Il linguaggio e la manipolazione che cambia lo stato delle cose, cioè il linguaggio e la tecnica, sono le facoltà più importanti che l’uomo ha acquisito ed affinato nel corso della sua storia evolutiva. Per Roland Barthes (1982), la scrittura (il morfema) precede l’uso della parola (il fonema). Ernst Gombrich (1978) ci racconta dell’origine magica del linguaggio, di come per gli uomini primitivi, nella preistoria, il disegno del bisonte sulle pareti della caverna non fosse una rappresentazione del bisonte, ma rappresentasse invece il credito per la caccia del giorno successivo. Originariamente, raffigurazione della cosa, rappresentazione simbolica e cosa coincidono. Coincidono fino al momento in cui il processo di nominazione assegna a quella determinata cosa un determinato nome e poi, nell’evoluzione del processo di astrazione, gli oggetti vengono raggruppati in classi secondo un determinato filtro di selezione.
Scrittura - Architettura
In quanto disciplina, l’architettura possiede una propria nomenclatura. Essendo fondata storicamente, tale nomenclatura è fissa e stabile. Talmente fissa che se si dovesse rendere conto della natura di una cosa dall’uso metaforico e strumentale che ne viene fatto, non ci potremmo sbagliare: essa è sempre stata utilizzata per rappresentare condizioni di stabilità, per rappresentare e costruire contemporaneamente tali condizioni. È noto l’esempio della nemotecnica come arte di ricordare contemporaneamente il maggior numero di oggetti (cose o parole) possibile e la loro relazione; Raimondo Lullo (Rossi 1960) indica in un’architettura (come sequenza di stanze distribuite ordinatamente) o in una parte di città (come sequenza ordinata di luoghi pubblici correlati da strade e portici) la «structura fixa» dentro i cui luoghi riconoscibili disporre gli oggetti da ricordare. Ripercorrendo con la mente tali luoghi, la loro immagine associata a quella degli oggetti ivi collocati, li riporteranno immediatamente alla memoria.
Se ricordiamo la definizione di Aldo Rossi (1990) di architettura come «scena fissa» in cui si stagliano gli avvenimenti della vita collettiva e individuale, possiamo già orientare un primo ordine di conclusione: esiste la possibilità di scorrere lungo un asse doppio o due assi, uno nel tempo e uno nello spazio.
L’asse del tempo è quello di cui ci parla Cassirer (1942) in una conferenza del 1942 dal titolo «Linguaggio e arte II». Qui egli ci spiega come rispetto al processo di nominazione che procede per astrazione dalla cosa al concetto della cosa ed evolve rendendo sempre più complesso l’universo semiotico in cui viviamo col pericolo di allontanarci dalla comprensione dell’originale o di produrre concetti di cui non esiste alcun referente concreto, gli unici in grado di riappropriarsi o di farci riappropriare di un rapporto autentico con le cose siano gli artisti. Essi si comportano o come i bambini o come gli uomini primitivi, sono cioè in grado di percorrere a ritroso il processo evolutivo, scorrendo all’indietro lungo l’asse del tempo della storia o lungo l’asse del tempo individuale – per Queneau (1967) – della storia generale e della storia particolare.
L’asse dello spazio è quello dello spazio semiotico ed è quello che copre l’estensione a cui si riferiscono le metafore dell’architettura come «structura fixa« di Lullo e dell’architettura come «scena fissa» di Rossi. Raimondo Lullo è uno dei precursori della moderna logica formale, a lui la città o i pezzi di città interessano in quanto relazione ben ordinata tra gli elementi delle parti che la costituiscono; ad Aldo Rossi la città interessa come insieme di opere di architettura costruite nella città e che la costruiscono: gli interessano i monumenti come «rappresentazioni memorabili» e quindi come «oggetti formati».
Che la si utilizzi per rappresentare relazioni astratte tra le parti o che se ne montino gli oggetti formati nella città, noi godremo della possibilità di muoverci liberamente lungo l’asse che si estende dalla struttura profonda alla superficie, componendo immagini definite una volta per tutte, o riconfigurandone i nessi sintattici al livello profondo.
È evidente come non ci possano interessare la cronologia dell’evoluzione storica o degli sviluppi di tali due processi, ma ci permettiamo di essere contemporaneamente immediati come i bambini, istintivi come i primitivi, sofisticati e distanti come un dandy, complessi, semplici, evolutivi come i tedeschi o superficiali come i Greci, «per profondità!» (Nietzsche 2002).
