Sul disegno, in un gioco a incastri*

Guido Canella



Oggi prenderò in considerazione il disegno in un gioco ad incastri.

La volta scorsa vi accennavo come la nostra sia una lettura obliqua, diagonale, non deduttiva, che cerca di dar conto della impressione che ricaviamo dalle opere e dalle immagini. Mi sembra di aver accennato, sempre la volta scorsa, a Baudelaire, l’intellettuale francese, poeta, scrittore, critico d’arte che è considerato il vero fondatore della critica moderna.

Baudelaire sosteneva che la critica deve essere parziale, appassionata, politica, nel senso di essere esclusiva ma nello stesso tempo di aprirsi a tutti i possibili orizzonti della conoscenza. Baudelaire, sempre a proposito della critica diceva che essa deve risalire dalle impressioni ai principi. Questi principi sono un po’ le teorie di cui noi cerchiamo di parlare, seguendo il procedimento di Baudelaire.

Oggi affrontiamo il tema del disegno e voi sapete che il disegno in architettura è qualche cosa di diverso dal disegno, dal segno in pittura. Il disegno per la pittura è strutturale, e direi connaturato alla nascita e allo sviluppo dell’opera. C’è il disegno della musica che si fa sugli spartiti musicali e ha una sua traccia, una sua logica, una sua coerenza che si traduce in qualche cosa d’altro. Il disegno è anche presente negli alfabeti, nei segni della lingua, con cui si trasmette la lingua.

Il disegno in architettura è qualche cosa che può essere affine a quello della pittura, volta a volta appunto a quello della musica o della lingua, nel senso che il disegno in architettura talvolta è dentro la costruzione dell’opera, tale altra invece sta al di fuori, la contempla dall’esterno.

Il disegno di cui parleremo oggi riguarda i diversi generi del disegno che hanno a che fare con l’architettura, alcuni di questi, perché sono tanti: c’è il disegno d’impressione, c’è un disegno anche di squadra che tende alla esecutività dell’opera, c’è un disegno d’atmosfera, che in qualche modo vuole supplire la realtà e quindi descrivere insieme all’opera, anche il contesto di destinazione. C’è un disegno futuribile, quel disegno che ritrae una prospettiva di un tempo a venire. C’è poi il disegno senza cancellature, ossia un disegno intuitivo che a mio parere è quello più connaturato all’architettura, è il famoso schizzo di architettura, che contiene in germe già i presupposti genetici dell’opera di architettura.

Ecco, parleremo un po’ di questi generi e improvviseremo alcune impressioni dalle immagini e dai confronti che tenderemo ad instaurare.

Qui vedete un’incisione del 1625 di Piazza del Popolo a Roma (Fig. 1s) con a fianco uno schizzo di Johann Wolfgang Goethe, eseguito durante il viaggio che questo personaggio straordinario compì in Italia nel 1780 circa (Fig. 1d).

Se fate caso vedete come nell’incisione, Piazza del Popolo sia contornata da un connettivo edilizio che invece nel disegno di Goethe non appare. I due punti di vista sono diversi, ma in entrambi i casi si riconosce l’obelisco centrale (la visione di Goethe era a quota alta, tanto è vero che vedete la cupola di S. Pietro), la Porta è sempre quella del Bernini e del Vignola, eppure nello schizzo di Goethe interviene una sorta di rarefazione per la quale la campagna predomina sul costruito.

Questa visione di Goethe la possiamo attribuire a ciò che egli impersona nella storia della cultura moderna, cioè là dove il Classicismo, il Neoclassicismo tende ad aprirsi al Romanticismo e quindi la naturalità della visione di Goethe comporta una sorta di valorizzazione archeologica delle architetture che sono prescelte ad inserirsi dentro a questa naturalità. È quello che con un termine corrente si potrebbe chiamare un “precoce ruinismo”, “ruinismo da rovina”, cioè il fatto di considerare l’architettura in un senso, in una dimensione archeologica. Pensate che le architetture che Goethe riproduce all’interno del suo schizzo non sono poi così lontane dal poter essere considerate reperti archeologici. Sono architetture che risalgono a 150 anni prima, eppure egli le tratta in questo modo, l’impressione è questa, la visione è panica, cioè complessiva, in cui l’architettura viene ridotta a sua volta dalla pittura.

Questa è l’architettura disegnata da Andrea Palladio, realizzata a Vicenza dal suo allievo Vincenzo Scamozzi, nel 1602 (Fig. 2s).

È la porzione di un palazzo, che lì viene soprannominato “Ca’ del Diavolo”, che Goethe ancora schizza e lo vedete in quest’altra immagine (Fig. 2d).

Pensate che anche in questo caso Goethe considera l’architettura di Palladio come un che di straordinario, come la sintesi di un processo che è quello del Rinascimento. Ma deduciamo dallo schizzo di Goethe come egli si soffermi su un aspetto che gli interessa particolarmente, vale a dire la combinazione tra gli ordini classici e la destinazione civile edilizia dell’edificio. Goethe in altre parole estrae dall’architettura di Palladio, in questo caso ma anche in altri casi, questo coefficiente domestico che viene inserito all’interno di una struttura aulica, all’interno di una struttura monumentale. Anche questo sottolinea la visione goethiana del passaggio da una concezione classicista ad una condizione romantica. Interviene un’altra dimensione che è la dimensione soggettiva, la dimensione personale, la dimensione di un ambito più ristretto e soggettivo rispetto all’ambito, alla presunzione di oggettività che portava con sé il Classicismo.

Sempre parlando del disegno d’impressione, mostro un quadro abbastanza famoso. Questo quadro ha avuto diverse attribuzioni. È stato attribuito in un primo tempo a Giorgione e in un secondo tempo a Tiziano. Il soggetto è quello di un concerto campestre (Fig. 3s).

Qui ci interessa considerare il perché di queste diverse attribuzioni.

Questo quadro viene datato in genere verso il 1510 che se non erro è la data di morte di Giorgione. Tiziano è più giovane di Giorgione, entrambi appartengono alla Scuola veneta che ha nel colorismo il suo carattere fondamentale, ma la controversia nasce sul fatto della predominanza delle campiture di colore sul disegno.

