Su Valdemaqueda. Progettare uno spazio sacro

José Ignacio Linazasoro




Quando ricevetti l’incarico di progettare la Chiesa di Valdemaqueda, la prima cosa alla quale pensai fu il carattere che avrebbe dovuto avere uno spazio sacro visto con occhi moderni.

Fin da quando ero molto giovane avrei voluto progettare una chiesa, un tempio. Le mie prime esperienze architettoniche furono piccole chiese romaniche e pre-romaniche per le quali ero stato attratto dalla loro grandezza e dalla loro luce misteriosa e profonda.

Mi sembrava allora che quegli spazi sacri fossero più attuali, più vicini delle imponenti cattedrali gotiche o delle scenografiche chiese barocche.

La stessa espressione misteriosa l’ho potuta verificare molto più tardi nell’opera di architetti moderni come Le Corbusier, Lewerentz o Van der Laan, nelle loro chiese tenuemente illuminate, nei loro riferimenti atavici e nelle loro costruzioni nude.

All’ideazione del progetto di Valdemaqueda decisi fin dall’inizio di evitare ogni tipo di spettacolarizzazione, di luce chiara e di qualsiasi tipo di ornamento. Anche di qualsiasi espressività basata sull’esibizione spaziale o tecnologica.

Volevo progettare un interno, innanzitutto un interno, come lo erano, in definitiva, quelle cappelle romaniche rurali, caricate di mistero, di espressività dell’ineffabile, del Dio nascosto di Pascal.

Dovevo progettare uno spazio piccolo, in un ambiente rurale, lontano dai centri urbani. Un luogo montuoso nella Sierra de Guadarrama che divide i due altopiani di Castiglia. Una regione della Penisola iberica il cui carattere è sempre identificato dalla sua austerità e dalla sua tendenza al misticismo. Un luogo, quindi, adatto a un’esperienza di questo tipo.

Decisi fin dall’inizio di conferire allo spazio la massima intensità con il minor numero di mezzi possibile, come era sempre stato fatto in Castiglia nelle sue piccole costruzioni sacre, nei suoi monasteri e conventi.

Mi interessava inoltre, come in quelle piccole chiese mozarabiche preromaniche a cui ho fatto riferimento, che l’accesso avvenisse sempre lateralmente, mai dall’asse della navata principale, generando così un percorso interno più complesso e meno diretto verso l’altare. Ricordavo le chiese di San Miguel de Escalada, o Santiago de Penalba, sempre in luoghi nascosti e remoti nella profonda Castiglia. Ma soprattutto pensavo a San Baudelio de Berlanga, a quello spazio unico presieduto da un’unica maestosa colonna a forma di palma che occupa il centro dello spazio. Anche lì, per raggiungere l’altare attraverso l’oscurità, bisogna girare di 90º. Uno spazio illuminato solo da due finestre, unico e meraviglioso che ho sempre cercato di imitare, pur senza riuscirci affatto. Tutta quella somma di sensazioni si affollava nella mia memoria fin dall’antichità, anche se in quel momento si era rafforzata con nuovi riferimenti che avevo ricevuto visitando Ronchamp o San Pietro a Klippan. Lì avevo sentito, nonostante il tempo che era passato tra quegli edifici e quelli che conservavo nella mia memoria, lo stesso mondo di sensazioni, come se tra queste nuove esperienze e i miei ricordi ci fosse stato un salto temporale; verso le mie prime esperienze che, insomma, erano le più profonde, nonostante la conoscenza, poi accumulata, delle opere dei grandi maestri antichi o moderni. Ricordo il Natale del 1997, facendo schizzi in continuazione, quasi ossessivamente, perché mi sembrava di trovarmi di fronte alla possibilità unica di sintetizzare in un solo spazio, quasi estremo, i miei desideri più profondi. Disegnavo e disegnavo,
realizzando anche piccoli modelli nel tentativo di sintetizzare esperienze che venivano da lontano, ma che solo allora vedevano la possibilità di concretizzarsi.

Già pensavo, e continuo a pensare, che la luce è il materiale fondamentale per comporre uno spazio e che nello spazio sacro si trasforma anche in elemento simbolico. Attraverso la luce si trasmette un modo di sentire lo spazio attraverso connotazioni simboliche.