La (super)tecnica del disegno
Non ci interessa insistere sulla condizione linguistica dell’architettura, cioè sul fatto che l’architettura sia un linguaggio, che possiede delle proprie parole ed una propria sintassi come il linguaggio scritto, ma sulla tesi uguale e contraria della natura architettonica del linguaggio o sulla sua natura tecnica e dell’architettura come matrice originale di tale natura tecnica.
Se è vero che originariamente gli atti concreti hanno preceduto le astrazioni, il lavoro della mano che disegna col bisonte il concetto di bisonte, per Wittgenstein (1999) «l’architettura è un gesto», vale la ricerca di uno studioso inglese, Edmund Hussey (1977), che riferisce l’origine della parola “struttura” alla parola greca “harmozein”, che offre diversi significati: adattare insieme, convenzione, trattato. Tale parola è utilizzata per la prima volta da Omero nell’Eliade ad indicare concreti adattamenti tra le parti nelle costruzioni in legno, cioè nella carpenteria, di cui la tettonica, per Semper (1992), è l’arte. O Greimas e Courtes (1986), che osservano come il saper fare discorsivo non è molto diverso dal saper fare di un calzolaio.
L’analogia tra architettura e scrittura, di cui l’architettura sembra essere non solo metafora ma anche riferimento archetipico, si fonda sulla convenzione che stabilisce la corrispondenza tra le parole e le cose, disciplina per disciplina. Tale analogia permette di comporre la relazione tra le parole, ponendola contemporaneamente, istantaneamente, magicamente tra le cose cui le parole si riferiscono; Nelson Goodman (1947) ha parlato di «nominalismo costruttivo».
L’architettura, però, a differenza delle altre discipline, lo fa con maggiore consapevolezza. Tale consapevolezza le deriva dal fatto che il processo della storia alla base di tale relazione le viene continuamente ricordato dal fatto che, per sua natura, è costretta a ripercorrerlo ogni volta daccapo, a ripeterlo. Essa infatti compie un giro completo intorno a se stessa dovendo restituire all’universo fenomenologico oggetti concreti, formalizzati a partire dal suo apparato teorico: le parti di architettura che erano state trasferite in segni nominabili devono essere restituite sotto forma di opere di architettura.
Questo circolo mobile, che perpetua la ripetizione dell’evento opera di architettura per opera di architettura, ogni volta diversa ed ogni volta daccapo, da un lato rinsalda la fede nella verosimiglianza dell’analogia e dall’altra estende gli strumenti che tale consapevolezza mette a disposizione, cioè il suo potenziale produttivo. L’estensione riguarda la capacità di prefigurazione del progetto di architettura, o meglio, la capacità dell’architetto di prefigurare l’opera di architettura nel processo di progettazione architettonica.
L’aumento di tale capacità si fonda su una corrispondenza e possiede un corollario: la corrispondenza è quella che abbiamo sottolineato tra cosa, nome della cosa e raffigurazione della cosa, cioè tra cosa e rappresentazione della cosa, cosa e simbolo, ai diversi livelli, dal più profondo al più superficiale; il corollario è che la posizione delle relazioni tra cose/simbolo, cioè la progettazione architettonica, è riducibile ad un processo di composizione, alla disposizione di tali cose/simbolo sul campo indifferenziato del foglio da disegno.
La complessità: un esempio
Il simbolo, come sappiamo, è una rappresentazione particolare della cosa. È un tipo di rappresentazione che fa riferimento al suo potenziale icastico (Semerani 2000). Il simbolo è, in altre parole, una raffigurazione del significato.
Quando Denis Cosgrove (1990) parla di «paesaggio simbolico» ci dice in primo luogo che il paesaggio è un oggetto formato, ma poi dice anche qualcosa sulla natura di tale formazione: dice che è un’autorappresentazione, attraverso la quale una società rappresenta a se stessa e agli altri le relazioni che la strutturano. La riflessività del termine indica l’attivazione di un dispositivo di autoriconoscimento: le relazioni che strutturano una società e che il paesaggio come simbolo rappresenta e significa sono i suoi valori comuni e condivisi.
