Il disegno dell’architettura. Incontri di lavoro

Lucia Miodini




Per una storia dell’Archivio del Progetto. Un nuovo modello teorico ed epistemologico

Nel 1979 al piano terreno dell’Ala dei Contrafforti, nel complesso monumentale del Palazzo della Pilotta, dove aveva sede l’Istituto di Storia dell’Arte[1], trova la sua prima collocazione il patrimonio del costituendo Dipartimento Progetto, il primo in Italia, che contava allora poco meno di cinquecentomila disegni appartenenti a fondi di designers, architetti, grafici. Una struttura che tra metà anni Settanta e primi anni Ottanta cresce in maniera straordinariamente rapida fino a toccare ottanta mila disegni originali, con circa quaranta archivi già presenti nelle raccolte e una prospettiva almeno altrettanto ampia di acquisizioni negli anni successivi, fino all’attuale consistenza di circa un milione e mezzo di pezzi.

Il dipartimento Progetto, denominato Sezione dal 1987, non soltanto desta grande interesse a livello nazionale, ma in questo giro di anni appare essere la struttura trainante delle attività del CSAC (Quintavalle 1979), andando ad integrare le raccolte dell’arte, della fotografia e dei media.

Denominatore comune è la categoria fenomenologica della comunicazione, che spiega anche l’integrità del materiale raccolto, rispetto alla codificazione selettiva operata dal Museo, e che, di là della differente chiave ermeneutica, anticipa la ricettività inclusiva del postmoderno. Per l’attenzione ai processi di produzione delle immagini, agli strumenti e alle tecniche su cui tale processo si regge, per la prospettiva antropologica attenta ai processi culturali e alla diffusione e trasformazione dei prodotti della comunicazione, anticipa appieno l’interdisciplinarità dei Cultural and Visual Studies.

L’apertura al pubblico del Dipartimento Progetto avviene in coincidenza con la mostra di Bruno Munari, inaugurata nel Salone delle Scuderie in Pilotta il 28 giugno 1979 [2].

È lo stesso Quintavalle (1979) a spiegare perché il Comitato esecutivo del Centro Studi e Archivio della Comunicazione[3] ha ritenuto opportuno individuare questa rassegna monografica come la prima e più idonea ad analizzare l’intero procedimento progettuale, dalle prime idee agli schizzi, dalle versioni inziali all’opera finale. Una scelta in perfetta sintonia con lo spostamento di piano determinato dalla riproduzione standardizzata e meccanizzata dell’opera d’arte, un passaggio concettuale dal quale emergono con forza prorompente i presupposti teorici del dibattito sviluppatosi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, che porta alla formulazione dell’idea di un archivio della Comunicazione visiva (Calzolari, Campari, Quintavalle 1969).

Secondo questa chiave interpretativa sono fondamentali e paritetici tutti gli elementi preparatori che concorrono alla realizzazione del prodotto artistico. Il disegno esecutivo avrà, allora, lo stesso valore documentale dell’opera e lo schizzo preparatorio sarà una testimonianza delle scelte e motivazioni che sottendono la versione definitiva. Prima di ogni altra considerazione, però, gli studi progettuali rivelano le vicissitudini politiche, culturali e materiali che hanno segnato la realizzazione di un oggetto di design, di un edificio, di un abito.

La figura di Bruno Munari, ideologicamente a cavallo tra la cultura dell’idealismo e i modelli elaborati dal Bauhaus, è parsa esemplare, precisa Quintavalle, «sia di un procedimento di lavoro che di un’analisi dibattuta dei problemi della progettazione d’oggetti della generazione anteriore a quella di mezzo» (Quintavalle 1979).

Una mostra consentanea all’apertura al pubblico di quell’«Archivio del Progetto», «emanato dal Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, che si impone come una delle più significative imprese della cultura figurativa italiana negli ultimi tempi […]. Una mostra monografica pilota per una serie di iniziative già programmate, ed insieme esemplare delle ricerche direttamente o tangenzialmente legate al design, un settore nel quale l’Italia (ultimamente lo si ripete spesso) vanta una sua gloria nel mondo» (Caroli 1979, p. 3).

La scelta è caduta su Bruno Munari prima di tutto per ragioni di età. Munari, con i suoi settantadue anni, «è il più attempato enfant terrible del settore, ed ha alle spalle una ininterrotta giovinezza di più di quarant’anni di lavoro […]. In secondo luogo, perché poche storie possono vantare la ricchezza della sua, toccando la progettualità nella sua accezione più lata, dal portacenere alla grafica, all’illuminazione, senza trascurare le «sculture da viaggio» (se ne fossero fatte di più negli anni andati, invece di occupare molte piazze con monumenti alla rozzezza di autori e committenti) e la straordinaria sperimentazione con i bambini di Brera» (Caroli 1979). E come soleva dire lo stesso Munari: «Datemi quattro sassi e una carta velina e vi farò il mondo delle meraviglie».

Possiamo aggiungere che l’interpretazione dell’opera di Munari, in perfetta corrispondenza con la metodologia critica della ricerca che caratterizza un Centro studi sulla comunicazione visiva, non privilegia in alcun modo l’analisi dei prodotti di design, nei confronti della grafica o dell’illustrazione, esaminando in modo organico le differenti attività del progettista.

Consideriamo, infine, le scelte operative che qualificano la politica delle acquisizioni. Quintavalle ritiene necessario conservare il materiale progettuale, non parzialmente, per exempla, ma nella sua interezza, senza attuare alcuna selezione a priori, e il Fondo Munari doveva apparire in tale senso esemplare.

