Luce, Forma e Scala. Su Sette spazi sacri di Simon Ungers1

Uwe Schröder




Sette Spazi Sacri (Sieben Sakrale Räume) è il titolo di una serie di opere esposte dall’architetto e artista Simon Ungers (1957-2006) – cresciuto in Germania e trasferitosi poi negli Stati Uniti – nello spazio espositivo della Sankt Peter a Colonia nel 2003. In concomitanza con la mostra è stato pubblicato il catalogo Sieben Sakrale Räume, che contiene una introduzione molto interessante del teologo Friedhelm Menneke sulle dimensioni dello spazio sacro (Ungers 2003). Nei progetti architettonici esposti, definibili anche “opere artistiche”2, Simon Ungers esamina sette fondamentali tipi di architettura sacra: la Basilica, il Duomo, la Cattedrale, la Sinagoga, la Moschea, la Chiesa e la Cappella. Al fine di un utile confronto, le diverse architetture sono esposte nella stessa scala sia in pianta che in alzato e in sezione, e sono arricchite con disegni sulla spazialità degli ambienti interni ed esterni. Dal punto di vista architettonico, le varie “descrizioni degli oggetti architettonici” sono integrate con modelli in legno esemplificativi. In questa serie, la dimensione architettonicamente costitutiva del “luogo” è del tutto elusa, dotando ogni progetto architettonico di un aspetto teorico o modellistico, o – a seconda della “educazione” dell’occhio dell’osservatore – ogni opera artistica di un carattere oggettuale o scultoreo. In questa ottica, il “luogo” è rilevante solo in quanto spazio in cui questi progetti, o opere d’arte, sono esposti.

L’unico “luogo” rilevante è lo spazio sacro di Sankt Peter dal momento che le “opere”3 non sono in alcun modo legate a luoghi specifici, piuttosto sono autonome a prescindere dal fatto che esse siano viste come opere di architettura o come sculture. Allo stesso modo, anche nei progetti architettonici di Ungers, il “luogo” assume un ruolo secondario: le caratteristiche topografiche possono certamente essere cruciali ed essere sfruttate per intensificare la monumentalizzazione della forma, ad esempio con la T-House o con altre opere dell’architetto tedesco, ma i suoi edifici sono oggetti autonomi, autoreferenziali, cioè sculture funzionali, accessibili, abitabili. In particolare, nelle architetture di Simon Ungers è l’interno, strettamente connesso alla forma dell’edificio, ad assumere un ruolo primario: questi sono spazi architettonici, e come tali “spazi dell’internità” costantemente impregnati di intenzionalità. E probabilmente è proprio il termine “funzione”, apparentemente privo di significato, che equivale ad un pre-requisito costitutivo dello spazio e della forma nelle opere dell’architetto tedesco che attribuisce alle sue opere sempre un programma tipologico. Si fa riferimento a tipi architettonici, cioè il museo, il teatro, la biblioteca e così via, che vengono continuamente elaborati fino a giungere a variazioni sempre diverse in virtù di idee sovraordinate e condizioni ampliate – ad esempio, la massività, il giunto, l’apertura o la materia – e tali tipi sono elevati al livello di un linguaggio architettonico nello spazio e nella forma, e quindi al livello della parola.

Analogamente, nella recente storia dell’arte ci sono riferimenti a questo lavoro di ricerca – ad esempio, nelle opere artistiche di Richard Serra, Carl Andre, Kazimir Malevich –, exempla che si ritrovano anche nella storia dell’architettura: basti pensare ai progetti costruttivisti di El Lissitzky, e in particolare all’architettura “parlante” di Étienne-Louis Boullée. A partire dalla figura dell’architetto francese, si tenta di comprendere i Sette Spazi Sacri di Simon Ungers da una prospettiva sensuale e simbolica alla base della quale si individuano le categorie della poesia, dell’oggetto, della misura, della proporzione, della luce, del carattere e del sublime.