Ha ragione Antonio Monestiroli [1] quando dice che bisogna mettersi d’accordo sull’obbiettivo. L’obbiettivo dovrebbe essere quello di dimostrare agli scettici l’attualità dell’architettura, la sua utilità. In che modo? Esemplificando il suo potenziale specifico di rappresentare sincreticamente in una costruzione formale i valori comuni ad una determinata «comunità linguistica» (come dice Gadamer, 1985), giocando sul limite sottilissimo tra evidenza della riconoscibilità e progettualità o profezia (vale sempre la risposta di Picasso a chi gli chiedeva conto di come il suo ritratto di Gertud Stein non le assomigliasse per niente: «Non importa, le assomiglierà»).
Sta di fatto che tale rappresentazione deve essere costruita e tale costruzione si deve intendere a tutti i livelli, logica, semiotica ed edilizia.
Prendiamo il caso che in una valle del Trentino si debba rappresentare il sentimento di appartenenza della popolazione ad una stessa comunità culturale: tale sentimento è innanzi tutto un sentimento storico, alimentato dalla memoria collettiva, come prodotto della memoria individuale, orale e scritta, dei membri di detta popolazione. La storia che li accomuna è in buona parte la storia di uno sforzo di emancipazione dalle miserie materiali cui la povertà della terra costringeva i suoi abitanti; di fatica e sofferenza, ma anche di creatività e coraggio dei protagonisti di numerose vicende individuali. A un certo punto tale storia locale è investita dagli eventi della Grande Guerra, che intrecciano il loro destino universale con quello particolare dei pastori e dei contadini/soldati, delle loro donne, mamme, mogli e fidanzate, dei vecchi e dei bambini delle montagne. Le trascrizioni letterarie dei sentimenti popolari, i racconti reali e di fantasia, gli aneddoti si meticciano con i piccoli e grandi accadimenti della guerra, che offre un volto globale alle rappresentazioni grottesche che le leggende popolari danno dell’imprevedibilità del destino dell’uomo.
Come le cicatrici di un vissuto individuale, la storia segna il territorio delle tracce degli eventi che produce. Il territorio è disseminato dagli oggetti di una nomenclatura militare (vale sempre il «nomina sunt res» (Semerani 2003)): forte, casamatta, posto di osservazione, bunker, postazione di artiglieria, trincea, galleria. Il compito dell’architettura è stabilire relazioni originali tra oggetti esistenti: la sua difficoltà e complessità risiede nel tipo di originalità, la quale precipita nella relazione sincretica tra fatto esperito e modello di lettura. La prima ragione di complessità riguarda la scelta del tema o dei temi. Valgono gli assunti di Aldo Rossi (1967) – «noi siamo per un’architettura dell’“a-priori”» – o di De Chirico – «la mente vergine è cieca». Il metodo è, di nuovo e sempre, “goethiano” detto di «fantasia oggettiva» (Goethe 1807) e fa capo ad una facoltà della mente, la facoltà associativa.
Esiste un luogo dell’immaginario collettivo come insieme delle rappresentazioni letterarie ed artistiche di un determinato fatto, cioè immagini descritte e raffigurate, che contenga unità formali composte da detti insiemi di oggetti nominati? Non direttamente. Ma si può pensare alla fortezza come macchina da guerra e allora ci si può chiedere che tipo di macchina e che tipo di guerra. Certo la macchina è una macchina e la guerra è una guerra, ma curiosamente esiste una letteratura che associa la macchina alla guerra, e specialmente alla Grande Guerra. Ci sono macchine ad «effetto spettacolare e meraviglioso» che raccontano la guerra come funzionale alla solitudine ed alla morte. O meglio, vi è una letteratura artistica che associa la macchina alla guerra proprio in quanto produttrice di solitudine e di morte, e di alienazione. Tali macchine sono dei prodigi della scienza e strutturalmente rappresentano i rapporti di potere di cui sono espressione. La «macchina del supplizio» (Szeemann 1989) della Colonia penale di Kafka ha, come le altre «macchine celibi», un piano superiore, luogo del potere e dell’autorità militare ed un piano inferiore, dove la vittima, un soldato dell’Impero austroungarico condannato per insubordinazione, giace disteso a pancia in giù ed il meccanismo perfetto di un pantografo trascrive con un erpice la condanna dalla mano del disegnatore/carnefice alla pelle del soldato/vittima. In «Locus solus» di Raymond Roussel, l’autorità militare si serve dei prodigiosi calcoli metereologici dello scienziato Canterel.