Comunicazione versus Artificazione

Il rinnovato interesse per il disegno d’architettura, che si intensifica tra fine Settanta e l’inizio del decennio successivo, è dovuto in parte all’importanza che il disegno assume nella ricerca di una nuova dimensione disciplinare alla pratica dell’architettura (Sisto 1980). Molti critici plaudono l’approdo del design alle seriose sponde dell’arte, della critica e della storia dell’arte, alle pareti dei musei e delle gallerie. Si parla sempre più spesso di architetture di carta. Aldo Rossi, Costantino Dardi, Franco Purini o degli stranieri Robert Venturi, Michael Graves, Hans Hollein Thomas Gordon Smith, conferiscono ai loro progetti dignità di opere a sé, veri e propri quadri e dipinti preziosi da incorniciare e appendere nelle proprie case (Minervino 1980).

Gallerie private e istituzioni culturali dedicano spazi sempre più importanti al disegno d’architettura. A New York, Leo Castelli, noto mercante d’arte, inaugura nel 1977, Architettura I, dove espone i disegni di Raimund Hohann Abraham, Emilio Ambasz, Richard Meier, Walter Pichler, Aldo Rossi, James Stirling e Venturi e Rauch. Due anni dopo, il 18 ottobre 1980, apre al pubblico Architettura II: case in vendita, un’esposizione di disegni progettuali realizzarti da Emilio Ambasz, Peter Eisenman, Vittorio Gregotti, Arata Isozaki, Charles Moore, Cesar Pelli, Cedric Price e Oswald Mathias Ungers. Una raccolta di casi studio per abitazioni familiari all’avanguardia, usciti dalla penna di architetti di fama internazionale. I potenziali clienti non comprano disegni per appenderli in salotto ma per trasformare in realtà la visione originale dei progettisti (Archer 1980).

Antonia Jannone, gallerista milanese attiva dal 1977, si concentra su un’espressione artistica che fino ad allora non aveva trovato spazio: l’architettura, e realizza le prime personali di Léon Krier, Ernesto Bruno Lapadula, Giovanni Muzio, Aldo Rossi, Alberto Sartoris, Ettore Sottsass, Stefan Wewerka, accostando gli acquarelli di Massimo Scolari e Arduino Cantafora alle scenografie del pittore e architetto Giovanni Paolo Panini o alle vedute di Hubert Robert. Nel 1979 anche la XVI Triennale, ponendosi l’obiettivo di ampliare l’attività espositiva e gli ambiti tematici, dallo spazio audiovisivo alla moda, dedica spazio al disegno d’architettura.

 In quegli anni il disegno di architettura sembra dunque uscire dalla funzione strettamente progettuale per diventare una forma d’arte autonoma. Ecco allora che l’acquisizione degli archivi di architettura, nella loro organica completezza, diviene, anzitutto, un atto etico, finalizzato a contrastare la dispersione degli insiemi progettuali. Di fronte a un mercato sempre più aggressivo che coincide con la cosiddetta stagione dell’architettura di carta, in concomitanza con una crisi del settore edilizio che amplia a dismisura la produzione di disegni di architettura, promuovendo, spesso con finalità espositive, la progettazione di opere-manifesto.

Il collezionismo privato, privilegiando, infatti, soltanto i disegni ritenuti “artistici”, e le “belle” prospettive, avrebbe operato sul tessuto del patrimonio progettuale una distruzione gravissima. Questa è una delle ragioni che con ogni probabilità induce alcuni tra i massimi architetti italiani del Novecento a donare al CSAC un insieme di raccolte di tanto interesse e di altissima qualità[4].

Alla domanda che si sente rivolgere sempre più spesso: la moda è arte, il design, è arte? Quintavalle risponde che avrebbe lo stesso senso che chiedersi oggi se il cinema è arte, oppure l’architettura.

Invece ha senso chiedersi perché il quesito sullo statuto artistico del disegno d’architettura si ponga con insistenza proprio negli anni Ottanta, quando il dibattito critico è segnato da un rinnovato interesse per il made in Italy. Come a evidenziare che la nozione d'arte e il campo di relazioni sociali che è ad essa sotteso sono assolutamente arbitrari e convenzionali e, pertanto, mutevoli da cultura a cultura e da società a società.

Quando s’imposta l’archivio CSAC, nella seconda metà degli anni Sessanta, come ricorda Quintavalle[5], da quattro generazioni almeno si andavano scoprendo sempre nuovi ambiti dell’arte: il progetto di design, l’architettura, la moda; mentre la caricatura era considerata arte da almeno un secolo e il manifesto da fine Ottocento.

Per chiunque voglia fare storia, dove stanno allora i limiti dell’arte? E non è forse anacronistico continuare a porsi il problema.

Il contrasto che nel dopoguerra e ancora nel decennio seguente esisteva tra la cultura ufficiale e il sistema degli oggetti, analizzato da Jean Baudrillard (1968), non ha più ragione di essere negli anni Sessanta, quando i confini dell’arte sono meno definibili, e molti critici mostrano interesse per il problema della produzione in serie.

Sono questi i quesiti ai quali l’istituzione dell’archivio di Parma, e l’apertura al pubblico del Dipartimento Progetto, intendono rispondere. CSAC è il luogo dove si conserva la memoria di tutte le diverse scritture del Contemporaneo, nel quale frontiere e delimitazioni concettuali sistemiche delle definizioni di memoria e patrimonio non trovano spazio, dove gli oggetti e le opere conservate si sottraggono al processo di “artificazione”. Concetto impostosi sulla scena culturale e scientifica globale in tempi recenti, che ha tuttavia una genealogia complessa e antecedenti illustri, collocati sia nella pratica artistica sia nella riflessione teorica pertinente la critica e la storia dell’arte, la semiotica o l’estetica contemporanee, da Nelson Goodman (1977) a Meyer Shapiro e Nathalie Heinich (2012), per citarne alcuni. L’artificazione, riprendo un recente contributo di Francesco Faeta (2018), rinvia, a suo modo, alla regola antropologica, che ci ricorda come gli oggetti e le pratiche definite artistiche lo siano in conformità a una condivisione sociale, più o meno estesa, che determina poi la loro diversa capacità agentiva.