Infatti Roberto Longhi, che è un critico di cui ho parlato anche la volta scorsa, che costituisce l’antipolo rispetto a Lionello Venturi, che è un altro critico al quale adesso accenneremo, sostiene che il disegno che struttura il quadro è sufficientemente forte per potersi attribuire alla fase giovanile di Tiziano.

Per Venturi invece, la predominanza delle campiture di colore che sovrastano la struttura del disegno, è invece da attribuirsi a Giorgione.

Questo quadro ci interessa per un altro aspetto.

Un critico italiano, Giovanni Battista Cavalcaselle, sulla metà dell’800, zaino in spalla percorre in lungo ed in largo l’Europa e su un taccuino, il così detto, “taccuino parigino”, analizza i diversi quadri, le diverse opere d’arte, italiane e straniere, ma soprattutto italiane che si trovano all’estero ridisegnandole, reinterpretandole.

Il disegno che vedete è appunto un ridisegno del Cavalcaselle di questo concerto campestre giorgionesco o tizianesco (Fig. 3d).

Vedete è importante perché, ripeto, siamo alla metà dell’800 e solo nel 1906 un grande artista, un grande pittore, Paul Cézanne, dipinge questo quadro, Les grandes baigneuses (Fig. 4s) che in qualche modo ci può ricordare il concerto campestre di cui abbiamo parlato.

Se fate caso, gli appunti del Cavalcaselle sul concerto campestre non sono così distanti dall’approssimazione rispetto alla realtà, alla verità con cui Cézanne dipinge. Invece, Cézanne, sapete bene, è considerato un grande fondatore dell’arte moderna, delle arti figurative.

Che cosa corre tra queste due opere, tra queste due riproduzioni di impressioni ricevute, a mezzo secolo l’una dall’altra?

È la diversa consapevolezza di questa interpretazione e deformazione del quadro. In Cézanne, oramai c’è la piena consapevolezza di una rivoluzione che l’arte moderna deve compiere che riguarda in genere la pittura del passato, ma addirittura anche la pittura impressionista nella quale Cézanne si è formato.

Un altro critico d’arte italiano, Enrico Thovez, un critico che è stato un po’ l’interprete dell’Art Nouveau in Italia, sosteneva che Cézanne era un pittore mancato. Diceva che è egli stesso ad ammettere di saper dipingere meglio di quanto riesca.

Infatti Cézanne, in alcuni appunti con i quali ha corredato tutta la sua carriera di pittore, sosteneva di non riuscire a dipingere più realmente di quanto gli accadeva di fare. Il suo sforzo era, infatti, proprio quello di rappresentare la realtà.

In questo mezzo secolo che va da metà ’800 ai primissimi anni del ’900 (questo è uno degli ultimi quadri dipinti da Cézanne), corre la consapevolezza dell’arte moderna, della modernità, corre la consapevolezza della deformazione, corre la consapevolezza per cui la realtà non è necessariamente la riproduzione del visibile, ma è invece ciò che incide sulla nostra capacità di percepire. Questo senso della realtà che è alla base di tutta l’arte moderna è rappresentato nelle opere ma anche nell’autobiografia, vale a dire nelle notazioni con cui Cézanne accompagna la sua pittura.

Questo quadro è un quadro abbastanza noto che voi senz’altro conoscete. È Les demoiselles d’Avignon di Picasso (Fig. 4d). Pensate, è un quadro che viene dipinto da Picasso un anno dopo il quadro di Cézanne. Cézanne muore nel 1906, e questo quadro di Picasso è dipinto nel 1907. Vedete con quale accelerazione trovi evoluzione il principio scatenante che parte dalla pittura di Cézanne.

Qui vediamo un altro quadro di Cézanne, dipinto intorno al 1890, è Madame Cézanne aux chaveux dessones (dipinta con i capelli sciolti) (Fig. 5s).

Roberto Longhi, quel critico di cui vi parlavo, segue la strada del Cavalcaselle e anch’egli ha un taccuino sul quale memorizza i quadri che lo interessano maggiormente. Quindi disegna. Quindi disegno d’impressione e attraverso questo disegno trasfigura.

Nella trascrizione che Longhi fa dell’opera di Cézanne, potremmo ricavare anche il giudizio critico che egli dà della pittura di Cézanne. Sotto questo schizzo, sotto questo ridisegno (Fig. 5d), ci sono degli appunti di Longhi che ricordano una frase di Cézanne là dove dice: «Trattare la natura attraverso il cono, il cilindro, la sfera. Mettere tutto in prospettiva in modo che ogni lato, ogni piano converga in un punto centrale». Questa notazione di Cézanne è fatta propria e incorporata nelle considerazioni che Longhi fa e diventa il motivo critico sul quale Longhi imposta la rilettura di Cézanne.

Vi dicevo che Madame Cézanne è del 1890, mentre questo quadro di Picasso che vediamo è Femme aux Poires (La donna con pere) del 1908 (Fig. 6d). Vedete quell’accelerazione di cui parlavo con quale intensità si compia in un decennio decisivo, che è quello immediatamente precedente e immediatamente seguente la prima guerra mondiale. Sono anni fondamentali per la storia dell’arte in generale e che di fatto identificano la nascita dell’arte moderna.

Un’ultima opera di Cézanne. È un paesaggio. Il titolo è La Carrière de Bibémus (La strada di Bibémus) (Fig. 7s), anche questo degli anni ’90 dell’Ottocento.

Quando vi citavo poco fa la frase annotata da Longhi sul suo taccuino, frase di Cézanne, appunto, «trattare la natura secondo il cilindro, il cono, la sfera, in modo che ogni lato e ogni piano converga in un punto centrale».

Il quadro che vediamo ora di Picasso (lo avrete senz’altro riconosciuto) è del 1914, ed è intitolato La bouteille de marasquin (La bottiglia di maraschino) (Fig. 7d). Vedete con quale accelerazione e con quale capacità di intuizione scatenante Cézanne colga i principi dell’arte moderna.