Credo ancora, come allora, che il nostro sentimento dello spazio sacro non sia vicino a quello dell’età gotica, con la sua stabilità, con la sicurezza di abitare nel paradiso figurativo che trasmettono le vetrate delle cattedrali, né allo spazio razionale, sereno, tipico del Rinascimento, del Redentore di Palladio. Ma nemmeno a Reims, nella douce France, o nella ricca Venezia, ma in Castiglia.

Ecco perché continuavo a pensare al romanico, ai suoi spazi densi, oscuri, misteriosi, debolmente illuminati. Era anche la mia prima esperienza dello spazio sacro, quella che avevo vissuto nelle mie escursioni giovanili attraverso le terre di Navarra o Castiglia.

In un tempo di miscredenza, di incertezza come il presente, la luce del romanico esprime anche quei sentimenti, quei dubbi di fronte all’ineffabile. Lo stesso che si prova a Santa Anna a Düren di Rudolf Schwarz o a San Pietro a Klippan di Sigurd Lewerentz.

La penombra di un interno in mezzo al luminoso altopiano castigliano evoca una sensazione di vuoto, ma allo stesso tempo ci permette di vivere l’anelito alla Totalità di cui parla Miguel de Unamuno.

E la luce è il veicolo attraverso il quale si sperimenta questo desiderio. Se non controlliamo la luce, se non teniamo conto della sua capacità evocativa, ogni spazio risulta anodino. Ma nel caso dello spazio sacro è importante nascondere la sua fonte, in modo che lo spazio sia autonomo dal mondo esterno.

A partire dalla luce riflessa, si possono evidenziare tutti gli elementi che compongono lo spazio architettonico, come la struttura o la costruzione.

Tuttavia, sono sempre fuggito, in tutti i miei progetti, dall’ingiustificata esibizione strutturale, ma allo stesso tempo ho sempre pensato che nella struttura, nella costruzione, ci fosse l’origine, il principio dell’architettura.

Non sono mai stato interessato agli “spazi scultorei” di molte chiese moderne, tanto meno a quelli che si presentano come una esibizione strutturale.

Come ha affermato Van del Laan, nell’atto di sollevare una pietra in verticale, è simboleggiata la presenza umana nel Cosmo. È il trionfo della ragione sull’inesorabilità della Natura.

La costruzione suscita dalla sua origine un’idea di sovrapposizione di elementi. Per costruire un riparo, una casa e il tempio, simbolicamente la casa degli dèi, è necessaria la formazione di una struttura trilitica. Una struttura che è presente a Valdemaqueda nella sua versione più atavica, più primitiva: la chiesa di Valdemaqueda è soprattutto una casa, uno spazio abitativo, l’idea stessa di casa.

Per questo la struttura non viene trattata qui come qualcosa di semplicemente funzionale, un supporto, ma come un principio di sovrapposizione di elementi. Attraverso questa sovrabbondanza di elementi si evoca una sovrabbondanza che appartiene al mondo dell’architettura: colonnati, architravi che rimandano ad un’origine tettonica ma che la superano moltiplicandosi, rendendosi costruttivamente superflui.

A Valdemaqueda, oltre a sovrapporsi tra loro, formando un’intelaiatura bidirezionale, le travi in calcestruzzo – che simulano vecchie travi in legno pietrificate dall’azione del tempo – sono anche sovrapposte ad altre travi in legno, suggerendo così un’operazione “successiva”.

Una storia apocrifa, inventata, ma necessaria per introdurre simbolicamente lo scorrere del tempo.

Un unico pilastro, forse superfluo e ripetitivo costruttivamente, anche se non spazialmente, ordina e dirige lo spazio interno, dividendolo e, in un certo senso, moltiplicandolo.

È un’altra manifestazione della sovrabbondanza dell’architettura.

La luce mette in risalto l’intera struttura, ponendola in controluce e illuminando solo le pareti. Queste sono immerse in una luce la cui origine rimane nascosta, a meno che non si guardi sotto i lucernari, vicino alle pareti.

Uno spazio sacro deve essere prima di tutto uno spazio senza tempo.

