-confine’ dell’orizzonte, due dimensioni che inquietano l’uomo». Un’architettura adamantina quella di César Portela, allo stesso modo del Tempio di Zermani, in cui si riesce al sommo grado a sacralizzare la morte e, al tempo stesso la vita, proiettandone il senso verso quell’orizzonte che separa e unisce il cielo dalla terra, i divini dai mortali, ove «nel silenzio del grande spazio [della Natura] sorge non l’anelito a perdersi, ma la speranza di ritrovare se stessi» (Schwarz 1927, p. 289).

Note

1 Come riporta Rangon «Secondo W. Croocke i riti funerari sono classificabili in ben 13 categorie: 1. Cannibalismo; 2. dolmen ed altri monumenti in pietra; 3. abbandono agli animali feroci e ad altri uccelli predatori; 4. sepoltura sotto cumuli di pietre; 5. in una grotta; 6. in una casa; 7. immersione nell’acqua; 8. deposizione entro un albero; 9. su una piattaforma; 10. in un’urna; 11. posizione contratta; 12. in una nicchia; 13. Sepoltura segreta con occultamento di ogni segno esteriore». Crooke W. (e.d.) – Death and Disposal of Dead, Encyclopedia of Hasting, cit. in Rangon M. (1981), Op. cit., 11.

2 Cfr. voce “culto”, in Nocentini A. e Parenti A. (2010) – L’Etimologico. Vocabolario della lingua italiana. Le Monnier, Firenze.

3 Su César Portela si veda la recentissima monografia: Sansò C. (2021) – César Portela. Estremo atlantico, intr. di Barrionuevo Ferrer A.. Clean, Napoli.

4 Il cimitero, progettato nel 1998 e costruito nel 2000, che ha ricevuto nel tempo numerosi premi ed è stato oggetto di varie pubblicazioni, purtroppo a ventun anni dalla realizzazione, anche a seguito di una cattiva ricezione da parte degli abitanti e da varie controversie è ancora inutilizzato. Nel 2011 il regista Alejandro Gaspar gli ha dedicato il film El cementerio marino mutuando il titolo di una nota raccolta di poesie di Paul Valéry (Valéry P. (1947) – Il cimitero marino, Sansoni, Firenze).

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