Recensioni

Avanguardia russa

L’altro montaggio.
Architettura come epifania del mondo 

Teatro e scena urbana, Ricerche e sperimentazioni spaziali dell’Avanguardia russa è il titolo del bel libro che Laura Scala ha condensato al termine del suo percorso di ricerca al dottorato in composizione architettonica dello Iuav di Venezia. Lungo il suo percorso di studi Laura Scala ha avuto la fortuna di confrontarsi e discutere temi e questioni compositive inerenti alla propria ricerca con Luciano Semerani e Antonella Gallo, che hanno rispettivamente scritto due importanti testi introduttivi al volume. Altrettanto rilevante è la traduzione, in appendice al libro, degli Elementi della composizione architettonico-spaziale di Vladimir Krinskij, Ivan Lamcov e Michail Turkus, prima edizione del 1934. Un testo fondamentale per comprendere la didattica del Vchutemas, l’Istituto superiore d’arte di Stato russo con i suoi Laboratori di arte-tecnica, che operò a Mosca tra il 1920 e il 1930.

Il libro è articolato in due parti principali, un breve capitolo conclusivo e un’aggiunta alla fine del libro in cui è presente, come accennato, la traduzione degli Elementi della composizione architettonico-spaziale.

La prima parte, in cui è presente una lettura della sintassi dello spazio scenico, è dedicata essenzialmente all’analisi delle scenografie di due opere teatrali dell’Avanguardia russa: La Vittoria sul sole e Le Cocu Magnifique.

Pobeda nad solncem (La Vittoria sul sole) è un vero e proprio capolavoro teatrale, messo in scena per la prima volta a San Pietroburgo nel 1913 e frutto della collaborazione tra Michail Matjušin, che compose la musica, Aleksej Kručënych che scrisse il testo e Kazimir Malevič che disegnò le scene e i costumi. Di Le Cocu Magnifique (Il magnifico cornuto), opera scritta da Fernand Crommelynck nel 1921 e andata in scena a Mosca nel 1922, vengono analizzati i disegni e le scenografie di Ljubov Sergeevna Popova.

La seconda parte, sulla sintassi dello spazio architettonico e urbano affronta, invece, l’interpretazione dello spazio urbano come teatro quotidiano della percezione e potenza rivelatrice della condizione umana. Questo discorso si arricchisce anche attraverso l’analisi del progetto per il Palazzo del lavoro dei fratelli Leonid, Viktor, e Aleksandr Vesnin del 1922-23.

Ora, come sottintende il titolo, la mossa di partenza dell’autrice ci spinge direttamente al nucleo essenziale del libro: il rapporto, per nulla scontato, tra teatro e architettura. Cosa ci dicono le pagine di questo libro su tale rapporto a partire dall’Avanguardia russa? Ci dicono innanzitutto che esiste l’esperienza artistica e che tale esperienza è ciò che ci rende autentici, autentici in ciò che siano, in ciò che facciamo. Ribadiscono, soprattutto, che l’esperienza artistica definisce l’orizzonte di senso del fare dell’architetto al di là e prima che la soddisfazione dei bisogni dispieghi la sua banale spietatezza e soffochi il desiderio di trascendere il mondo delle necessità in mondo espressivo, in un nuovo mondo d’idee e di passioni.

Frammenti e riconfigurazione di un mondo nuovo s’intitola, non a caso, l’ultimo capitolo del libro. Capitolo in cui costruttivismo, cubofuturismo e suprematismo sono messi a confronto con esperienze e sperimentazioni dell’architettura contemporanea. Come sempre tornano le influenze e i richiami tra il vecchio e il nuovo, tra l’antico e l’attuale. «Personaggi» anche quest’ultimi – l’antico, il nuovo – sempre in balia di procurarci uno slittamento dell’esperienza la cui prima caratteristica ci obbliga a tenere in maggiore considerazione il rapporto tra linguaggio e immaginario e di conseguenza, come emerge dalla lettura di questo libro, ci impegna a tenere in maggiore considerazione il tormento e la ricerca di essere veri, la speranza di restare liberi e il desiderio di ogni coscienza di rendersi visibile a sé e agli altri.

Teatro e scena urbana ci parla, attraverso le opere citate, di tecniche e modi compositivi con i quali noi possiamo immaginare e mettere in scena – prima di mettere in opera – un nuovo mondo che è allo stesso tempo anche antico, e che tuttavia, per essere così paradossale, esige un progressivo cambiamento della nostra coscienza. Il rapporto tra teatro e architettura c’insegna, dunque, o ci potrebbe insegnare seguendo le argomentazioni del libro, un cambiamento di livello d’essere.

