La precisione di una idea

Raffaella Neri



Tempo fa esisteva una rivista inglese di architettura che si chiamava 9H, una parola che oggi non direbbe nulla a un giovane architetto. Il titolo era riferito alla durezza della mina, assai secca, cui era possibile fare una punta affilatissima per tracciare una linea sottile e impietosa, quasi una incisione sulla carta, che non lasciava spazio ad alcuna sbavatura, imprecisione o indefinitezza del tratto.

In studio non si usava quasi mai quella mina per disegnare, in verità pressoché introvabile, ma 9H era la metafora di una precisione cui Antonio Monestiroli aspirava anche nei disegni, oltre che nelle architetture. Una precisione che è sempre stata la cifra del suo lavoro, e che, come generalmente avviene, il modo di disegnare fedelmente riflette. Perché il disegno rispecchia il pensiero sul progetto, ne testimonia la genesi e lo sviluppo, corrisponde al suo avanzare e alle sue variazioni: dà forma a una idea, e tende a essere tanto più preciso quanto più precisa è l’idea stessa.

Per Antonio Monestiroli precisione significa aspirazione alla chiarezza e alla intelligibilità, entrambi requisiti irrinunciabili delle sue architetture. Anche lo schizzo ubbidisce a questa regola: da lui poco praticato e poco amato, soprattutto nella versione più impressionista, e conseguentemente poco esibito, poiché contiene sempre un che di vago e di superfluo che distoglie l’attenzione dal suo oggetto. Quando esiste è solo un appunto, che generalmente include misure e proporzioni perché, una volta disegnata, l’idea ha preso forma, e misura e proporzione ne costituiscono l’essenza vitale. Talvolta lo schizzo è fatto sulla base di un disegno più preciso, di una planimetria, di una traccia che delinea la condizione al contorno della nuova architettura, per stabilirne le relazioni, i centri, le gerarchie. Oppure mette schematicamente a confronto ipotesi diverse, modi possibili della composizione e dell’aggregazione di più edifici, principi sulla base dei quali dare forma e senso ai luoghi e agli insediamenti.

Monestiroli rifugge da ogni compiacimento per il disegno in sé: il rigore delle architetture e la ricerca di generalità nel progetto trovano riscontro nella essenzialità e nella assertività del disegno. Come le architetture, questo non deve mai essere accattivante o ammiccante, cercare il plauso o mirare a compiacere; non è consolatorio, per dirla con Vittorini, né deve essere ingannevole, piuttosto eticamente asciutto e severo. Deve essere impietoso e, per essere utile, evidenziare problemi ed errori. Perché il disegno di architettura ha valore puramente strumentale, e il bel disegno è quello che meglio traduce il pensiero per rappresentare in modo efficace e chiaro l’idea di architettura e il modo in cui questa si traduce in una costruzione.

Ai tempi del disegno a china, al tratto secco della matita corrispondeva il pennino 0,1, il più sottile in commercio, che si rompeva con facilità ma garantiva linee e angoli di grande precisione, la stessa assicurata poi, e anzi amplificata, dal disegno al computer. Con questo poliedrico strumento c’è modo di essere più precisi anche con le viste tridimensionali: il computer più facilmente consente di controllare e di rappresentare lo spazio compreso fra le architetture, le loro proporzioni, talvolta la luce, e in questo senso è stato utilizzato, con lo stesso rigore e con un po’ di avvedutezza.

La predilezione di Antonio Monestiroli è evidentemente rivolta al disegno tecnico, planimetria, pianta, prospetto e sezione: un disegno scientifico, rigoroso, chiaramente astratto, ma adeguato al progetto. Con le ombre, magari, che meglio fanno comprendere la profondità dello spazio anche sul foglio di carta. Da qui l’oculatezza nell’uso del disegno prospettico e la avversione per il render, per il disegno senza controllo né misura, totalmente falsificabile, l’opposto della aderenza e della precisione spaziale perseguiti. È piuttosto il modello tridimensionale in scala lo strumento appropriato per misurare lo spazio, anch’esso una rappresentazione oggettiva, precisa, sintetica e ancora astratta, ma più prossima alla realtà e alla tridimensionalità dei luoghi e degli edifici. Si tratta di una questione di finalità: la rappresentazione tridimensionale, e il disegno in generale, sono gli strumenti per rappresentare e per misurare uno spazio immaginato, per avvicinarsi alla sua costruzione reale. Il controllo delle qualità spaziali che le composizioni generano e la definizione delle relazioni fra volumi sono il cuore del progetto di architettura, ciò che vi è di più difficile da immaginare e da prevedere. E anche da insegnare: si affinano con l’esperienza e aumentano di difficoltà man mano che cresce la scala, che la misura dello spazio sfugge alla prossimità del corpo e alla percezione dell’occhio. La rappresentazione dello spazio, non a caso, è sempre stata una questione importante che ha a che vedere con il pensiero sullo spazio. La storia della prospettiva insegna.