Ecco, finalmente parliamo di architettura. Disegno di impressione. Avrete riconosciuto l’immagine dell’Acropoli di Atene (Fig. 8s). Vedete nella parte centrale (il Partenone rimane sulla destra) i Propilei e, appena a fianco, il tempietto di Atena Nike.

Questo che vedete è uno schizzo di Le Corbusier (Fig. 8d). Corbusier intorno ai 25 anni, nel 1911, compie un viaggio e questo viaggio dà luogo ad un libro, Voyage dOrient. Corbusier è impressionato dall’architettura che egli in questo viaggio d’Oriente vede nei diversi paesi del Mediterraneo. Direi che il Mediterraneo è proprio l’ambito nel quale nasce e si sviluppa la poetica di Corbusier. Lo vedremo per confronto. Però fin d’ora possiamo cogliere con quale sguardo, con quali occhi Corbusier guarda all’architettura del Mediterraneo, la grande architettura dell’antichità mediterranea.

A mio parere il riguardo di Corbusier valorizza la presenza di sintesi con la quale l’architettura del passato si impone sul paesaggio. Questa della sintesi è la costante di tutto lo sviluppo poetico di Corbusier, che passa come per tutti gli artisti diverse fasi, ma che rimane il nocciolo centrale dal quale si sviluppa la sua poetica. Quindi la sua visione è una visione che valorizza il rapporto tra contesto, tra intorno circostante e monumento.

Visione dei Propilei (Fig. 9s) e un altro schizzo di Corbusier (Fig. 9d).

Direi che andrebbe notata già in questo schizzo, la decisione con la quale Corbusier tratta per esempio le colonne, il modo deciso, perentorio con il quale accenna perfino alle scalinature, l’ombra che mette in risalto i singoli elementi della composizione. Eppure il sintagma compositivo: colonna, trave, trabeazione e i diversi elementi che compongono l’architettura, come il capitello, base, eccetera, questi elementi entrano in una concertazione, che è appunto una concertazione sintetica di Corbusier, come valore di sintesi. Questo è l’aspetto importante che, al giovane Corbusier che è nato nel 1887 e quindi, nel 1911 aveva intorno ai 25 anni, conferisce un punto di vista che attraverso questi disegni d’impressione potremo avvalorare e constatare nello sviluppo della sua carriera futura.

Ecco, vedete questo famoso quadro di Picasso che deve essere del 1922, Deux femmes courant sur la plage (La course), (Fig. 10s).

Vedete anche uno schizzo di Corbusier che è di 10 anni dopo, del 1933, Deux femmes nues assises sur des rochers en bord de mer (Fig. 10d).

Questo che vi mostro è la parentesi del discorso che sto facendo, per dire che esiste questa progressiva evoluzione nella carriera di un artista.

Picasso dall’epoca del Cubismo passa al periodo che è detto neoclassico, al pari di altri grandi artisti. Sapete che anche Stravinskij ha un periodo detto neoclassico. Molta della pittura italiana del ’900, ad esempio Carrà, nell’immediato dopoguerra, seguono questa sorta di parola d’ordine che è appunto il ritorno all’ordine. Quindi dall’esplosione del Cubismo, del Futurismo, eccetera, si torna a una maggiore concentrazione e quindi ad una deformazione di ordine diverso che comporta per esempio la reintegrazione del corpo rappresentato, sia esso il corpo umano, sia una natura morta, sia un paesaggio.

Vedete anche Corbusier che ha una sorta di sviluppo poetico abbastanza parallelo a quello di Picasso, tanto è vero, e ne parleremo tra un po’, che un critico italiano, Edoardo Persico instaurerà una sorta di equazione, dicendo che Corbusier sta alla pittura cubista, come Gropius sta alla pittura, alla poetica neoplastica. Così, è la conclusione che propone Persico, la nuova architettura italiana dovrebbe guardare all’architettura metafisica. Questa è una parentesi che io faccio per vedere come pur nella continuità e nella fedeltà al proprio di intendere, di sentire e di raffigurare ci siano diversi periodi nello sviluppo di un artista.

Ci troviamo di fronte al Tempio di Apollo a Corinto (Fig. 11s) che è precedente al Partenone che è del V secolo e contemporaneamente vediamo un disegno d’impressione di un altro grande architetto, Louis Kahn (Fig. 11d).

A differenza di Corbusier che compie il suo viaggio in Oriente nel 1911, Kahn lo compie quarant'anni dopo, nel 1951, alla bella età di cinquant'anni. Voi sapete che Kahn è un architetto che è maturato, è pervenuto alla notorietà tardi.

Ci interessa a questo punto definire le differenze che esistono fra questi due architetti. Sono entrambi per così dire architetti, artisti sradicati. Voi sapete che Corbusier è nato in Svizzera, che abbandona per andare in Francia. Sapete che diventa cittadino del mondo nel senso che continua a viaggiare dal Latino America, al nord Africa, all’India dove avrà importanti incarichi. Louis Kahn è estone di nascita, ma anche egli nei primi anni di infanzia si trasferisce negli Stati Uniti con la famiglia. Lì avviene proprio l’incubazione della sua poetica che esplode appunto in Italia.

Infatti in questi primi anni ’50, nel 1951, Kahn si trova con una sorta di borsa di studio all’Accademia Americana di Roma e da lì compie una serie di escursioni nel bacino del Mediterraneo, ad inseguire i monumenti dell’antichità.

Quale la differenza tra il ritrarre di Corbusier ed il ritrarre di Kahn?