L’archivio del progetto. Un nuovo modello teorico ed epistemologico

Di fronte al crescente interesse per il disegno d’autore e al rischio della dispersione degli archivi d’architettura, i temi della conservazione e dell’accesso ai documenti sono sempre più rilevanti nell’ambito degli studi e delle ricerche sull’architettura contemporanea.

Nella costruzione del Centro Studi, nella sua interpretazione e negli studi collegati emergono un’apertura e un ripensamento generale delle tradizionali categorie storiografiche, iconografiche, estetiche ed epistemologiche. Un’apertura che trova più di una coincidenza con un approccio interdisciplinare, rivolto alla restituzione di un oggetto di studio completamente rinnovato che mette in relazione ricerche focalizzate sulla comunicazione visiva.

È evidente, nei principi di metodo, l’approccio sperimentale e di generalizzata revisione teorica rispetto agli statuti più consolidati del sapere critico nel campo dell’arte. Un orientamento epistemologico che muove in direzione di una ricognizione più allargata e inclusiva del significato dell’arte.

L’Archivio è, infatti, il luogo della paritetica raccolta di differenti prodotti culturali (dalla scultura al manifesto cinematografico, dall’architettura alla moda, dal design alla fotografia, dall’illustrazione alla grafica), non prediligendo etichette che li indichino come esteticamente diversi.

Allo stesso modo, il criterio adottato nell’ordinamento archivistico, tende a non dividere le raccolte, le serie o gli insiemi di documenti che sono stati deliberatamente assemblati da un individuo o da un’istituzione (Quintavalle 1983, p. 11).

Raccogliere il disegno d’architettura, oltre ad essere un’operazione determinante per ricostruire la storia della progettazione nel Novecento, diventa un fatto chiave per comprendere il presente e uno strumento indispensabile per ogni reale presa di coscienza della realtà della nostra cultura. Attento alle trasformazioni e ai mutamenti della contemporaneità, il Centro assume, ben presto, le caratteristiche di una raccolta pubblica, aperta ed accessibile.

Date queste premesse epistemologiche, si comprende la scelta di Giulio Carlo Argan, dal 1978 presidente del CSAC[6], e del comitato scientifico, di organizzare un convegno, che mettesse a fuoco un tema preciso, quello del rapporto tra disegno, progettazione e architettura.

Gli incontri di lavoro Il disegno dell’architettura, al quale partecipano i maggiori progettisti e storici dell’architettura del nostro paese, si aprono il 23 ottobre 1980 nell’Aula Magna dell’Università con la relazione Design povero di Giulio Carlo Argan. La crisi della società del benessere, questo il suo assunto, dovrebbe far ripensare anche il modo di progettare gli oggetti. Il design povero è un discorso alternativo, eppure sempre progettuale, al design letto come fatto d’élite, ed è determinato dalla dialettica del sociale nella nostra cultura. «Occorre pensare a un design – conclude Argan – che progetti l’informazione invece di progettare un futuro utopico dell’esistenza». Lo studioso, che auspica un mondo fondato sull’eticità, è una figura chiave non soltanto nell’ambito del convegno, ma nella storia stessa della Sezione Progetto.

Non è un caso che l’Istituto di Storia dell’Arte, sorto sulla definizione di un nuovo modello metodologico, si sia orientato nella direzione della teoria storica artistica promossa in ambito nazionale proprio da Giulio Carlo Argan. Lo scambio di idee tra i due studiosi che data a metà anni Sessanta si fa più intenso nella seconda metà dei Settanta. Comune è l’idea di adottare un impianto metodologico contrapposto all’idealismo crociano e l’assunzione di un modello storico critico che, in quegli anni, coincideva con l’adesione a un impegno politico e civile.

È solo il caso qui di accennare all’intenso scambio tra Quintavalle e Giulio Carlo Argan (ne resta documentazione nell’archivio storico del Centro) e al ruolo di quest’ultimo nella progettazione e definizione della struttura. In una lettera datata primo dicembre 1978, Quintavalle mette al corrente Argan della situazione del costituendo Archivio del Progetto, che all’epoca contava su una ventina di migliaia di disegni. Una realtà che, evidenzia Quintavalle, è «in sostanza la dimostrazione che le idee di “Progetto e Destino” (ma anche di “studi e note”, pur in termini diversi), la linea della tua indagine sono funzioni della prassi mi sembra un grosso risultato»[7].

Pare, dunque, che «Progetto e destino» (1965), dove Argan evidenzia non solo l’intenzionalità dell’atto progettuale, ma anche come tale concetto sia imprescindibile da quello di responsabilità, sia un riferimento alla nascita dell’Archivio del Progetto, poi Dipartimento Progetto, infine Sezione Progetto, già ben delineato poco oltre la metà dei Settanta. I fondamenti metodologici che storicamente hanno caratterizzato le attività di raccolta di CSAC: l’interesse trasversale per le nuove forme della comunicazione e l’attenzione al progetto, al processo storico e sociale che sottende l’attività creativa, sono inscindibilmente connessi al convincimento che la riforma dell’insegnamento universitario dovesse essere culturale prima ancora che accademica.

L’idea stessa di sviluppare un archivio anziché un museo s’inserisce in un dibattito molto più ampio sulla riforma delle istituzioni culturali nazionali (Quintavalle 1977). Più volte, d’altra parte, lo stesso Argan aveva suggerito l’opportunità di una correlazione tra istituti universitari e amministrazione preposta alla tutela del patrimonio culturale. E, l’esigenza del collegamento tra i due ambiti, è una prospettiva coerentemente coincidente con la storia del CSAC.