Ho un rifiuto particolare per le chiese che pretendono di essere moderne. L'attualità non appartiene allo spazio sacro.

Nella configurazione di quell’atemporalità, le tracce ci permettono di esprimere l’usura che il passare del tempo produce.

Ecco perché le pareti interne dell’unica navata a Valdemaqueda – o forse due navate divise da un unico pilastro? – hanno una consistenza ruvida, derivante da un rivestimento leggero, quasi trasparente, sul mattone con cui sono costruiti.

E le travi in cemento, in quanto materiale assimilabile a una pietra consumata dal tempo che si riflette nell’impronta del cassero, hanno anche quella stessa ruvidità, quella stessa nudità delle pareti, come se mancassero di un rivestimento. Una forma di “non finito” espressione di atemporalità, di permanenza, come quella vista nelle colonne di Selinunte prive di un vecchio rivestimento, ma ancora in piedi.

Atemporalità intesa prima come memoria che come assenza dell’azione del tempo. Un’idea che ci riporta al romanico, alle sue pareti nude che hanno perso antichi dipinti murali. Ricordo ora l’interno della chiesa di Giornico in Ticino e come Peter Märkli ne ha assorbito l’atmosfera nel vicino, bellissimo e arcaico Museo La Congiunta.

A questa densità di rimandi, concentrati in uno spazio ristretto, come avviene ancora più intensamente a San Baudelio de Berlanga, a Valdemaqueda si aggiunge la convivenza del nuovo con una preesistenza reale, con una permanenza: quella della vecchia abside dell’originaria chiesa scomparsa.In questo caso è stato proposto un esercizio al limite del paradossale, tra armonia e contrasto.

Questa abside è gotica, ma di un gotico rurale, di architettura muraria, più romanica che gotica: nessuna leggerezza, nessuna trasparenza, chiusa da muri di pietra e con un’unica finestra laterale, ancora romanica.

Con il mio progetto ho anche cercato di rispondere a questa architettura attraverso un arcaismo ancora più grande: niente volte, niente altezze, una costruzione ancora più bassa, primitiva, più arcaica. Il nuovo era allora più vecchio, più atavico.

Ricordavo anche, facendo questo tipo di riflessioni, come il rapporto tra nuovo e preesistente si produca in alcune costruzioni che non hanno mai finito per sostituirsi ad altre e che ora restano come due elementi incompleti, uno accanto all’altro. È il caso della Cattedrale di Plasencia in Estremadura o delle due cattedrali di Beauvais, sempre la parte nuova più alta della vecchia.

Qualcosa di simile accade a Valdemaqueda, solo che la parte vecchia è più alta di quella nuova, più “moderna” di quella ora aggiunta. Il vecchio risulta ora essere l’antico e il nuovo l’arcaico.

Bramante, che a Santa Maria delle Grazie trovò una situazione simile, riuscì a realizzare una nuova unità tra l’oscura chiesa gotica originaria e la rotonda illuminata aggiunta.

A Valdemaqueda si è voluto porre l’accento sul punto di incontro, attraverso il lucernario più alto che unifica e, al tempo stesso, separa i due corpi della chiesa, tra i quali si stabilisce, allo stesso tempo, una continuità, attraverso un comune rivestimento delle pareti.

L’abside rappresenta la conclusione del percorso attraverso la chiesa, dalla porta laterale e lì la semplice ma bella pala rinascimentale segna la fine di un percorso che viene enfatizzato attraverso un pavimento leggermente degradante verso l’altare.

Nel muro dell’ampliamento viene aperta una nuova finestra attraverso la quale penetra una luce radente che si riflette in una cornice di legno. Questa finestra risponde, dalla modernità, all’antica finestra romanica dell’abside.

Il confessionale, aperto sul muro opposto, a nord, riceve una fredda luce zenitale che contrasta con quella proveniente dai lucernari da cui vengono illuminate le pareti.

Un’altra finestra, in questo caso una finestra piccola, l’unica da cui si vede lo spazio esterno, illumina l’acquasantiera, una pietra di granito levigato. La finestra simula una stella nel mezzo di un luogo in penombra.