Direi che nel caso di Kahn ci troviamo completamente al di fuori di quello che è il clima mediterraneo di Corbusier. Quel bluastro, quel verdastro, quell’arancione, eccetera, che diventa stopposo, quasi fossero dei tessuti, quasi che perdesse la pietra con cui sono costruiti questi elementi architettonici, perdesse la sua perentorietà, la sua solidità, la sua integrità. È come una scossa elettrica che nel ritrarre a pastello di Kahn tende a considerare i singoli elementi architettonici per quelli che sono, quasi che nella sensibilità di Kahn si partisse sempre da una figurazione geometrica, astratta, cioè distolta dal contesto, dal paesaggio in cui si trova e in questa figurazione astratta, mentale, ci fosse un processo che tende a stabilire il modo di disaggregare in parti elementari la figura solido-geometrica. Questo modo di intendere che Kahn introduce in queste raffigurazioni viene da una cultura per così dire tecnica, che Kahn ha avuto e che dà una capacità costruttiva di carattere quasi industriale, quasi che la precisione, la perfezione con la quale Kahn costruisce ad incastro, quasi non ci fosse bisogno di legante, quasi che un elemento sovrapposto all’altro, con una sorta di coesione magnetica, stiano insieme quasi non ci fosse bisogno della malta, o degli additivi di consolidamento. Ecco, questo modo ad incastro che ha Kahn è proprio quello che parte dall’interno della forma e quindi la sua visione archeologica è una visione che sta sempre dentro all’opera, quasi che questa visione archeologica, questa visione distaccata, questa visione diacronica, cioè non contemporanea, la si potesse trovare addirittura percorrendo le sue opere, guardando le sue opere dallo spazio interno per esempio ad un altro spazio interno, o dalle figure esterne allo spazio interno. In questo senso direi che il procedimento compositivo di Kahn è per così dire opposto a quello di Corbusier, anche se entrambi questi due grandi architetti hanno guardato al mondo dell’antichità classica, come ad una fonte di ispirazione irrinunciabile.

Questo è un tempio di Ramesse a Tebe, (Fig. 12s) che come vedete Kahn ridisegna con quello schizzo (Fig. 12d). Nell’altro schizzo ci sono le famose piramidi di Micerino e di Chefren del XXVI secolo a.C. (Fig 13s).

Concludiamo qui provvisoriamente la questione del disegno di impressione, riguardo la quale abbiamo tentato di capire attraverso gli occhi dell’artista, del pittore, dell’architetto, i principi che ne hanno guidato l’interpretazione.

Qui ci troviamo di fronte ad un altro tipo di disegno, come potete constatare, è il disegno a riga e squadra, il disegno che, cominciato con la squadretta, la riga parallela e passato successivamente al tecnigrafo, è arrivato oggi sul vostro tavolo con il computer.

A cosa serve il disegno a riga e squadra?

È innanzitutto quel prodotto che viene destinato a chi deve realizzare l’opera architettonica. Però è anche quel disegno che serve didascalicamente, non solo agli studiosi di architettura, ai cultori, come si dice, ma anche per esempio ai clienti, ed in generale a chi debba godere di una previsione, di qualcosa da vedere prima che l’opera venga realizzata.

Il disegno che vedete è un disegno fatto da Viollet-le Duc, (Fig. 14s) uno studioso famoso dell’architettura, autore di diversi libri, tra i quali anche il famoso Entretiens sur l’architecture, che rappresenta in sintesi il sintagma dello stile dorico. L’operare di Viollet-le-Duc è proprio quello immerso nella cultura del Positivismo. L’opera d’arte, l’opera di architettura, il manufatto di architettura vengono considerati come la combinazione paritetica di diversi elementi, quasi come se la composizione architettonica dovesse corrispondere ad un processo per anastilosi. Voi sapete che l’anastilosi è quel metodo per cui si ricompongono i reperti di un monumento rovinato, ruinato, attraverso dei pezzi originali. La concezione di Viollet-le-Duc, indipendentemente dall’aver a che fare con dei reperti storici dell’antichità, è proprio questa meccanica della costruzione. Però, badate, è una meccanica che avviene con dei pezzi che hanno un peso, quindi una ponderatezza tipicamente architettonica. Non c’è meccanicismo in quello che successivamente avremo modo di affrontare della concezione di le Duc, ma una meccanica, qualcosa che si serve della giustapposizione, anche perché le Duc opera in un periodo di tempo in cui cominciano ad affermarsi i processi di riproduzione industriale. Quindi concepisce in genere il destino dell’architettura, come un destino in cui la riproducibilità tende a diventare un elemento mistificante; l’opera architettonica non sarà più un unicum, ma tenderà a doversi riferire ad alcuni modelli ed i modelli sono quelli del Classicismo.

Vi dicevo, questi ragionamenti sull’architettura sono all’incirca della metà del secolo scorso e una decina d’anni dopo, Camillo Boito, un architetto italiano, disegna questa tavola destinata ad un’opera che egli riuscirà a realizzare ed è l’Ospedale municipale di Gallarate (Fig. 14d). 

Vedete però, come nonostante siano passati soltanto una decina d’anni, il positivismo boitiano si ammanti di romanticismo.

Vale a dire, da questo disegno boitiano potete cogliere come ci sia qualcosa che va al di là dei singoli elementi architettonici e che nonostante si tratti di disegni costruttivi (si tratta di un fronte e di una sezione), punta anche sull’atmosfera.

Camillo Boito, come voi certo saprete, è un architetto detto “neoromanico”, che guarda allo stile “neoromanico” come a quello stile in cui deve reperirsi una sorta di koinè lombarda: ci troviamo negli anni che precedono l’Unità d’Italia, ma indipendentemente dal Risorgimento che è un fenomeno di unificazione nazionale, nel caso di Boito c’è questa volontà di radicare l’architettura moderna, l’architettura per lui moderna, l’architettura del suo tempo, a determinati contesti e uno di questi contesti è quello del milanese lombardo. Boito ha una formazione in parte lombarda, in parte veneta e le stesse cose valgono da un altro punto di vista a Padova, eccetera.

Ma corre un senso di umbratilità in questo disegno boitiano, che supera la restituzione analitica della costruzione per adagiarsi anche all’interno di un’atmosfera. Questa atmosfera è la concezione poetica che ha l’architetto e quindi anche i suoi possibili riferimenti alla storia stessa dell’architettura.

Torniamo a Corbusier. Questa prospettiva che vedete riguarda un quartiere progettato da Corbusier intorno al 1915, il quartiere Domino (Fig. 15s). Si tratta di un quartiere risultante da un processo tecnico che punta a risolvere i problemi di produzione e di riproduzione come avviene ormai nei sistemi industriali.

