Il centro ovunque, la circonferenza in nessun luogo

Ugo Rossi




Que l’homme étant revenu à soi considère ce qu’il est au prix de ce qui est, qu’il se regarde comme égaré, et que de ce petit cachot où il se trouve logé, j’entends l’univers, il apprenne à estimer la terre, les royaumes, les villes, les maisons et soi-même, son juste prix.
Qu’est-ce qu’un homme, dans l’infini?[1]
Blaise Pascal

Il presente numero di FAM, nasce dalla volontà di indagare il fenomeno di rinascita dell’architettura regionale e identitaria nell’epoca della globalizzazione.

Dopo l’immotivata euforia per un mondo integralmente connesso e del possibile sviluppo economico globale, il successo delle politiche economiche e culturali, basate sul consumo e il consenso – sostenute dall’illusione dell’inesauribilità delle risorse e dall’imporsi di una cultura globale – sono giunte ad un vicolo cieco, così che, ai problemi geo-politici e culturali si aggiungono quelli che (da decenni) hanno messo in pericolo l’equilibrio planetario.

L’aumento della temperatura, lo scioglimento dei ghiacci, le siccità, le pandemie, sono solo alcuni degli effetti più evidenti dello sviluppo economico dei consumi e della globalizzazione, così altrettanto evidente è l’emergere dei fenomeni di radicalizzazione (tal volta estremista) per la difesa delle radici identitarie dei paesi esclusi dai benefici e dalle possibilità “garantite” dalla globalizzazione.

I fenomeni della globalizzazione così, da una parte hanno contribuito a condividere e diffondere, sotto ogni aspetto, i fenomeni economici e culturali, dall’altra però, tendono ad assimilarli indifferentemente, contribuendo all’annullamento delle differenze. In tale processo di azzeramento delle differenze, quello che Kenneth Frampton, definì Regionalismo critico, rappresenta oggi un fenomeno che riemerge con forza, per contrastare la diffusione dello sviluppo economico e culturale lineare e globale, che evidentemente, oggi più che mai, ha dimostrato di non garantire un mondo migliore, ma piuttosto, di essere dannoso per il futuro del pianeta (Schumacher 1973, Mattelart 2000).

Sebbene il processo di internazionalizzazione e globalizzazione sia in atto da tempi antichi, se non, a suo modo, preistorici (Childe 1974), è tuttavia evidente – fin dagli anni Cinquanta del XIX secolo – che lo “scontro” tra le convinzioni etnocentriche, riguardanti la linearità della sequenza occidentalizzazione-modernizzazione-sviluppo-progresso e quelle della pluralità delle culture sia divenuta ineludibile; tuttavia, negli anni Ottanta, Ted Levitt osservava che il problema della internazionalizzazione dei mercati si pone come problema che ignora la pluralità, così da affermare che è lontano il tempo delle differenze territoriali o nazionali. Le differenze dovute alla cultura, alle norme, alle strutture, sono vestigia del passato. La convergenza, tendenza di tutto e tutti a diventare come tutti, orienta il mercato verso una comunità globale e inoltre che, con sempre maggiore frequenza e in ogni luogo, i desideri e i comportamenti individuali tendono a evolversi allo stesso modo, si parli di Coca Cola di microprocessori, jeans, pizze, prodotti di bellezza o fresatrici (Levitt 1983); giungendo così al fatto che l’International Federation of Institutes of Advanced Studies, nel 1980 constatò che gli approcci classici allo sviluppo hanno violato il primo principio della dignità umana, quello secondo il quale gli esseri umani, così come la loro cultura, vanno trattati con il rispetto che è loro dovuto. La maggioranza dei responsabili dello sviluppo non ha fatto altro che trattare le persone e le culture come meri strumenti della crescita economica o come variabili manipolabili a piacere per acquisire un determinato cambiamento in base a determinati obiettivi. La grande maggioranza dei popoli ha radici culturali legate a particolari zone geografiche, una storia particolare, norme e valori particolari. La rivendicazione della diversità culturale non significa né rifiuto di condividere una responsabilità globale né spirito campanilistico (Galtung 1980).

Dove l’impostazione culturalista postulava delle società “tradizionali” in antitesi con le società “moderne”, il rovesciamento di tale prospettiva, recentemente in atto, ci ha svelato semplicemente che le società sono in continuo movimento e instabili, che incessantemente si rielaborano a causa delle conflittuali rinegoziazioni della propria identità (Lyotard 1979). Per quanto sia incerto l’esito di tale rovesciamento, appare evidente come questo sia una delle sfide più importanti per la costruzione del senso di appartenenza del mondo e, se le nuove forme di ridiscussione della nozione di sviluppo-progresso – con la conseguente riflessione sull’identità culturale quale matrice di un “futuro alternativo” – troveranno difficoltà ad affermarsi, decisiva e improrogabile, sarà l’irruzione dell’ecologismo come guida culturale per assumere la complessità, a dimensione globale, dei problemi dell’intera umanità e del pianeta. Risale Infatti al 1972 la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente (Stoccolma), in cui concordemente si puntò il dito sul carattere distruttivo e diseguale del modello di sviluppo e si indicò la necessità di ridefinire quest’ultimo a partire da un impiego delle risorse meno condizionato dall’eccesso dei consumi e dallo sfruttamento intensivo della natura.