A ciò si aggiunga una riflessione sui cambiamenti, che, negli ultimi decenni, hanno interessato il concetto di memoria e le istituzioni che di essa si occupano. Ritengo che ripercorrere la storia dell’Archivio del Progetto, e, in prospettiva, interpretare la sua costruzione e comunicazione, coincida con la narrazione di un patrimonio di natura diversa da quelli offerti dalla tradizione. Non si tratta soltanto di quanto è stato realizzato, ma delle trasformazioni dei “significati” che, nell’epoca dell’economia della conoscenza, sono attribuiti al patrimonio culturale a alla memoria materiale e immateriale, risorsa primaria per la qualità di vita delle persone.

Uno dei luoghi deputati all’istituzionalizzazione della memoria è il museo e una delle sue funzioni è stabilire “gerarchie” di memoria, cioè di legittimare – come istituzioni preposte alla garanzia – frontiere e delimitazioni concettuali sistemiche delle definizioni di memoria e patrimonio. Luoghi deputati alla selezione e visibilità di quelli che, nella definizione di Jacques Le Goff (1978), si definiscono monumenti. Oggetti e concetti che diventano “memoria collettiva” quando una società, o parte di essa, li elegge come rappresentativi.

Fin dalla sua origine il CSAC elabora un modello innovativo di raccolta della memoria visuale del Novecento. All’estetica del capolavoro si contrappone, un modello differente, quello del sistema della cultura, in una prospettiva critica che riconosce tra i fondamenti epistemologici l’attenzione agli storici del medioevo, e agli storici tout court della scuola francese degli Annales, la nuovelle histoire in quegli anni in piena affermazione con gli studi di Lucien Febvre, sviluppati da Fernand Braudel e Jacques Le Goff.

Da queste premesse si sviluppa una nuova riflessione sulla storia o meglio sulla storiografia, considerata come una molteplicità di storie, fornite di una loro specifica temporalità ed articolazione. Ed apparirà evidente meglio in seguito come quest’approccio sincronico abbia importanti esiti nell’indagine e valorizzazione del patrimonio culturale.

Progettato partendo dalla destabilizzazione di un’idea di museo tradizionale, cioè una raccolta selettiva basata su valutazioni di tipo estetico o raggruppamenti tipologici, l’Archivio di Parma nasce, quindi, da un’analisi del problema museo e dalla questione, nodale a metà anni Sessanta, di una scelta, alternativa fra archivio e museo. Un approccio culturale aperto in piena sintonia con le nuove epistemiche di radice marxiana, antropologica e linguistica.

Lo strutturalismo di Fernand De Saussure e il modello antropologico di Claude Lévi-Strauss, gli studi basati sull’analisi sistematica dello spazio, dei segni e di ogni forma di comunicazione, sono un modello per la costruzione di nuovi strumenti di lettura e interpretazione della contemporaneità.

L’archivio è interpretato come un sistema eterogeneo costituito non solamente da singoli pezzi, ma anche dall’insieme dei protocolli e delle prassi, delle misure e delle istituzioni, dei saperi e delle conoscenze che hanno lo specifico compito di governare, di ordinare e di determinare le opinioni e l’ordine dei discorsi come sedimentazione efficace e strategica sul piano politico e culturale (Serena 2013).

Il disegno dell’architettura. Incontri di lavoro

Il 23 e il 24 ottobre 1980 si tiene a Parma alla Università, e se ne pubblicano gli atti nel 1983, il convegno Il disegno dell’architettura che segna la presentazione al pubblico delle raccolte dello CSAC nell’ambito del progetto. Una grande mostra, quella della donazione Bruno Munari, si apre nel Salone delle Scuderie in Pilotta, mentre nell’ala dei Contrafforti si collocano una cinquantina di classificatori già colmi di disegni di molti progettisti, Enzo Mari, Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Roberto Sambonet, Mario Bellini, Alessandro Mendini ed altri ancora.

Come si evince da questo elenco, è chiaro che agli inizi, il Centro «puntava sopra tutto sul design, e sul design milanese, a non troppa distanza dai trionfi statunitensi di quella progettazione e dal peso che il nostro progetto aveva assunto nelle raccolte del MOMA a New York» (Quintavalle 2010, p. 41).

Al convegno partecipano studiosi e progettisti, da Giulio Carlo Argan, che introduce i lavori a Manfredo Tafuri, da Gillo Dorfles a Vittorio Gregotti, da Corrado Maltese a Giovanni Klaus Koenig, da Bruno Zevi a Costantino Dardi, a Pier Paolo Saporiti; sono presenti un gruppo di progettisti e di designer, molti dei quali già presenti nei fondi del CSAC, da Giuseppe Samonà a Giancarlo Iliprandi, a Gino Pollini. L’elenco dei partecipanti al convegno è molto più ampio, oltre ai maggiori storici della architettura, intervengono anche i progettisti che negli anni successivi avrebbero donato i loro archivi al Centro: Andrea Branzi, Ignazio Gardella, Mario Nervi, Mario Olivieri, Leonardo Ricci, Ettore Sottsass, Giancorrado Ulrich, e molti altri.

Nei cinque anni che precedono l’apertura dell’Archivio del progetto, «mi ero mosso – scrive Quintavalle (2010, p.40) – con alcuni dei miei collaboratori, per cercare di raccogliere la progettazione partendo da una idea, che era indispensabile mettere insieme le varie fasi progettuali». Una risposta di estrema coerenza al dibattito sulla conservazione del progetto di architettura e design accesosi in quegli anni. Come conservare, perché conservare, che cosa conservare; scegliere alcuni disegni ritenuti di qualità più alta, optare per una selezione fra i progetti senza estrapolare dei disegni, o anche non accogliere, per difficoltà di conservazione interi archivi: queste erano alcune delle tesi che si discutevano (Quintavalle 2010, p. 40). Alla fine, prevale il modello suggerito da Quintavalle: conservare la completa documentazione, senza interventi di selezione o comunque di trasformazione dei caratteri del progetto originario.