L’endiadi teatro/architettura, come viene sviluppata da Laura Scala, ci indica, infatti, che tra corpo e spazio è facile che sussistano e si sviluppino rapporti ingannevoli o fantasmagorici, così come accade nella vita di tutti i giorni, prim’ancora che a teatro, ma soprattutto ci racconta che esiste, per contrasto, la possibilità concreta e autentica di concepire ciò che siamo, ciò che facciamo, in maniera poetica. Come noto l’Avanguardia ci ha abituato a pensare un mondo nuovo come il risultato di una rivoluzione, come l’esito del sovvertimento degli antichi ruoli e delle vecchie convinzioni. Anche se sappiamo, in realtà, che il rovesciamento delle consuetudini è da sempre presente nella cultura occidentale, testimoniata dalla tradizionale figura utopica del «mondo alla rovescia». Il mito del «mondo alla rovescia», come ha mostrato Michail Bachtin, esprime l’aspirazione profonda a ri-fare il mondo per assegnargli un senso nuovo e un rigenerato ordinamento. Un mondo prefigurato in cui il povero fa l’elemosina al ricco, il santo diventa un peccatore, i pesci volano e la pecora tosa il pastore. Un mondo così concepito possiamo metterlo in immagine, e a partire da questa nuova immagine possiamo auspicare un reale sovvertimento delle ingiustizie e un’autentica rivoluzione sociale.

Il tema del «mondo alla rovescia» occupa solo un piccolo paragrafo del libro ma probabilmente rappresenta l’autentico «sottosuolo» delle interpretazioni sviluppate da Laura Scala. Sinteticamente possiamo ricordare che il sovvertimento più grande e angoscioso che l’Avanguardia russa abbia pensato è quello della disfatta del tempo. La morte del tempo: l’attimo apocalittico. Dopo un nuovo mondo. Un mondo nuovo salvifico e di rigenerazione della condizione umana e della sua espressività. Tuttavia è importante rilevare, come fa l’autrice, che il distruggere è necessario al costruire, e che, come ha scritto Nietzsche, la forza cosmica della vita si esprime in « un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano in un’innocenza eternamente uguale – e soprattutto – si ritrovano in questo mondo solo attraverso il giuoco dell’artista e del fanciullo». Per mettere a morte il vecchio ordine presente con la sua tirannia dei dati di fatto e per ritrovare l’emozione originaria dell’esserci bisogna, come c’insegna il teatro, giocare come un’artista, come un fanciullo. Questo c’insegna il teatro, questo ribadisce l’autrice con il suo invito a riconsiderare l’esperienza artistica, l’esperienza della finzione scenografica, come consustanziali al destino dell’architettura.

Ora le argomentazioni di Laura Scala suscitano alcune domande estreme. Arriverà un giorno in cui anche il teatro verrà distrutto e superato? Arriverà un girono in cui anche il teatro morirà? No! Non credo. Il teatro non morirà mai. Certamente come ogni cosa anche il teatro stesso può morire nella finzione per risorgere nella realtà come mondo nuovo. Forse un giorno, chissà, morirà il cinema, oppure se non morirà sarà qualcosa di diverso rispetto al cinema che conosciamo oggi e sicuramente qualcosa di profondamente differente rispetto al cinema degli inizi. Ma il teatro no, non credo che il teatro morirà fin tanto che l’uomo, ahimè, sarà coinvolto in sciagure, cadrà in disgrazia, soffrirà, odierà oppure amerà se stesso e gli altri. Forse il cinema morirà perché è essenzialmente un’arte tecnologica, è principalmente una téchne. E le tecnologie, come sappiamo, cambiano, cambiano velocemente e radicalmente. Il teatro non morirà mai perché alla fine richiede poca téchne, c’è bisogno di poco per fare teatro: un luogo, un preciso momento, una sedia oppure un panno qualsiasi, una vicenda o un mito in cui letteralmente cadere dentro, conflitti o gelosie, il desiderio di giustizia, un morto e tanti, tantissimi perché, e soprattutto un’interminabile desiderio di libertà. Gli uomini amano il teatro anche inconsciamente. Il teatro è una cosa molto antica e molto importante, forse anche troppo importante per essere, come dire, oggetto di definitiva sparizione. Questo perché in fondo ogni volta che l’uomo sente il bisogno di interrogare se stesso, le sue azioni e le sue realizzazioni, vede se stesso proiettato in un altro, immagina il suo vissuto nel vissuto di un altro. Sempre l’uomo vede se stesso, vede l’uomo che era, vede l’uomo che è, nel momento in cui si vede rappresentato. E così inizia a dire, inizia a pensare: io sono come quello lì? Io faccio come quello lì? E questo pensare, questo fare che «io desidero» è sempre un fare e pensare estremo e decisivo. Un fare e pensare un mondo nuovo e auspicabilmente più giusto. Un fare e pensare la libertà.