I disegni dei progetti che riguardano composizioni urbane sono particolarmente elementari, quasi schematici. Sono ancora una volta l’affermazione di un pensiero che, sistematicamente, mira a stabilire prima di tutto un principio: tale principio riguarda luoghi e spazi che la composizione dei volumi consente di generare, che poi dovranno avere coerente espressione attraverso la forma delle architetture. In questi disegni le architetture non possono che ridursi alla loro forma elementare, geometricamente astratta, una composizione di rettangoli, di quadrati, di cerchi, di linee, a meno della loro definizione architettonica, che verrà in seguito, in coerenza e guidata da questi. Perché queste geometrie contengono già una idea tipologica e di relazione spaziale: non si tratta di distribuire quantità e funzioni, né di un gioco formale. Ogni figura rimanda a un tipo, suggerisce un modo di porsi nello spazio e contiene le relazioni fra pieni e vuoti; gerarchie, luoghi e misura degli spazi aperti, ovvero tutto ciò che di fondamentale vi è nel progetto, si definiscono in questo momento, attraverso questi disegni.

Sono disegni minimi, poco gratificanti, di una semplicità quasi sconfortante, pari solo alla loro importanza. Disegni che a scuola gli studenti sottovalutano e tendono a rifuggire poiché non ne colgono il valore, ma che Monestiroli non temeva di esibire. Disegni che sapeva essere generatori e decisivi, proprio per la loro estrema essenzialità, della stessa essenzialità che possiede la profondità di un pensiero, che assimila riduzione formale a riduzione intellettuale. Questo il suo difficile insegnamento: non si deve avere paura della elementarità del disegno, dove ogni più piccolo elemento si carica di significato, perché, se è espressione di un pensiero, è in realtà un difficile raggiungimento. Bisogna piuttosto temere la gratuità della forma e la sua povertà di senso, che rispecchiano solo la banalità delle idee. In ogni caso, riduzione e astrazione sono proprie del disegno a ogni scala: si tratta di trovare il limite confacente ad ognuna di esse.

Un ultimo appunto: il collage. Come alcuni grandi maestri, Antonio Monestiroli lo ha utilizzato sovente e ne ha anche scritto in un breve testo intitolato “I segni della colla”*. Composto inizialmente con fotocopie, forbici e colla, appunto, sostituiva talvolta planimetrie e viste nei progetti a scala urbana per meglio simulare, senza tradirla, una realtà immaginata. Ma, soprattutto, era impiegato nelle prime ipotesi per le grandi composizioni come strumento di progetto.

L’uso del collage corrisponde a una idea di architettura fondata sul pensiero analogico: sostiene, da una parte, la continuità con la storia, la possibilità di pensare nuove architetture a partire da architetture esistenti, e dall’altra manifesta, attraverso la sua evidente provvisorietà, il suo essere fuori posto, la necessità di rinnovarle, di adeguarle ai tempi e ai luoghi. Il collage non dà indicazioni circa la forma delle nuove architetture, ma avanza, ancora più che nei disegni planivolumetrici, la precisione di una idea tipologica e spaziale, già concretizzata in forma compiuta in un tempo precedente. Suggerisce perciò relazioni fra architetture e spazi aperti, misure, proporzioni, rapporti di vuoti e di pieni, apertura, chiusura, direzione, isolamento, aggregazione, tutte le indicazioni generali che contengono i tipi edilizi.

Scegliere una architettura per comporre un collage significa riconoscere e riproporre una idea generale, presuppone una capacità di astrazione nel pensiero e nella lettura degli edifici e dei luoghi sulla base di una intenzionalità di progetto, in attesa di una nuova interpretazione che dia all’architettura rinnovata concretezza, costruttiva e formale. Una operazione propria della nostra modernità e, appunto, fortemente dipendente dal pensiero analogico.

Due parole ancora sull’uso del colore. Nei disegni di Monestiroli i colori sono pochi, ricorrenti, come pochi sono gli elementi delle architetture, ridotte al minimo, alla loro generalità. Il rosso dei mattoni, l’ocra della pietra, o magari un collage per questa, il verde degli elementi di natura e pochi altri. Sono colori che vogliono essere realisti, appropriati, ma anche, al tempo stesso, astratti, quasi privi di espressività propria. Sono indicativi, ancora una volta, della generalità dei materiali: il “verde” non può che essere verde, magari cambia intensità a seconda che sia un prato o un bosco, l’acqua non può che essere blu, anche se quella di Venezia vira al verde. È un colore uniforme, poco più che simbolico, un rimando alla idea generale di acqua. Si può paragonare alla scena fissa di un teatro: non è rappresentata quella particolare acqua, variabile, in quella particolare luce, come in un quadro impressionista, ma l’acqua, in generale. È il concetto opposto al render, alla contestualizzazione, a una forma di verismo contraffatto della rappresentazione. Questo uso dei colori tende a una generalità difficile da travisare, che poi la particolarità e le variazioni della realtà renderanno ricca e viva. 

Questo, in generale, credo sia per Antonio Monestiroli il ruolo, fondamentale e insidioso, del disegno. Insieme alle architetture deve essere soprattutto schierato contro il formalismo, per affermarsi come interprete rigoroso e severo della necessità di forma, di quella precisione formale che aspira a corrispondere precisamente all’idea, e a manifestarla nel modo più chiaro e diretto possibile. 

* I segni della colla, in Attraverso la Storia, Città Studi Edizioni, Milano 1996