Il bello e il sublime

Il filosofo inglese Edmund Burke (1729-1797) è stato il primo a opporre al sublime il bello come vera e propria categoria. In A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful del 1758 (Burke 1956/1987), il termine viene discusso come un fenomeno fondamentale dell’esperienza estetica. Per Burke, sensi e poteri dell’immaginazione – in origine uguali per tutte le persone, sebbene sviluppati in maniera differente dagli individui – costituiscono i soli elementi fondativi dell’esperienza estetica.
Per il filosofo, il bello e il sublime sono le antitetiche categorie di base dell’estetica e la loro origine si ritrova nell’istinto umano alla convivialità e all’autoconservazione. Le sensazioni intrinsecamente piacevoli di simpatia e benevolenza nascono dall’impulso alla solidarietà sociale e sono scatenate dal sentimento del bello. Al contrario, il sentimento del sublime deriva dall’esperienza della paura. Agli oggetti, sostiene Burke, corrispondono qualità effettive che egli considera e specifica individualmente per definire il contrasto tra sublime e bello in termini oppositivi:

«Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia» (Burke 1987, p. 139).

L’attenzione di Burke è concentrata soprattutto sulla nuova esperienza del sublime ed è l’architettura – con la sua consustanziale attitudine alla grande dimensione, alla “vastità” – che appare particolarmente adeguata a conferire espressione a questo nuovo sentimento. L’Infinito, come la fonte del sublime, trova la sua espressione architettonica nell’apparente successione senza fine di colonne di un colonnato; gli spazi sono destinati ad apparire scuri, tetri e cupi; per ottenere una immensità melanconica, materiali e ornamento devono conferire toni scuri e cupi, come con il nero, il marrone o il viola scuro (Burke 1987a). Le qualità del sublime – e lo stesso è vero anche per il bello – sono concretamente presente negli oggetti; nonostante il giudizio estetico sia di per se stesso soggettivo e perciò legato anche ad una questione di gusto (Burke 1987b).

“E io anche son pittore”4

«Sì, io lo credo: i nostri edifici, e soprattutto gli edifici pubblici, devono essere, in qualche modo, dei poemi. Le immagini che essi offrono ai nostri sensi devono far sorgere in noi sentimenti analoghi ai loro contenuti» (Boullée 1967, p. 53). Già la terminologia adottata da Étienne-Louis Boullée rivela per quale scopo egli abbia elaborato la sua nuova estetica: gli edifici sono pensati per catturare direttamente i nostri sensi, come la poesia, e dovrebbero risvegliare in noi sentimenti, impulsi che emergono dalla “magica poesia” della quale l’architettura è capace.

Per Boullée, la poesia trova fondamento nell’arte di suscitare impressioni figurative attraverso il coinvolgimento del corpo. Si dice che siano la massa degli oggetti e le sue proporzioni, basate su regolarità, simmetria, sulla “armoniosa apparenza”, che danno origine a sensazioni nell’osservatore (Boullée 1967, p. 66). Se l’architettura deve agire sui nostri sensi e in questo modo conoscere, allora essa deve imitare i principi della natura: «Io mi avvalgo dei più preziosi effetti della natura, io li incorporo nell’arte, e grazie a questi apporti io offro la possibilità di condurre l’arte verso il sublime» (Boullée 1967, p. 90).

Boullée desidera guidare l’architettura in quanto arte verso sensazioni del sublime. E non appare dunque sorprendente che egli limiti a una serie molto circoscritta di edifici la capacità e il compito di esprimere l’immensità e l’infinità del sublime. Egli considera gli edifici residenziali “temi infruttuosi” perché è molto difficile che si compia in essi la poetica dell’architettura (Boullée 1967, p.106). Nella parte centrale, programmatica del suo saggio, dove parole e immagini convergono magnificamente, egli elenca quindi esclusivamente edifici pubblici. Prima del terzo paragrafo intitolato “Basiliche”, Boullée dedica un paragrafo autonomo al termine “Carattere”. Per “carattere” egli intende l’effetto che emana da un oggetto e che dà origine esclusivamente a quella sensazione che è commisurata ad esso (Boullée 1967, p. 74). L’inverno ci appare nero, brullo, incolore, spigoloso e duro e noi diventiamo tristi, cupi, soggetti allo spavento, perché questo è il suo carattere (Boullée 1967, p. 75).