La cultura architettonica del XX secolo affrontò la questione – prima internazionale poi globale – esprimendo e producendo una serie innumerevole di proposte ma, se da una parte le posizioni vertevano essenzialmente sul confronto e recupero, sulla conservazione, sulla continuità del patrimonio culturale del passato – vedi la fascinazione per le civiltà primitive e il riferimento alle architetture rurali, di montagna, rupestri e mediterranee del Movimento Moderno – dall’altra, in tempi più recenti, lo storico Kenneth Frampton, basandosi su uno scritto di Paul Ricoeur (1961), elaborò e definì il concetto di “Critical Regionalism”, esposto nella sua Modern Architecture: a Critical History (Frampton 1980). Nel libro, Frampton parla di Regionalismo critico come una delle possibili risposte alla questione esposta da Ricoeur e pone le basi per una riflessione sullo sviluppo di un’architettura regionalista in cui:

il termine “Regionalismo critico” non viene assunto per denotare il vernacolo, che un tempo era il prodotto spontaneo dell’interazione multipla tra clima, cultura, mito e mestiere, ma per identificare piuttosto quelle “scuole” regionali di recente formazione, la cui aspirazione principale era di rispecchiare e trattare gli specifici elementi costitutivi sui quali esse si fondavano. Fra gli altri fattori che contribuiscono alla formazione di un regionalismo di questo genere, non esiste solo una certa condizione di benessere ma anche una sorta di convergenza anti-centrista, o almeno un’aspirazione verso alcune forme di indipendenza culturale, economica e politica. (Frampton 1980, p. 313)

Così, se la discussione sull’architettura vernacolare originata dalla tradizione culturale e climatica locale appare superata, tuttavia, quella ben più ampia del fenomeno dell’universalizzazione e del «diffondersi sotto i nostri occhi di una civiltà mediocre e di una cultura elementare e semplificata», esposta nello scritto di Ricoeur, sono ancora tutte da indagare. Soprattutto, ciò che colpisce Frampton del passo di Ricoeur (1961), è che le culture regionali e nazionali oggi dovrebbero essere costituite da declinazioni locali di espressioni della cultura “mondiale” e che in futuro ogni cultura dovrà alimentarsi delle forme vitali delle culture regionali pur assumendo influenze esterne, sia culturali che di civiltà, in cui, da una parte saranno confermati i modelli della civiltà universale e dall’altra verranno proclamati i valori di una cultura motivata da elementi idiosincratici. D’altra parte, come scrive Ricoeur:

Nessuno può sapere cosa ne sarà della nostra civiltà quando avrà davvero incontrato civiltà diverse attraverso mezzi che non siano quelli dello shock della conquista e della dominazione. E dobbiamo ammettere che questo incontro, al livello di un autentico dialogo, non è ancora avvenuto […] Qui sta il paradosso: come diventare moderni e fare ritorno alle origini; come far rivivere una vecchia civiltà assopita e prendere parte alla civiltà universale. (Ricoeur 1961, p. 283, Frampton 1982, p. 371)

Se con tale paradosso la questione della sopravvivenza e valore delle diverse culture è da tempo sottoposta all’attenzione “mondiale”, un altro aspetto – la stessa sopravvivenza del pianeta – si impone a livello globale per la sua urgenza. Purtroppo, come risposta alle Conferenze sull’ambiente e ai Protocolli per la salvaguardia del pianeta, per convertire lo sviluppo lineare in quello sostenibile e circolare, gli architetti e gli urbanisti, in collaborazione con gli scienziati e i ricercatori dei laboratori più importanti al mondo[2], hanno elaborato proposte tecnologicamente sofisticate, quali le case intelligenti e le Smart Cities (Song, Selim 2022; Biswas, Dey, 2022). Nei fatti, l’uso dell’energia nelle Smart Cities – così come nelle case intelligenti – si avvale delle fonti rinnovabili, dell’intelligenza artificiale e di dispositivi tecnologici avanzatissimi, in grado di processare enormi quantità di dati che, applicati ad un progetto urbano efficiente, con elementi progettuali passivi, ottiene risparmi del 70% rispetto alle “tradizionali” case e metropoli; tuttavia, le Smart Cities, costruite dal nulla e completamente prescrittive – in esse tutto è regolato, definito, monitorato e calcolato – in realtà sono prodotti costosissimi; in queste città, come afferma Richard Sennett (2018), invece di far diminuire il costo di edificazione, questo aumenta.