Queste abitazioni che vedete sono strutturate, possiedono un’ossatura che è quella che vedete in quest’altra immagine (Fig. 15d): è un sistema in cui semplicemente pilastri, travi e gruppi scale lasciano completamente liberi i piani, per cui la disposizione distributiva interna all’alloggio è quanto mai libera.

Ecco, a questo proposito però, vale la pena di fare una piccola digressione. Quanto conta nella poetica di Corbusier il macchinismo?

Corbusier è l’architetto che guarda al futuro e che concepisce la metropoli attraverso un processo di rarefazione e di consolidamento di edifici alti, i cosiddetti grattacieli cartesiani di Corbusier. Era accusato, quando era ancora vivente, ma oramai anche ai nostri tempi, di essere un architetto che è fortemente responsabile dell’aspetto delle città di oggi.

[Testo non decifrabile per cambio cassetta]

A mio parere, Corbusier parte invece da quell’aspetto di sintesi che ne fa un artista alla pari di Picasso, per esempio, o di altri artisti del suo tempo. È veramente un artista, è prima di tutto un artista, che poi di volta in volta trova nelle occasioni mondane, vale a dire in quello che la società del tempo gli offre, il modo di pervenire sempre a questo risultato di sintesi plastica che è quello che gli detta dentro l’animo, l’invenzione, l’ispirazione. Anche in questo caso, dove ci troviamo di fronte ad un’espressione quasi trilitica per così dire, della costruzione, che verrà poi ripresa in tantissime altre versioni (qui siamo nel 1915, con i cosiddetti prefabbricati che riempiranno il mondo, ci saranno pletore di architetti, di istituti di progettazione che si occuperanno di questo problema: produrre la casa come si producono i beni di consumo dell’industria, per esempio le automobili) dicevo, anche in questo caso potete forse scorgere, magari con qualche sforzo, l’intento plastico che c’è dentro questo schema corbuseriano: sarà dato dalle ombreggiature, sarà dato dalle proporzioni che hanno i montanti rispetto alla soletta, al piano, sarà quella scala che si libera. C’è sempre alla base dell’opera di Corbusier questo straordinario senso di sintesi, questa capacità plastica entro la quale ridurre anche i problemi dell’architettura (perché Corbusier non è uno scultore, ha fatto anche lo scultore come ha fatto il pittore, ma è soprattutto un architetto); c’è questa capacità in cui le leggi che governano l’architettura e che quindi si oppongono a che essa venga trattata come una scultura, ma egli riesce sempre a trovare attraverso queste difficoltà, dell’architetto rispetto all’artista puro, scultore o pittore, eccetera, questo modo di rigenerarle plasticamente.

Allora vedete come la prospettiva di questo quartiere Domino sia tutto sommato un inganno, cioè quel senso un po’ naif, acquerellato che vedete, sia un po’ quella captatio benevolentiae che Corbusier pratica nei confronti dei suoi clienti e sapete che i clienti di Corbusier costituiscono un altro aspetto abbastanza strutturato al suo modo di agire e anche di progettare.

Quest’immagine è invece un lavoro che Corbusier fa con un industriale zuccheriero, Henry Frugès, che si innamora di Corbusier. Sapete che questo aspetto riguarda non solo Corbusier ma molti artisti, nel passato basti ricordare Richard Wagner e i rapporti che ha avuto con Ludovico II di Baviera.

Sapete che il cliente, il committente per l’architetto, ma in genere per l’artista costituisce l’elemento decisivo, ma ciò ancor più per personalità titaniche come appunto era la personalità di Corbusier.

Questi che vedete sono degli studi di policromia (Fig. 16s) e questo è il disegno di una di queste case, la casa 14 se non sbaglio (Fig. 16d).

Questo è l’interno dello studio di Henry Frugès (Fig. 17d), appunto il committente. Si vede come anche in questa fase che oserei chiamare cubista, nell’architettura di Corbusier, permanga questo senso della plasticità, soprattutto in questo disegno che è un disegno a riga e squadra, con campiture di colore che potrebbero essere l’opera di un pittore astratto. Vedete come le stesse tonalità, il modo con cui è composto sottendano proprio questo senso plastico che ha l’architettura di Corbusier, che non è mai da confondere con una concezione astratta della figurazione.

Naturalmente Henry Frugès, dopo questa esperienza con Corbusier, fallisce perché questo quartiere a Pessac non viene costruito e finirà i suoi anni dipingendo, plagiato dal maestro.

Avrete senz’altro riconosciuto l’immagine che stiamo vedendo, si tratta di un quadro di Giorgio De Chirico, intitolato Melanconia ed è del 1912 (Fig. 18s). 

Vi ricordate che poco fa avevo accennato a Persico, questo critico importantissimo della storia dell’architettura moderna italiana, che stabilisce quei raffronti e quelle equazioni: Cubismo-Corbusier, Neoplasticismo-Gropius, Metafisica per l’architettura italiana (l’architettura moderna italiana deve guardare alla Metafisica).

Metafisica è anche la pittura di De Chirico, di cui proprio lui è l’esponente principale, almeno il più conosciuto della cultura del suo tempo e ancora oggi.

Lo schizzo che vedete è uno schizzo di mano di Persico, uno schizzo del 1935: Persico si prepara per un concorso che viene bandito dalla Triennale di Milano per l’allestimento del Salone d’Onore (Fig. 18d). È uno schizzo sintetico, ma ha già incorporata quella che sarà poi l’esecuzione della sua opera.

Queste sono le tavole esecutive che Persico presenta al concorso, la scultura è di Lucio Fontana, collaborano con lui Giancarlo Palanti, che era il socio di Albini e Nizzoli come grafico e questa è la linea che Persico traccia e sulla quale invita a convergere i giovani architetti razionalisti italiani (Fig. 19). Lo seguiranno, ma ne parleremo un’altra volta, alcuni tra i più promettenti e sensibili architetti italiani dell’epoca, ai quali accenneremo quando parleremo del Razionalismo italiano.