Una scelta metodologica che nasce da una riflessione sul confronto di modelli interpretativi del progetto di architettura, da Bruno Zevi «col suo mito di Wright e del rapporto organico col naturale», a Giulio Carlo Argan «con la sua adesione alla progettazione post Bauhaus»; a Gillo Dorfles «con le sue attenzioni per le più rivoluzionarie avanguardie» (Quintavalle 2010, p. 40).

Senza dimenticare le riflessioni critiche di studiosi del progetto, come Fulvio Irace e Maurizio Fagiolo, e dell’arte come Filiberto Menna e Maurizio Calvesi.

Un dibattito particolarmente vivo a metà anni Settanta, nel quale Quintavalle distingue due linee, quella che esce da una riflessione sui temi posti già all’interno del Bauhaus e una ricerca che tende a ribaltare quelle problematiche puntando su un diverso modello, legato alle ricerche di altre aree, dal teatro di strada alle tematiche elaborate dalla teoria della percezione[8].

Un dibattito che vede Bruno Zevi e Paolo Portoghesi, protagonisti della storia della nostra cultura architettonica, su linee diverse e su posizioni divergenti. Questo ultimo nel 1980 è chiamato a dirigere la Biennale d’Architettura, La presenza del passato, passata alla storia come Biennale del Post-Moderno, accompagnata da molte polemiche (Mucci 1980; Savorra 2017)

Come si situa il convegno all’interno di questo dibattito? In primo luogo, mette a fuoco un problema: la dispersione del progetto architettonico e di design, e la conseguente necessità di raccoglierlo, di conservarlo e garantirne lo studio a livello universitario. Ordito e trama della tela è l’assunto concettuale che l’arte è sempre progetto e quindi percorso di organizzazione e scelta del reale, che l’insieme di ogni archivio è indispensabile per comprendere la progettazione, che sono indispensabili gli storici per individuare gli archivi e per orientare i proprietari verso una raccolta pubblica senza fine di lucro (Quintavalle 2010, p. 40).

Il disegno d’architettura, spazio materiale della riflessione teorica e della ricerca, emancipato dall’univoca relazione con la pratica costruttiva e professionale, non può essere compreso al di fuori di questo quadro teorico e culturale. E soltanto gli archivi che lo conservano consentono di ricostruire l’iter progettuale, e non esclusivamente in vista dell’opera realizzata, quanto piuttosto per comprendere il rapporto del progettista con la vita di tutti i giorni.

Ma che senso ha organizzare un convegno sul disegno d’architettura, si chiede Quintavalle, «nella prospettiva di una raccolta storica del disegno progettuale che dovrebbe, in teoria, essere al di fuori del dibattito anche vivissimo al quale si è venuti negli ultimi anni assistendo?»[9].

La risposta suggerisce a chiare lettere il significato politico, di politica culturale, innanzitutto, del convegno. Una struttura aperta e viva, quale è il CSAC, non può sottrarsi, rileva Quintavalle, alle discussioni e deve sapere modellare il proprio operare sulla base, «anzi sulle basi delle tendenze anche le più diverse»[10]. Gli interventi potranno suggerire soluzioni e indicare aree di aggregazione; tanto più che il dibattito avviene alla presenza delle massime autorità amministrative regionali, per favorire un dialettico confronto con coloro che di fatto operano sulla gestione del territorio.

Il comitato scientifico[11] pensa che il convengo debba avere delle conclusioni operative, affrontare i problemi relativi alla conservazione e catalogazione del disegno di architettura, impostare le collaborazioni internazionali; prospettare conclusioni operative, sia su questioni specifiche, sia sulla generale progettazione operativa del CSAC. Il Comitato scientifico e quello esecutivo dovranno, a conclusione dei lavori, indicare le linee dei prossimi interventi «nella viva realtà della civile convivenza»[12].

Il convegno affronta, in sostanza, gli aspetti comunicativi del disegno d’architettura in vista della sistemazione in archivio dei fondi in via di acquisizione; propone un modo nuovo di studiare l’architettura, il design, la grafica, tanto più considerando che, nella contemporaneità, i procedimenti esecutivi non sono perfettamente coerenti con quelli usati nel passato, corrispondenti, di contro, all’emergere di nuove metodologie di progettazione.

Dopo la relazione introduttiva di Giulio Carlo Argan e, nel primo pomeriggio, la visita all’Archivio del Progetto nell’Ala dei Contrafforti, i lavori riprendono nella Sala Mulas in Pilotta, con le relazioni di Paolo Portoghesi, Progetto e disegno; Manfredo Tafuri, L’archeologia del presente; Corrado Maltese, La fine della cultura degli oggetti e i limiti della memorizzazione.

Tafuri incentra la sua attenzione sui rapporti fra disegno, progetto e architettura, indicando il problema della raccolta del CSAC come una specie di problema del sapere inteso cioè come discorso sulla memoria e sul futuro. Non esiste architettura senza disegni, che sono le uniche testimonianze storiche del rapporto che lega gli intellettuali ai modi della produzione. Il problema della raccolta dei materiali non può prescindere, a suo avviso, dal problema del “sapere”, di archeologia del sapere, mutuando il titolo da una ben nota opera di Michel Foucault. Il rapporto tra formazioni discorsive e non-discorsive, fra saperi e comportamenti sociali, emerge dalla serie dei disegni di architettura, considerati tracce archeologiche che servono a “disseminare” l’opera.