Ritornando alla Basilica, allo spazio sacro, e, attraverso l’analogia con le sue riflessioni sulla natura, passando attraverso la foresta “nera” e “misteriosa”, Boullée arriva alla conclusione che nello spazio architettonico è solo attraverso il modo in cui alla luce viene consentito di entrare che si raggiunge l’effetto desiderato. «È la luce che produce gli effetti. Questi causano in noi sensazioni diverse e contrarie a seconda che siano brillanti o cupi» (Boullée 1967, pp. 85-86). Gli effetti della luce condizionano il carattere appropriato dello spazio sacro, dando origine ad uno stato d’animo corrispondente nello spettatore. La luce brillante, dice Boullée, riempie lo spirito di gioia mentre, al contrario, uno spazio cupo suscita tristezza. E dove la luce penetra nello spazio attraverso un percorso indiretto, senza che l’osservatore percepisca da dove essa abbia origine, il risultato è un’impressione “inconcepibile” e “misteriosa” che produce una “incantevole magia” (Boullée 1967, p. 86).

Sette termini

Una volta completato questo excursus su Burke e Boullée, torniamo ora, meglio attrezzati sui termini logici della questione, ai Sette Spazi Sacri di Simon Ungers.

I Poesia (la Basilica)

I Sette Spazi Sacri di Ungers danno luogo a percezioni figurative. Sono figurativi nel senso che i loro rispettivi scopi, quelli suggeriti dai nomi ad essi attribuiti – ad esempio, “Basilica” – sono indagati tipologicamente, tradotti immediatamente e inequivocabilmente nell’architettura, raffigurata e incarnata da una idea architettonica. La “poesia magica” che permette allo spazio o alla forma di apparire come un oggetto emerge tanto più sorprendentemente quanto più chiaramente convergono le finalità e lo spazio.

II Oggetto (il Duomo)

L’effetto ottenuto deriva interamente dalla massività impressionante dell’architettura, dalle sue forme semplici e lucide, dalle pareti spesse e pesanti, dai pilastri e dai soffitti massicci. I pochi elementi utilizzati si presentano in modo regolare e seguono per lo più una disposizione simmetrica. In virtù del materiale scelto, il cemento grezzo, le superfici dell’oggetto appaiono in modo diverso a seconda della luce incidente.

III Misura (la Cattedrale)

I disegni in pianta, sezione e prospetto sono arricchiti con le dimensioni dell’esterno riportate in metri. A seconda della tipologia di costruzione, gli oggetti architettonici della Cattedrale mostrano dimensioni graduate. Numero e dimensione si riferiscono ad un contesto sistemico. L’ordine è costruito in modo modulare e può essere ricondotto allo spessore delle parti.

IV Proporzione (la Sinagoga)

L’oggetto e la dimensione determinano le proporzioni dello spazio e della forma. La Sinagoga è divisibile in modo commensurabile, le proporzioni dello spazio possono essere ricondotte all’apertura, così come le proporzioni della forma possono essere ricondotte ai pilastri. Boullée parla di “aspetto armonioso”.

Ungers inserisce riferimenti alla scala, alla proporzionalità tra uomo e architettura. Alcuni oggetti di arredo, ad esempio le panche, sono introdotte nell’ambiente interno per mostrare la “vastità” dell’architettura. All’esterno dell’edificio sacro, invece, compaiono minuscole figure umane.