Equazione Corbusier-Cubismo, Neoplasticismo-Gropius. Adesso farò una parentesi: vedete questo progetto che Theo van Doesburg e Cornelis van Eesteren, nell’ambito del movimento neoplastico di cui fa parte un pittore come Mondrian, eccetera, realizzano nel 1923 (Fig. 20s); poi vedete questo progetto di Gropius per la Siedlung a Dessau (Fig. 20d), che risente e qui viene mostrata per quella forma di equazione a cui accennava Persico.

Ancora il rapporto tra arte figurativa e architettura. Vedete un quadro di Fernand Léger, un quadro del 1918, intitolato Inventions-études (Fig. 21s) e poi vedete un disegno, un quadro di Corbusier, che era anche scultore e pittore, intitolato Due bottiglie, del 1926 (Fig. 21d). Questa sensibilizzazione da parte di Le Corbusier rispetto ai movimenti figurativi dell’epoca è una costante. Abbiamo visto il rapporto con il periodo detto neoclassico di Picasso, ora lo rivediamo nel risvolto purista che ha la pittura di Léger da una parte ed il sentire di Corbusier dall’altra.

Stavamo parlando di disegno a riga e squadra.

Questo disegno che vedete è di un allora giovane architetto americano John Hejduk, un architetto che è nato nel 1928, quest’opera mi sembra che sia intorno agli anni ’70 (Fig. 22).

Hejduk è uno di quelli che all’inizio della propria carriera venivano identificati come Five Architects, del quale gruppo facevano parte anche Peter Eisenman, Michael Graves e altri. Questi Five Architects si sono particolarmente sintonizzati su una lunghezza d’onda abbastanza europea, contravvenendo un po’ alle regole del mercato professionale degli Stati Uniti, che sono quelle del grande studio che magari poi per sub-commesse opera e instaura una rete di rapporti produttivi che tuttavia si concludono in una forma di centralizzazione. Gli studi nordamericani sono molto grandi e molto potenti.

I Five Architects invece operano in senso opposto. Sono per così dire sponsorizzati da una forma che è più quella del gallerista rispetto ai giovani pittori, che non quella del campo professionale. La loro affermazione in molti casi sarà una affermazione destinata a durare nel tempo seppure individualmente, perché questa associazione temporanea dura un certo numero di anni e poi ognuno di loro prende la propria strada. Dicevo, questo loro modo sortisce un effetto dirompente nel mondo culturale e professionale nord americano. Per esempio la loro committenza tende a non essere quella delle grandi corporations americane, cioè palazzi per uffici, eccetera, ma tende più ad essere quella della casa d’abitazione, della villa e poi, man mano che la loro affermazione si consolida, quella per esempio del museo.

Meyer è uno dei Five Architects e sapete che è autore di numerosi musei. Questi architetti guardano all’architettura europea e direi che la loro sensibilità è una sensibilità prima di tutto figurativa e quindi poco ideologica, ma soprattutto figurativa. In questo rapporto per esempio tra tracce rettilinee e libertà della curva, che non è una forma geometrica, ma è una conica deformata, c’è questo recupero del cubismo che è alla base della ricerca figurativa di Léger ed in quel periodo anche di Le Corbusier.

Queste due immagini sono l’una un progetto di villa al lago di Terragni del 1936 (Fig. 23s) e l’altra è un progetto di Graves, anche questo fatto intorno agli anni ‘70-’75, è la prima maniera di Graves, destinato alla casa Hanselmann a Fort Wayne, nell’Indiana, ‘67-’70 (Fig. 23d).

Ecco, riguardo all’architettura europea, nel caso di Graves, ma non solo di lui, anche nel caso di Peter Eisenmann e di Meyer, c’è questo particolare riguardo a Terragni. Capiterà, ma ne parleremo più in profondità, per quel lavoro di scavo che Terragni compie sul volume.

Più che una costruzione neoplastica come abbiamo visto nel caso del progetto di Theo van Doesburg e van Eesteren, cioè ottenuta per giustapposizioni ad incastro di piani, nel caso di Terragni sembra che il procedimento sia quello di scavo dal parallelepipedo e quindi le forti ombreggiature risultano in coerenza a questo lavoro di approfondimento. Parallelepipedo, se volete scatola nella quale vengono strappate, intagliate delle parti, nel caso per esempio del progetto di Graves nella parte d’angolo, vedete con quel taglio arbitrario che entra, e che costituiscono una vena poetica che ha contraddistinto l’architettura mediterranea.

L’esegeta di questo mediterraneismo dell’architettura è stato Alberto Sartoris che è tuttora vivente a più di cento anni (ha scritto una famosa opera in tre volumi, in cui suddivideva l’architettura moderna in architettura nordica, mediterranea, eccetera).

In questo clima in particolare Terragni riesce ad alimentare un linguaggio che direi è affatto personale. C’è questa solarità in Terragni che gli viene da una serie di intrecci e di riguardi nei confronti per esempio dell’architettura di Sant’Elia, della pittura espressionista di Sironi eccetera, che ne fanno un tema che cercheremo di affrontare anche questo in profondità la volta prossima.

Siamo alla conclusione del disegno a riga e squadra ed è l’ultima versione di Michael Graves (Figg. 24s, 24d), l’autore del progetto purista che avete visto poco fa e che confrontavamo con l’opera di Terragni.

C’è questo sviluppo della personalità di Graves, di quello che sia pure con certa organicità e con certa approssimazione potremmo definire oggi Postmoderno.

Io direi che il lavoro di Graves è soprattutto un lavoro “neodecò”, cioè una presenza di certa architettura americana, il Chrysler building per esempio ed altre, viene ripreso quel senso di modernità decorata, che ha contraddistinto l’aspetto più divulgativo dell’arte moderna degli anni ’20 e ’30.

Ecco, non ci interessa tanto il cammino di Graves, quanto vedere come l’architettura a riga e squadra portata ad un certo livello di levitazione, tenda a diventare architettura d’atmosfera, cioè accattivante quel tanto che riesca in qualche modo a suggestionare il proprio possibile divenire.

Infatti, a proposito di disegno d’atmosfera vediamo un’immagine, un’incisione che voi sicuramente sapete attribuire: si tratta di quella serie di Vedute di Paestum che Giovanni Battista Piranesi produce poco prima di morire, sulla metà del ’700 (Fig. 25s).