Numerose spiegazioni formulate nel corso del Novecento su temi legati al reperimento, selezione e conservazione delle tracce prodotte dalle innumerevoli attività umane condividono una caratteristica: il loro oggetto di riflessione è l’archivio. Per Foucault (1966) l’archivio è uno strumento di sistematizzazione della conoscenza che ha carattere normativo e valore culturale, determinante per l’elaborazione e trasformazione dei discorsi (Foucault 1969). È, per Jacques Derrida (1995) uno strumento di produzione e conservazione di segni che rivelerebbero lo scarto tra l’empirico e il trascendente, il ruolo della iscrizione e del differimento della presenza.

L’analisi critica di Corrado Maltese si sostiene sulla lettura semiologica dei problemi della cultura degli oggetti e della crisi collegata alla tematica della memorizzazione. Maltese si sofferma sugli spazi e strumenti che ospitano serie, collezioni, popolazioni di oggetti che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, chiedendosi quali significato possiamo o dobbiamo attribuire al processo di museificazione.

Il giorno successivo i lavori proseguono con gli interventi di Gillo Dorfles, Autonomia dei disegni di architettura, Giovanni Klaus Koenig, Disegno e design; Vittorio Gregotti, Processo e funzione del disegno di architettura, Cesare De Seta, Ipotesi di scelta del museo di carta.

Giovanni Klaus Koenig pone il tema del rapporto tra progettazione e oggetto, mentre De Seta affronta i temi della scelta dei materiali, un discorso necessario di fronte all’enorme quantità di testi che si potrebbero in linea teorica raccogliere.

Dorfles sostiene l’autonomia del disegno d’architettura, e indaga il problema “estetico”. «L’errore che di solito si commette nell’analisi del disegno architettonico è quello di non saper circoscrivere la specificità linguistica di una determinata arte» (Dorfles 1980, p.16). È attorno a questo problema, «la necessità di attribuire a ogni arte un suo specifico linguaggio», che ruotato le accese discussioni e i numerosi interventi dei congressisti.

Il problema del disegno d’architettura nella contemporaneità, evidenzia Dorfles, è molto diverso rispetto al passato pretecnologico. Prima della rivoluzione industriale, prima del sorgere degli attuali metodi disegnativi e progettuali, spesso meccanizzati, esisteva una sincronia e un’equivalenza estetica tra architettura, disegno, pittura, scultura. Michelangelo, Bibbiena e Palladio erano al tempo stesso pittori, scultori e architetti. Oggi, continua Dorfles, un disegno, uno schizzo di architettura dovrebbe valere solo come promemoria, come premessa al vero e proprio progetto. L’architetto e il designer possono valersi del disegno come spunto creativo per fissare un’idea costruttiva. Accade però anche che vi sia un interesse per il disegno svincolato da ogni effettiva volontà progettuale e quindi comparabile a qualsiasi altro schizzo estemporaneo di un pittore o di uno scultore. Quando un architetto mira a elevare a valore artistico un disegno, progettuale o meno, evidenzia ancora Dorfles, può creare una situazione equivoca nel fruitore. Bisogna cioè distinguere, avverte Dorfles, tra l’effettiva urgenza di fissare un’idea architettonica tramite uno schizzo – senza cioè pensare di avere creato un’importante opera visiva – e il compiacimento di avere eseguito un progetto architettonico, già con il previo intento di elevarlo ad opera pittorica a sé stante, il che oggi, lamenta lo studioso, avviene sempre più spesso.

Dorfles ribadisce l’importanza del CSAC, che accoglie indistintamente il materiale disegnativo e progettuale, adottando una prassi metodologica, la sola in grado di offrire allo studioso un quadro completo dell’attività d’ogni singolo artista archiviato.

Custodire i disegni permette, e avrebbe permesso anche nel passato se fossero stati conservati schizzi, disegni e modelli, di conoscere a fondo i meccanismi del processo creativo che conduce dall’idea iniziale alla realizzazione (Minervino 1980, p. 14).

Anche Vittorio Gregotti[13] evidenzia l’importanza delle raccolte del disegno che consentono di ricostruire quel delicatissimo andirivieni di pentimenti, di varianti e ripensamenti, assai prossimo al lavoro paziente della tessitura: tutto nodi e intrecci per fissare momenti provvisori e tuttavia insostituibili della progettazione; per indagare il fatto creativo nella sua interezza, in special modo nell’architettura e nel design, dove nulla di meglio dell’impegno progettuale serve a mettere in luce il rapporto che lega “l’inventore” alla realtà, cioè a quella vita di tutti i giorni che in qualche misura è chiamato a modificare o con la quale deve comunque fare i conti. Se, di tante pagine di architettura ignoriamo genesi e sviluppi, e di conseguenza i virtuali suggerimenti per il nostro tempo, per la cultura contemporanea, alle lacune risponde l’Archivio di Parma che raccoglie i progetti degli architetti e dei designers.

Gillo Dorfles e Vittorio Gregotti rimarcano con maggiore convinzione, tra gli studiosi intervenuti, l’importanza della politica seguita dal CSAC nelle acquisizioni.

Progetto e scritture

Quando si parla di “disegno di architettura” si intende anche disegno come linguaggio, come forma espressiva? O in funzione solamente dell’architettura? Se Bruno Zevi sostiene l’architettura senza disegno, e Paolo Portoghesi, considera il disegno come fatto artistico, Quintavalle mette in chiaro la sua posizione: non crede minimamente al disegno come arte.

Tesi bene espressa nella sua relazione, Scritture e senso dell’architettura[14], che chiude il convegno. Lo studioso affronta problemi più strettamente semiotici e introduce il tema delle scritture del disegno.