È facile tradurre i prodigiosi calcoli metereologici nella matematica delle trilaterazioni balistiche su cui sono misurate le distanze e le feritoie della fortezza del forte Corno. Più difficile è interrogarsi sul carattere cui questa riattivazione di segni e di significato deve dar corso. Perché se è vero che le macchine da guerra producevano solitudine e morte, è vero anche che sono pur sempre macchine ad «effetto meraviglioso e spettacolare», a tal punto che la riproduzione del meccanismo ha sempre affascinato il gioco dei bambini. Ed è vero che la leggerezza di alcune occupazioni quotidiane può essere trascritta poeticamente: il luogo da cui partivano i messaggi dei piccioni viaggiatori diventa teatro di un idillio poetico-sentimentale se la speranza è innervata nella trascrizione piccione viaggiatore/colomba della pace.
I segni della nomenclatura militare compongono un brano di paesaggio (fortificato) in cui si confondono con e si affiancano a preesistenze ambientali che portano altri nomi comuni (cascata, torrente, dirupo, roccia) e propri (torrente Revegler, doss della Cavalla, rio Marach, pra Pur), che rimandano ad altre «assenze» di riferimento, ad altri «luoghi comuni» paesistici o stereotipi narrativi: Hirschfeld (Schepers 1980) classifica il paesaggio secondo la natura del luogo («Angenehme, muntere, heitere Gegend und Garten, Sanft melancholische Gegend und Garten, Romantische Gegend und Garten, Feirliche Gegend und Garten»); Edmund Burke (1757) annovera tra gli elementi che caratterizzano la sublimità di un luogo «i Suoni e il Fragore di cascate» e tra le immagini della Vastità le alte rocce, i precipizi verticali, le superfici scabrose e spezzate. William Kent (1987) dà forma a queste suggestioni letterarie disegnandole o costruendole: sulla sommità della roccia che delimita la cascata si erge il tempio del dio che la personifica. Le grotte che abitano i paesaggi romantici sono gli antri di una ninfa addormentata, piuttosto che la dimora del dio del fiume che le attraversa; se la breve volta imperfetta della galleria militare scavata sul limite settentrionale del parco diventa la rappresentazione grottesca del termine di un percorso iniziatico, il cerchio si chiude: le fatiche, le avventure, le sofferenze del passato sublimano nella luce della consapevolezza e nel racconto dei traguardi che la risolutezza di uno sforzo comune e la volontà di vita hanno saputo trarre dall’imprevedibile e dal tragico.
Ma noi non pensiamo, come dice Marcella Aprile (1993), che il paesaggio della narrazione sia un paesaggio che si compone di o per frammenti, ma piuttosto che indichi, come sempre, l’idea di una successione di parti autonomamente definite. La struttura della narrazione determinerà la posizione reciproca delle parti o la loro «distanza interessante».
Henry Focillon (1990) ci parla del potere di concentrazione della mano. È anche una tecnica del disegno: prima di far scorrere la mano sul foglio si deve visualizzare con l’occhio della mente l’immagine compiuta di ciò che si deve rappresentare. Ed è il motivo per cui penso che la trasmissibilità sia fisiognomica: la successione che va dalla scelta del tema alla determinazione delle figure che lo rappresentano, alla loro raffigurazione nella giusta posizione reciproca attiene ad una narrazione dell’espressione, scandita da corrugamenti della fronte, false partenze, pertinenza e risolutezza del gesto, ritmate dalle sospensioni e dai silenzi da cui le asserzioni appaiono per negazione. Ho sempre subito il fascino del modo in cui alcuni artisti/intellettuali/architetti compongono sul foglio bianco l’elenco delle determinazioni, siano esse in forma di parola o di figura simbolica, sia che si tratti del disegno di una conferenza, piuttosto che di un allestimento museale o di un’opera di architettura, una casa, un palazzo, una città, compatta o degli «ampi spazi», in estensione o di valle.