Pensate che Piranesi segna il passaggio dall’architettura barocca al corrugarsi dell’architettura classica quindi, al Neoclassico.

Queste vedute sono un po’ la contro faccia, potremmo dire di un’opera invece scritta da Johann Winckelmann, che è considerato il fondatore dell’arte neoclassica, per degli scritti che egli pubblica una decina d’anni prima di queste incisioni di Piranesi e che quindi vengono diffusi in Europa, dove Winckelmann alimenta il culto dell’arte classica, rinnegando il periodo di involuzione del Classicismo di epoca Barocca e Rococò.

Ecco, visione di atmosfera, ruinismo come abbiamo detto all’inizio, e confronto di questo momento di passaggio riprodotto in questa raffigurazione, con una serie di disegni che un architetto tedesco, Bruno Taut, redige nel 1918 (Fig. 25d), appena finita la prima guerra mondiale, in un famoso testo, intitolato Alpine Architektur.

Questa visione, questa atmosfera che Taut costruisce attraverso questi disegni, è l’esito di una sorta di senso di disfacimento provocato dalla guerra e quindi l’ipotesi di un necessario confinamento nell’utopia di qualsiasi processo di rigenerazione civile.

Quello che vedete sopra è un Duomo di vetro a Portofino e quella sotto è una Cupola in reticolato di calcestruzzo sul nostro monte Resegone.

Alpine Architektur di Taut: c’è una componente dell’Espressionismo di cui Taut è uno dei principali protagonisti e rappresentanti, che è anche questa dell’utopia, ma dell’Espressionismo ci occuperemo in ogni caso in un’altra occasione più specificatamente.

Quello che vedete ora è un famoso disegno di Sant’Elia, che fa parte di una serie di disegni della Città Nuova (Fig. 26a). È una stazione intermodale si direbbe d’oggi, che ha, lo vedete, una pista per aerei, una stazione ferroviaria, e su tre livelli la possibilità di interscambiare diversi sistemi di trasporto.

Il disegno di Sant’Elia è un disegno che è in arretrato, rispetto alla sua visione futurista. Si rifà, non direttamente, a Otto Wagner, alla Secessione Viennese, cioè agli allievi austriaci di Wagner; l’aspetto illustrativo, quasi da fumetto dei disegni di Sant’Elia, combina questa precisione del disegno con il contenuto visionario, che coinvolge certe tipologie, estremizzandole in un contesto futuro.

La figura di Sant’Elia che l’architettura ha identificato come alfiere dell’architettura moderna italiana e che costituisce quasi sempre l’immagine d’introduzione in tutti i testi d’epoca che si sono occupati dell’architettura razionalista, per la verità è un caso che andrebbe riguardato. Andrebbe riguardato per certi aspetti di natura tradizionale che i disegni di Sant’Elia conservano, soprattutto per quanto riguarda le partiture architettoniche.

Diverso è il caso che vediamo ora. Si tratta della Walking city, di due architetti che fanno parte del gruppo Archigram (Fig. 26b).

Questo disegno-progetto è del 1963 e gli autori sono Ron Herron e Brian Harvey. Questa previsione della città futura è localizzata a New York: vedete sullo sfondo i grattacieli di Manhattan. Questo regime capsulare che la loro architettura propone, tende a contraddire la struttura di tipo tradizionale dell’architettura, cioè il sintagma classico: sostegno, pilastro, trave. Complici le materie plastiche, questa visione diventa dirompente.

Quell’architettura che oggi va sotto il nome di High-tech, per esempio, in Inghilterra, pensate a Foster, ma anche in Italia ha qualche rappresentante, ha ricevuto un certo impulso da questa visione del gruppo Archigram, che ha costituito una svolta di tipo decisivo anche nell’architettura anglosassone di quel periodo.

Forse il gruppo Archigram è stato in parte ispirato da un altro gruppo di allora giovani architetti, Metabolism. Uno di questi architetti Kiyonori Kikutake, giapponese, nel 1960 disegna questa Marine City (Figg. 27a, 27b).

Anche in questo caso, il ricorso alle forme organiche, la rinuncia a qualsiasi sopravvivenza che ancora sappia di una concezione tradizionale del costruire, risulta evidente. Forse sono proprio questi Metabolism che ispirano i medesimi Archigram.

Direi che l’ispirazione di questo gruppo giapponese è da farsi risalire un po’ alle condizioni particolari in cui si è trovato il Giappone dopo la seconda guerra mondiale: il crollo di tutta una serie di ideali e di presupposti che in questi architetti aveva determinato anche una rottura con l’architettura tradizionale, perfino con l’architettura degli architetti razionalisti giapponesi, architetti come tra tutti il più conosciuto, Tange. E pensate, sarà questo andirivieni di ispirazioni, sarà Tange a reispirarsi al gruppo Metabolism, quando per esempio presenterà quel famoso e grandioso progetto per la baia di Tokyo.

Abbiamo concluso il disegno futuribile e ci avviamo con le immagini alla conclusione.

Qui vi mostro due immagini della Villa Adriana: il Canopo (Fig. 28s) che finisce in questa esedra, lo specchio d’acqua eccetera.

La Villa Adriana viene costruita dall’imperatore Adriano nel 120 d.C.. L’imperatore Adriano è reduce da un viaggio anche per lui, potremmo dire d’Oriente, il cui taccuino non è scritto, ma messo in pietra. Adriano torna a Roma e presso Tivoli si costruisce questa villa che è fatta di tutta una serie di luoghi-memorie. Ognuno di questi luoghi-memorie gli ricorda di volta in volta il Canopo, che è questo canale che si diparte dal Nilo verso Alessandria d’Egitto, la Grecia, perché il Canopo come vedete è contornato da una serie di statue di scuola classica greca. È il taccuino di pietra di Adriano. (Fig. 28d).

Perché vi parlo di questo? Perché risulta che Leonardo, il grande Leonardo, abbia visitato sullo scorcio del XV secolo, la Villa Adriana a Roma.