All’esterno la chiesa è monolitica, austera e mono-materica. Non c’è nulla che riveli il suo spazio interno. Pensavo anche qui a San Baudelio, alla sua austerità così castigliana, così simile all’esterno ai marabutti musulmani. Come lì, solo una porta, nel nostro caso rinascimentale, recuperata dalla vecchia chiesa scomparsa, interrompe la continuità del muro. Porta che si separa, però, dallo stesso muro, come se si trattasse di un reperto archeologico ricostruito come costruzione autonoma.

Il muro litico è costituito da pezzi di pietra stretti e allungati di diversi spessori e diverse trame per conferire vivacità e ridurre la monotonia. In tal modo il muro si armonizza anche con il vecchio muro dell’abside, consumato e usurato dal tempo. In lontananza, la sagoma del nuovo tempio risalta per il profilo che le conferiscono i lucernari.

Un’ultima riflessione nasce ancora, ora a posteriori, overo dall’analisi dell’edificio finito, dal risultato dell’iter progettuale.

Ritengo, in questo senso, che la caratteristica che meglio definisce la chiesa sia il contrasto tra l’opacità e la semplicità dell’esterno – se si prescinde dalla volumetria ottenuta dai lucernari – e lo spazio interno complesso e frammentato. Quest’ultimo costituito da pozzi di luce e dalla struttura. Frammentazione applicabile sia al piano orizzontale che al piano verticale, ovvero sia in pianta che in sezione. Con tutto ciò si produce all’interno una certa discontinuità spaziale grazie alla struttura che divide la navata in spazi stretti e molto verticali – i lucernari – e uno spazio basso e fioco.

Oltre a tutto ciò, è da evidenziare il percorso ortogonale all’altare, a partire dalla porta di accesso.

Mentre scrivo queste righe, rileggendo un vecchio libro di Fernando Chueca (Invariantes castizos de la arquitectura española), la cui prima edizione risale al 1947, trovo che, secondo il suo autore, tutte queste caratteristiche spaziali siano tipiche di molte architetture tipicamente spagnole derivate dalla tradizione ispano-musulmana. In effetti, avevo già fatto riferimento in questo scritto al mio interesse, fin dalla giovinezza, per San Baudelio de Berlanga o Santiago de Peñalba, entrambe chiese mozarabiche. Ma ora, seguendo Chueca, potrei citare anche tra tanti altri, sia per la frammentazione che per la luce: l’Oratorio del Partal nell’Alhambra o la meravigliosa e minuscola chiesa paleocristiana di Santa Cristina a Lena, situata nelle montagne delle Asturie.

Dico tutto questo perché mette in discussione la possibile influenza su questa chiesa del mondo nordico e, nello specifico, delle chiese di Lewerentz, più specificamente della chiesa di Klippan, e non perché mi interessi ora negare questa possibile influenza – di fatto io mi ritengo un grande estimatore dell’opera del maestro svedese – ma perché i fatti ci rimandano ad un altro tipo di valori architettonici.

Evidenziamo due differenze fondamentali: né la luce di Valdemaqueda né il suo spazio frammentato – «quantico», direbbe Chueca – hanno a che fare con la “luce nera”, nè con l’unità e la continuità spaziale di Klippan. Il pilastro unico in Klippan centralizza lo spazio, mentre in Valdemaqueda lo divide. È curioso che fino a questo momento, fino alla rilettura di questo libro raro e, in un certo senso, magistrale, non mi fossi accorto di tutto questo. Sicuramente perché Valdemaqueda è un progetto molto personale, autobiografico e intuitivo e i riferimenti sono apparsi durante tutto il processo progettuale senza essere stati volutamente ricercati.

C’è però un bel testo, molto sintetico e preciso: quello di Francesco Venezia, pubblicato per Casabella nel 2002, poco dopo la costruzione della chiesa, che sembra confermare queste impressioni. Venezia ha visitato Valdemaqueda con me e poco dopo ha scritto l’articolo. Nel suo articolo, tra le altre cose, si parla di luce e del paesaggio castigliano.

Per tutto questo mi pongo infine la seguente domanda: Valdemaqueda non è in fondo una cappella profondamente castigliana, un esempio di architettura che, essenzialmente, esprime un insieme di riferimenti che riemergono quasi sempre nei miei progetti?

* Traduzione dallo spagnolo di Claudia Sansò.