E l’architettura? È in pericolo l’architettura? Morirà l’architettura? Ci possiamo consolare pensando che se non può morire il teatro allora non morirà l’architettura. Anche se la diversa importanza che l’aspetto tecnico gioca nella costruzione dell’architettura è sicuramente più grande e intenso di quello necessario alla realizzazione di una pièce teatrale. Dunque ancora una volta chiediamoci, come suggerisce questo volume: un’architettura che si affida esclusivamente alla téchne, e occulta la sua archè, la sua potenza originaria, è destinata prima o poi a soccombere?

Ho accennato al fatto che per fare teatro ci vuole poco, ma questo poco è realmente vitale, come viene sottolineato da Laura Scala, perché riesce ad animare proprio quella potenza originaria in grado di colpire con forza la realtà colma d’indolenza e di apatia in cui l’uomo gesticola e armeggia senza pathos. Questa potenza originaria è l’emozione. C’è un’emozione all’inizio del pensiero, all’inizio del fare che testimonia la verità di quello che andiamo facendo, la verità delle nostre esperienze. Spesso questa emozione, per certi versi sottile e impalpabile, è chiamata thauma, una potenza originaria, qualcosa di pre-oggettivo, di pre-rappresentativo. Il suprematismo di Kazimir Malevič si è spinto dentro i segreti del reale fino a raggiungere il pre-oggettivo, per cogliere proprio l’emozione fondativa e simbolica che costruisce/distrugge un mondo nuovo. È noto che Malevič, nei sui testi di carattere speculativo, fa continuo riferimento alla dimensione dell’emozione. E l’opera dell’artista russo gioca un ruolo importante nelle argomentazioni di Laura Scala.

Ma l’autrice ci racconta anche, con grande semplicità e chiarezza, della potenza del montaggio. Un tema importante per le Avanguardie russe. E il senso che il montaggio assume nelle sue interpretazioni si spinge così in profondità fino a voler mostrare la «sorgente emotiva» che presiede la nascita delle forme: la lotta; la lotta delle immagini tra loro. Nel montaggio, quasi inconsapevolmente, noi viviamo per la prima volta la lotta delle immagini tra loro. E a questa lotta noi siamo chiamati a dare un senso, prima di tutto un senso compositivo. Con il montaggio viene riattivata nella nostra coscienza, come se fosse per la prima volta, un’esperienza originaria cosicché avvertiamo un’emozione che scaturisce dal contrasto tra le forme e gli eventi in cui le forme appaiono, prim’ancora che dalle forme stesse.

In questa lotta delle immagini tra loro c’è anche la lotta dell’architettura-come-teatro e del teatro-come-scena urbana. Due immagini che allo stesso tempo si attraggono e confliggono poiché non riescono da subito a coincidere e ancorarsi alla realtà secondo l’ordine del sensibile. Ed è proprio l’ordine del sensibile – del sensibile alogico, della pittura suprematista o del linguaggio zaum’, il linguaggio asemantico trans-mentale e trans-razionale dei futuristi russi – che ci consente, secondo Laura Scala, di porre una consapevole distanza dai rigidi schemi del logos nella direzione dell’esperienza artistica. Esperienza che abbiamo indicato, sulla scorta delle pagine di questo libro, come necessaria al cambiamento di livello d’essere. Un incremento d’essere presente, come rileva l’autrice, anche tra i postulati teosofici del Tertium Organum di Piotr Demianovich Ouspenskij. Dopotutto il mondo che vediamo non è altro che il riflesso del nostro modo di essere, cioè del nostro modo di pensare. E questo modo di pensare, come ha scritto Ouspenskij, esige per migliorarsi un lavoro su di sé. Il lavoro su di sé, preludio essenziale alla messa in scena del desiderio di migliore questo nostro mondo, chiede di essere ribadito con passione, con forza argomentativa e analitica, così come viene raccontato nelle pagine di questo libro.

Per migliorare questo nostro mondo, come ha scritto Luciano Semerani nell’introduzione al libro attingendo al simbolismo della Kabbalah, è necessario «realizzare sé stessi». In conclusione vorrei ricordare l’incipit con cui, proprio Semerani, apre il volume: questo libro «per tutto quello che mostra, darà la stessa gioia e felicità come quando si incontra un vecchio amico». Sicuramente, possiamo aggiungere, darà una gioia grandissima, come l’affermazione di una emozione inattesa, tutte le volte che ci aiuterà a ricordare un Amico o un Maestro come Luciano Semerani.


Ildebrando Clemente





Autore: Laura Scala
Titolo: Teatro e scena urbana
Sottotitolo: Ricerche e sperimentazioni spaziali dell’Avanguardia russa
Lingua: Italiano
Editore: LetteraVentidue, Siracusa
Caratteristiche: formato 19,5x24,5 cm, 272 pagine, brossura, colori
ISBN: 978-8862424974
Anno: 2021