Leonardo, voi sapete che viene a Milano per lavorare con Ludovico il Moro e in una tavola che ora vediamo, schizza una composizione fatta da due fortilizi, di forma circolare, ma di raggio diverso, che presentano all’esterno una serie di feritoie e invece all’interno una serie di loggiati. Al centro c’è una macchina che serve per il sollevamento dei pesi, potrebbe essere anche un congegno militare, non si capisce (Figg. 29s).

Ecco, su questa tavola ci sono anche segnati la pianta di questo edificio a croce latina che pare sia il S. Spirito di Brunelleschi, così come è accennato l’oratorio di S. Maria degli Angeli sempre di Brunelleschi.

Forse voi stessi potete notare una contraddizione tra il disegno brunelleschiano nella sua purezza e nella sua rivoluzione classica, rispetto a questo sensibilizzarsi di Leonardo agli umori, all’umidità del milanese, per cui Leonardo che opera dopo Brunelleschi e perfino dopo Leon Battista Alberti, sembra in qualche modo rinchiudersi dentro una concezione che fa di necessità virtù, rispetto al paesaggio lombardo di quel periodo. Paesaggio lombardo che è caratterizzato dalla copiosità delle acque, cioè dalla disponibilità delle acque che garantiscono ricchezza al Ducato di Milano. È quasi come se Leonardo capisse che nel milanese in quegli anni, non c’è spazio per il linguaggio centro italico, il linguaggio del Rinascimento centro italico e quindi c’è come un rinchiudersi dentro un’architettura fortilizia, che però nello stesso tempo è anche architettura mondana, forse anche di delizie. Può darsi che questo sistema fortilizio sia anche parte integrante di un complesso, di una villa, magari corale. Da qui l’esemplificazione di Leonardo, per esempio nella trascrizione del Teatro di Curio (Fig. 29d): Leonardo legge Plinio, legge come funzionava il Teatro di Curio, con questi due elementi rotanti che possono di volta in volta combinarsi in una forma introversa anfiteatrale, oppure ruotando con un sistema complesso di catene, aprirsi in due emicicli. Ecco, sono esercitazioni che Leonardo compie in quel periodo e che non sono state apprezzate forse per il potenziale che hanno dal punto di vista tipologico.

L’ultimo disegno che vi mostro di Leonardo è questo cosiddetto Teatro da predicare (Fig. 30).

Si tratta di un edificio grandioso: vedete i diversi ordini di gallerie, con un sistema di disimpegno verticale dato da gradinate che circondano l’edificio stesso. Le gallerie prospettano su questa colonna tortile, che sarebbe poi un pulpito. Questa forma di teatro straordinaria che Leonardo progetta e che descrive nei suoi vari codici è ancora una possibile destinazione al paesaggio lombardo di quel periodo, quel paesaggio lombardo che non è concepibile nella piazzetta brunelleschiana che hanno in mente gli architetti di formazione centro italica e che quindi non si adatta al tessuto, al contesto della città italiana centro italica, ma che deve invece capeggiare su questa pianura umida, che è quella del milanese.

Questo che vedete io lo chiamerei il disegno senza cancellature, il disegno senza pentimenti.

È il modo di annotare l’idea che abbiamo visto particolarmente in Leonardo e ora vediamo in Corbusier ed è presente in tutti quanti i disegni di appunti che Corbusier consegna ai suoi contemporanei: è un modo di disegnare che ha già in embrione il risultato di quella che sarà l’architettura.

Però, per concludere (sono le ultime due immagini che vi mostro), voglio riferirmi ad un disegno a posteriori che Corbusier traccia un giorno del 1934, nella stazione di Pisa, guardando la cosiddetta Piazza dei Miracoli: c’è la torre di Pisa, il Duomo, eccetera. (Fig. 31s).

Guarda la Piazza dei Miracoli, appunta sul suo taccuino lo schizzo che vedete, battistero, duomo, la torre... e poi sopra ridisegna a memoria, il progetto che egli ha presentato al concorso per il Palazzo dei Soviet a Mosca nel 1931. Però aggiunge in basso a matita, unità nel dettaglio... Corbusier apre una parentesi e dice: “Unità e scala umana tutto nell’insieme”. È la sintesi di come gli appare questo complesso del pisano ed è anche la sintesi che egli confronta con il progetto del Palazzo dei Soviet.

Questo progetto del Palazzo dei Soviet (Fig. 31d) è un’opera straordinaria nella carriera del maestro franco-svizzero: egli riesce a sensibilizzarsi con questo progetto che se io fossi Boris Eltsin farei realizzare oggi, perché lo trovo uno dei più bei progetti che siano mai stati fatti dall’architettura moderna, è un progetto che riesce a sintetizzare l’esperienza dell’architettura costruttivista, che negli anni ’20 in Unione Sovietica si è prodotta con grande risultato, insieme al senso plastico, al senso della sintesi che è proprio della personalità di Corbusier.

Nonostante il progetto sia l’insieme di diverse parti che apparentemente ci appaiono come articolate, non so se riuscite ad intravedere la capacità di sintesi che ha questo sistema concepito a due corpi principali e con questo corrispondersi delle strutture diverse a tiranti, a mensole, ad archi portanti, sviluppati secondo un’attenzione che tiene conto degli sforzi, eccetera, in questo gioco di questo mago dell’architettura.

Direi che questo ritorno del disegno a recuperare un che di fatto, al confronto con un pezzo monumentale della città, forse meglio di chiunque altro, rappresenta questa fase del disegno che ho definito senza pentimenti e senza cancellature, come capacità di esprimere sinteticamente e sommariamente lo sviluppo e la tradizione in architettura.


* Il testo qui pubblicato riprende quasi alla lettera, con minime correzioni, la trascrizione, non rivista dall’autore, della lezione, con il medesimo titolo, tenuta da Guido Canella il 30 ottobre 1997 al corso di Teorie e tecniche della progettazione architettonica, Facoltà di Architettura Civile di Milano Bovisa.

L’impaginazione segue il criterio della proiezione con doppio proiettore, che Guido Canella spesso utilizzava per comparare criticamente le diverse immagini. Queste ultime sono ricavate dalle diapositive originali della lezione conservate presso l’Archivio Guido Canella, Milano.



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