A distanza di quaranta anni dallo scritto di Frampton e di quasi sessanta dalle affermazioni di Ricoeur, dopo che il processo di semplificazione e di internazionalizzazione culturale ha assunto proporzioni planetarie, oggi definite “globali”, agli autori dei saggi, sono state poste le seguenti domande come traccia di riferimento comune:

  1. Esiste oggi un’architettura regionale?
  2. A quale scopo parlare di architettura regionale oggi?
  3. Quale significato assume oggi l’architettura regionale?
  4. Perché, in quale contesto e in quale occasione l’architettura regionale è ancora attuale?
  5. In termini di processo progettuale, l’architettura regionale in cosa differisce da quella internazionale e/o globale?
  6. Esiste una architettura globale? 
  7. Possono coesistere soluzioni specifiche e diversificate, per la sopravvivenza delle diversità tra le popolazioni e le culture del mondo, in contrasto ai problemi economico-sociali e Globali?
  8. È possibile parlare ancora di architettura autentica e autoctona nell’epoca del consenso e della cultura Globale?
  9. È possibile conciliare il “modello” della casa sostenibile e della Smart City – con tutto il loro sofisticato apparato tecnologico – in un pianeta diversamente sviluppato?
  10. Come può essere adottato questo “modello” nei paesi poveri?
  11. Come può essere adottato questo “modello” nei paesi ricchi di storia e di architetture antiche? Quale destino avranno le architetture e le città storiche, che spesso non possono essere trasformate in Smart City o in edifici a basse emissioni, ad alta efficienza tecnologica e a risparmio energetico?
  12. Quali altri modelli per diversificare le risposte, in relazione alle particolari necessità-possibilità dei diversi Paesi, sono in via di sviluppo o già esistono?

Agli autori, Ray Bromley, Luigi Coccia, Alberto Ferlenga, Kenneth Frampton, Anna Bruna Menghini, Ludovico Micara, Nicola Pagnano, Ugo Rossi, Ettore Vadini, è stato chiesto di fornire riflessioni, studi e ricerche, esperienze e testimonianze che affrontino i quesiti, o di estenderne le problematiche.

Kenneth Frampton, ha partecipato al numero della rivista rispondendo ai quesiti sotto forma di intervista.

Note

[1] L’uomo consideri ciò che egli è di fronte a ciò che c’è, osservi sé stesso come smarrito in quest’angolo marginale della natura; e da questo piccolo carcere in cui si trova a vivere – io intendo l’universo – impari a dare alla Terra, ai reami, alle città e a sé stesso, il loro giusto valore. Che cos’è un uomo nell’infinito? 

[2] Si vedano gli studi e le ricerche compiute presso il Media Lab del MIT, Mitchell (1996).

Bibliografia

BISWAS M. , DEY P., ISLAM M. , & MANDAL S. (2022) – Mathematical Model Applied to Green Building Concept for Sustainable Cities Under Climate Change. Journal of Contemporary Urban Affairs,6(1), 36-50.
https://doi.org/10.25034/ijcua.2022.v6n1-4

CHILDE V. Gordon (1963) – Social Evolution. C.A.Watts & Co Ltd, London.

CHILDE V. Gordon (1974) – L’evoluzione delle società primitive. Editori riuniti, Milano.

FRAMPTON K. (1980) – “Critical Regionalism: modern architecture and cultural identity”. In: Id., Modern Architecture: a Critical History, Thames and Hudson, London.

FRAMPTON K. (1982) – Storia dell’architettura moderna. Zanichelli, Bologna.

GALTUNG J., O’ BRIEN P., PREISWERK R. (1980) – “Global Development: The End of Cultural Diversity”. In: Id., Self-reliance: A strategy for development. Bogle-L’Ouverture Publications, London.

LEVITT Ted (1983) – The Marketing Imagination. Free Press, New York.

LEVITT Ted (1983, June) – “The Globalization of Markets”. Harvard Business Review.

LYOTARD J-F. (1979) – La condition postmoderne: rapport sur le savoir. Les Editions de minuit, Paris.

MATTELART A. (2000) – L’histoire de l’utopie planétaire. De la cité prophétique à la société globale. La Découverte, Paris.

MITCHELL W. (1996) – City of Bits. MIT Press, Cambridge.

RICOEUR P. (1961) – “Universal Civilization and National Cultures”. In: Id., History and Truth, Northwestern University Press, Evanston.

SCHUMACHER E. F. (1973) – Small is Beautiful: Economics as if People Mattered. Harper and Row, New York.

SENNETT R. (2018) – Building and Dwelling, Ethics for the City. Farras Strauss & Giroux, New York.