Una chiave interpretativa per comprendere il peso culturale della nozione di “scrittura” e del collegato concetto di “trascrizione” è la riflessione sulla cultura della produzione in serie, senza dimenticare la lezione benjaminiana esposta nel celebre L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, spesso citato dallo stesso Quintavalle, che ha radicalmente modificato la nostra percezione di ciò che è originale/autentico. La riproduzione meccanizzata emancipa l’opera d’arte, trasformandola da oggetto di contemplazione a materia di studio empirico e scientifico. La percezione moderna si può meglio comprendere distinguendo due nozioni, quella di “autenticità” e quella di “singolarità”: la proliferazione in massa di copie si stabilisce sacrificando l’idea di autenticità, che si suppone sostentata da un oggetto originale o fondatore.

Per capire la formazione di un archivio della comunicazione visiva, basato sul superamento del vecchio modello che separava l’arte dal mondo della produzione, è utile ripensare alla produzione industriale tra il XIX e il XX secolo, quando le tipologie delle collezioni incorporano il fenomeno moderno della ripetizione, della riproduzione delle immagini e della moltiplicazione delle forme di esibizione, che rendono il principio di novità una questione centrale, originata dal processo stesso di produzione industriale.

Secondo questa chiave d’interpretazione del prodotto artistico diventano fondamentali tutti gli elementi preparatori che concorrono alla sua esecuzione; i diversi studi progettuali ­– i testi, le scritture e ogni strumento di trascrizione ­– che raccontano le vicissitudini, politiche, storiche e materiali che hanno segnato la realizzazione di un oggetto di design, un edificio, un abito.

Date queste premesse, meglio si comprenderà il concetto di “scrittura”. Quintavalle, accettando il modello interpretativo strutturale, integrato dagli studi di iconologia, considera il disegno un sistema.

Le raccolte sono costruite, infatti, fin dalle origini, come sistema finalizzato alla ricostruzione storica dei contesti culturali e alla lettura critica delle scritture.

Prima di procedere, vale ricordare, seppure per sommi capi, la genesi del concetto di scrittura che ricorre nelle pubblicazioni di Arturo Carlo Quintavalle e della sua scuola. Scrittura, come afferma Roland Barthes ne, Il grado zero della scrittura (1953), è una funzione, è il rapporto tra la creazione poetica e la società. Nella genealogia del concetto di scrittura, che Quintavalle riporta dall’ambito testuale a quello comunicativo, figurano la linguistica strutturale di Fernand De Saussure e l’analisi della struttura del discorso o dell’organizzazione interna al testo di Roman Jakobson.

Il direttore del Centro compie un importante passaggio: esporta la metodologia di analisi strutturalista dallo studio della lingua ai linguaggi audiovisivi. Un’accezione di scrittura che considera anche la ridefinizione del ruolo dello spettatore-lettore nella narratologia di Algidras Juliene Greimas, Claude Bremond e Gérard Genette. Lo conferma l’affermazione che la descrizione narrativa degli abiti è funzionale, come quella degli ambienti, alle strutture del racconto.

Alle strutture narrative si collega l’interesse per il momento sintattico dell’opera figurativa, sia esso una fotografia, un figurino di moda o un disegno d’architettura. Cogliere il significato culturale del disegno attraverso l’analisi degli elementi formali, non è chi non veda il collegamento con il metodo iconologico dal quale deriva l’innovativa ermeneutica del sistema dei generi. Il “genere” è, infatti, decodificato all’interno di un sistema di tradizioni d’immagini in grado di fornire criteri interpretativi.

La questione dei generi si ricollega al dibattito sullo strutturalismo che in Italia caratterizza i tardi Sessanta e i primi Settanta. Riallacciandosi agli studi di Viktor Sklovskij, il genere, nell’esegesi critica di Quintavalle, è un sistema di convenzioni, di strutture linguistiche che si mantiene al di là e al di sopra (ma in precisa dialettica) con la creazione individuale. E le scritture del disegno bene s’inseriscono in questo quadro teorico. Sulla scorta di Northrop Frye (1957) l’accento è posto sullo spettatore, sul consumatore, interpretando la funzione svolta dal genere quale mediatore tra autore e pubblico. È ben chiaro però che se l’attenzione degli autori ora ricordati è rivolta al sistema letterario, alla comunicazione testuale e non iconica, l’interpretazione del genere quale strumento narrativo, fondamentale nel concetto di “scrittura”, rimanda alla teoria narratologica di Algirdas Julien Greimas, sopra ricordato, ma ancor più all’impostazione interdisciplinare del metodo iconologico.

Se per il linguista e semiologo lituano la narrazione, o per meglio dire la narratività, sta al fondo d’ogni atto di senso, sia esso un racconto propriamente detto, un’opera filosofica, un’immagine pubblicitaria, un oggetto di design, un manufatto architettonico, una pietanza, un balletto, un abito, un disegno di moda, come anche l’esperienza vissuta del nostro quotidiano, per Claude Bremond (1966) che elabora la «logica dei possibili narrativi», ogni racconto è un insieme logico di processi.

Precisando però che le diverse norme rappresentative (i generi) sono esaminate come evoluzioni di un più stretto e implicitamente ideologico rapporto tra “regola” e invenzione (o “creatività”), non sono fisse e imperiture, ma dipendono, da punti di vista attivati all’interno del dibattito culturale di un dato momento storico, frutto di un’attività discorsiva, cui prendono parte diversi attori (artisti - designer, grafici o architetti - produttori e committenti, pubblici, mediatori culturali) e che si rinnova ogniqualvolta un corpus di scritture visuali è rivisto e reinterpretato.