V Luce (la Moschea)

La luce determina l’atmosfera degli spazi sacri in modo decisivo: «La manipolazione della luce è l’essenza dello spazio sacro» (Ungers 2005). La luce bianca entra attraverso le finestre traslucide delle pareti perimetrali e del soffitto. Nella Moschea, Ungers ha rinunciato completamente alla luce brillante e all’ombra profonda. Gli spazi sono neutri nella loro illuminazione; gli effetti eccessivamente teatrali sono evitati, e solo occasionalmente la luce entra all’interno dell’edificio in modo indiretto.

VI Carattere (la Chiesa)

Analogamente a quanto Boullée afferma nel suo Saggio sull’Arte, Simon Ungers ritiene che l’arte possa portare l’architettura al livello della parola. Ungers consente ai suoi Sette Spazi Sacri di parlarci, ma essi devono rimanere aperti se l’architetto tedesco si pone domande simili a quelle sollevate da Boullée nella sua preoccupazione per l’architettura sacra; domande ad esempio sul “profondo rispetto” che accompagna la fede religiosa, per una “grandezza” che “si impone allo spettatore, riempiendolo di stupore e meraviglia”, per l’“inconcepibile”, e così via (Boullée 1967).

VII Sublimità (la Cappella)

Il sublime spazio sacro può puntare alla trascendenza, ma nelle opere di Ungers questo scopo superiore è presente solo come idea astratta, e così rimane interamente sullo sfondo contro il quale la sua architettura appare come forma d’arte.

In conclusione, in occasione di una intervista che con Jos Bosman nel 2005, Simon Ungers (2005) afferma: «Per me pensare allo spazio sacro è pensare alla architettura nella sua forma più pura. Lo spazio sacro non è contaminato da interessi programmatici. (...) È pura luce, forma e scala e questa è stata la motivazione che mi ha spinto a fare la Serie».

Note
1 Lectio tenuta da Uwe Schröder in occasione del Simposio dal titolo “Holy Spaces. On the Construction of Sacred Architecture” presso il Politecnico di Milano il 18 marzo 2019.

Nel lavoro di Simon Ungers, sembra appropriato parlare sia di “progetti architettonici” che di “opere artistiche”.

Il termine è qui usato come sinonimo di “progetto”.

Si tratta del motto riportato in italiano in epigrafe al trattato di Boullée É.-L. (1967) – Architettura. Saggio sull’arte, introduzione di Aldo Rossi, Marsilio, Padova attraverso il quale Boullée si dichiara artista e dichiara arte l’architettura.

Bibliografia

BOULLÉE É.-L. (1967) – Architettura. Saggio sull’arte, introduzione di Aldo Rossi. Marsilio, Padova.
BURKE E. (1987) – Inchiesta sul Bello ed il Sublime, G. Sertoli, G. Miglietta (a cura di). Aesthetica, Palermo. Originariamente pubblicato nel 1956 – Vom Erhabenen und Schönen, hrsg. V. Friedrich Bassenge, Berlin. Prima edizione italiana Burke E. (1804) – Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al Sublime ed al Bello, Tipografia di Francesco Sonzogno di Gio. Battista, Milano.
BURKE E. (1987a) – “Il colore come causa del sublime”. In: Id., op. cit., Aesthetica, Palermo.
BURKE E. (1987b) – “Il gusto”. In: Id., op. cit., Aesthetica, Palermo.
UNGERS S. (2003) – Sieben Sakrale Räume, Kunst-Station Sankt Peter, Köln. Catalogo della mostra esposta dal 28 ottobre al 21 dicembre 2003 nello spazio espositivo della Sankt Peter a Colonia.
UNGERS S. (2005) – Autonomy and Dialogue, Cologne. Intervista con Jos Bosman. [online] Disponibile a: <https://vimeo.com/channels/545893/9562266> [Ultimo accesso 17 dicembre 2021].