Penso che non si tratti di una fascinazione grafica, ma dell’apparire fragile ed istantaneo di un’utopia, della sua messa in scena ancora possibile. L’utopia è già quella «albertiana» di un principio d’ordine o di economia, nel senso del Tessenow, ma è ancor meglio e malinconicamente espressa da Ludwig Wittgenstein (1999, p. 27): «La civiltà è come una grande organizzazione, che indica a chiunque le appartenga il posto in cui può lavorare nello spirito del tutto, e la sua forza può a buon diritto essere misurata in base al risultato da lui ottenuto nel senso del tutto. Ma in un’epoca, come la nostra, di non-civiltà le forze si frantumano e la forza del singolo viene consumata da forze contrarie e da resistenze d’attrito, e non trova espressione nella lunghezza della via percorsa, ma forse solo nel calore generato superando tali resistenze. Energia però rimane energia, e anche se lo spettacolo che offre quest’epoca non è quello del divenire di una grande opera di civiltà, nella quale i migliori collaborano allo stesso grande scopo, ma lo spettacolo poco edificante di una moltitudine dove i migliori perseguono solo fini privati, non dobbiamo lo stesso dimenticare che non è lo spettacolo ciò che più importa.
E per quanto mi sia ben chiaro che la scomparsa di una civiltà non significa la scomparsa del valore umano, bensì soltanto di certi modi di esprimerlo, rimane però il fatto che io considero senza simpatia la corrente della cultura europea, né ho comprensione verso i suoi fini, ammesso che ne abbia».
Note
[1] Lezione seminariale di Antonio Monestiroli nell’ambito del Dottorato di ricerca in Composizione architettonica del dPa dipartimento di Progettazione architettonica dello IUAV in occasione della presentazione del suo volume dal titolo: La metopa e il triglifo: nove lezioni di architettura, Laterza, Roma 2002.
Bibliografia
APRILE M. (1993) – Dal giardino al paesaggio. Flaccovio, Palermo.
BARTHES R. (1982) – Il grado zero della scrittura. Einaudi, Torino.
BURKE E. (1757) – A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful.
CASSIRER E. (1942) – “Linguaggio e arte II”. In: Id. (1981) – Simbolo, mito e cultura. Laterza, Roma-Bari.
COSGROVE D. (1990) – Realtà sociali e paesaggio simbolico. Unicopli, Milano.
FOCILLON H. (1990) – Vita delle forme, seguito da Elogio della mano. Einaudi, Torino.
GADAMER H. G. (1985) – Verità e metodo. Bompiani, Milano.
GOETHE W. (1807) – “Sollecitazione significativa per una sola parola intelligente”. In: Id. (1983) – La metamorfosi delle piante. Guanda, Parma.
GOMBRICH E. (1978) – Arte, percezione, realtà. Einaudi, Torino.
GOODMAN N., QUINE W. V. (1947) – “Verso un nominalismo costruttivo”. In: Id. (1967) – La filosofia della matematica. Laterza, Bari.
GREIMAS A. J., COURTES J. (1986) – Semiotica Dizionario ragionato della teoria del linguaggio. La casa Usher, Firenze.
HUSSEY E. (1977) – I presocratici. Mursia, Milano.
KENT W. (1987) – Landscape garden designer: an assessment and catalogue of his designs. A. Zwemmer Ltd, London.
NIETZSCHE F. (2002) – La gaia scienza. UTET, Torino.
QUENEAU R. (1967) – I fiori blu. Einaudi, Torino.
ROSSI A. (1967) – “Introduzione a Boullèe”. In: Id. (1978) – Scritti scelti sull’architettura e la città, 1956-1972. CittàStudi, Milano.
ROSSI A. (1990) – Autobiografia scientifica. Pratiche, Parma.
ROSSI P. (1960) – Clavis Universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz. Ricciardi, Milano.
SCHEPERS W. (1980) – Hirschfelds theorie der Gartenkunst. Werner’sche Verlagsgesellschaft Mbh., Worms.
SEMERANI L. (2000) – “Il parco metropolitano del nord-est”. In: QUINTELLI C. (a cura di), S.S.9 via Emilia: progetti architettonici e nuovi luoghi lungo la via Emilia tra città e città. Abitare Segesta, Milano.
SEMERANI L. (2003) – “Interno veneziano (elogio della sezione)”. In: Quaderno del Dottorato di ricerca in Composizione architettonica del dPa dipartimento di Progettazione architettonica, IUAV, 17, febbraio.
SEMPER G. (1992) – Lo stile nelle arti arti tecniche e tettoniche, o Estetica pratica: manuale per tecnici, artisti e amatori. Laterza, Roma.
SZEEMANN H. (1989) – Le macchine celibi. Electa, Milano.
WITTGENSTEIN (1999) – Osservazioni filosofiche. Einaudi, Torino.