Verso nuove prospettive epistemologiche: attivismo archivistico

A una riflessione epistemologica serrata, che ha investito i fondamenti stessi del sapere, ha corrisposto una perdita d’influenza delle grandi narrazioni. E da questo generale ripensamento teorico sono discesi nuovi criteri d’uso dei depositi di memoria, la scoperta di nuove dimensioni dell’archiviare, una ridefinizione degli ordini classificatori del reale e delle partizioni disciplinari, dei metodi e delle tecniche, che ha proceduto però, di pari passo con una riduzione della legittimità sociale complessiva e dell’autorevolezza dell’archivio e delle sue pratiche conoscitive.

Si comprende subito quanto siano necessarie iniziative d’innovazione comunicativa che consentano il superamento delle criticità, nella consapevolezza che l’accessibilità (penso soprattutto a quella cognitiva e culturale) sia un requisito imprescindibile per valorizzare il patrimonio della Sezione Progetto.

Si sente sempre ripetere che oggi l’archivio è profondamente mutato, oltre che essere dislocato, virtuale, accessibile a distanza e immateriale, sembra essere divenuto polisemico e polimorfo.

Chiediamoci invece che tipo di ricerca sia possibile oggi attuare sul materiale d’archivio mantenendo visibile l’originalità e anche l’anomalia delle “scritture” personali e collettive conservate tra le carte e come riattualizzarle. Una prospettiva critica, ancora tutta da esplorare, è l’attivismo archivistico, introdotto da Andrew Flinn (2011).

Sin dagli anni Settanta, quando in Italia non c’era alcuna consapevolezza sui temi della comunicazione, Arturo Carlo Quintavalle, fondatore del CSAC, ha rotto gli steccati e attraverso un atteggiamento «eclettico», senza mai venire meno al rigore della cultura filologica, ha insegnato a guardare, senza paraocchi, la dimensione estetica contemporanea. Il disegno di architettura non è, vorrei aggiungere, materiale inerte da sottoporre ad attento esame, osservato da una certa distanza con il tradizionale distacco richiesto a ogni lavoro scientifico che si rispetti: bensì espressione di un insieme di relazioni insite nelle procedure stesse dell’esplorazione archivistica. L’emotività e l’affettività, condizione fondamentale nella formazione della soggettività, costituirebbero allora i fondamenti di una nuova epistemologia della ricerca storica. La dimensione relazionale può attribuire, infatti, nuovi significati ai materiali progettuali dell’archivio, avvalendosi di nuovi approcci epistemologici ed euristici che vengono dalla prospettiva transnazionale e postcoloniale. Un’idea radicalmente diversa della prospettiva storiografica che ha avuto la sua genesi, com’è noto, nelle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, originata dalla rivisitazione delle concezioni moderne della temporalità e del suo senso. Un profondo lavoro di revisione delle “scritture” della Storia, come pure della Storia stessa, rispetto al contesto sociale e politico coevo, che ha posto fermamente alcuni tra i nodi di politica culturale che in questo paese non sono stati mai risolti, ferma l’attenzione su una serie di problemi che le istituzioni educative e culturali in Italia hanno storicamente rimosso, anche rispetto ai linguaggi dell’immagine, alle trasformazioni mediali che ci hanno consegnato alla globalizzazione digitale.

Note

[1] L’ala dei contrafforti, ceduta parzialmente all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma nel 1973, fu oggetto di un lungo restauro da parte dell’architetto Guido Canali.

[2] Il Fondo Bruno Munari era di recente acquisizione; ad una prima donazione risalente al 1977, seguono una seconda nel 1978 e una terza nel 1979. Nello stesso periodo giungono al CSAC il Fondo Enzo Mari, alla donazione di tre opere d’arte nel 1977, fa seguito la donazione nel 1978 dell'archivio degli schizzi e dei disegni; il Fondo Roberto Sambonet, la cui prima donazione data al 1979. Si contano, inoltre, le presenze degli archivi della generazione di Giuseppe Samonà, Ignazio Gardella, e, prima, di Giò Ponti, e quelle di Carlo Ajmonino, Vittorio Gregotti, Leonardo Ricci; dei desginer Achille Castiglioni, Ettore Sottsass, Tobia Scarpa, Alberto Rosselli, Mario Bellini, Alessandro Mendini.

[3] La dicitura compare per la prima volta nel catalogo dedicato a Emilio Isgrò, Quaderno 27, 1976.

[4] A. C. Quintavalle, Il disegno dell’architettura, dattiloscritto, Archivio storico CSAC, (1980).

[5] Ibidem.

[6] La carica compare per la prima volta nel numero 39 della collana Quaderni CSAC, nel volume dedicato ad Alfredo Chiappori di cui Giulio Carlo Argan cura anche la premessa.

[7] Lettera dattiloscritta di Arturo Carlo Quintavalle indirizzata a Giulio Carlo Argan e datata primo dicembre 1978. CSAC. Archivio Storico.

[8] Il disegno dell’architettura, dattiloscritto, Archivio storico CSAC, databile al 1980.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Nel catalogo della mostra dedicata a Bruno Munari, pubblicato nel 1979, il Comitato Scientifico del Dipartimento Progetto risulta composto da Adriano Bragia, Guido Canali, Achille Castiglioni, Pier Luigi Cervellati, Silvia Danesi, Ignazio Gardella, Vittorio Gregotti, Enzo Mari, Thomas Maldonado, Bruno Munari, Paolo Portoghesi, Paolo Rosselli, Roberto Sambonet, Giuseppe Samonà, Ettore Sottsass, Manfredo Tafuri, Marco Zanuso, Bruno Zevi.

[12] Il disegno dell’architettura, dattiloscritto, Archivio storico CSAC, databile al 1980.

[13] Ibidem.

[14] Negli atti il titolo della relazione è: Progetto scritture.

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