USA: l’immagine del nostro avvenire?

Ugo Rossi




Das industriell entwickeltere Land zeigt dem minder entwickelten nur das Bild der eignen Zukunft[1]. (Marx 1867)

L’attuale epoca dei consumi, caratterizzata dalla globalizzazione, dallo smantellamento delle sicurezze e da una vita di incertezze, sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa, viene descritta da Zygmunt Bauman, la Liquid modernity (2000). Analogamente a quanto pochi anni prima, Jean-François Lyotard, riconosceva nella condizione postmoderna (1979) in entrambi i casi si indicava come fatto saliente l’impossibilità di individuare alcun centro di riferimento.

 All’opposto, più recentemente, Richard Florida (2003), afferma che i centri di riferimento di oggi sono molti e coincidono con quei particolari luoghi capaci di attirare, stimolare e incoraggiare le nuove e crescenti generazioni di creativi. Paradossalmente però, questo articolo individua gli Stati Uniti d’America – il migliore dei mondi possibili (Rossi 2019) – come centro di riferimento e modello per la cultura capitalista, consumista e globale. Un modello che, come tale, anticipa ciò che avverrà o sta avvenendo nel resto del pianeta, concordemente a quanto affermava Karl Marx alla fine del XIX secolo, per cui «Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del proprio avvenire» (Marx 1867, Prefazione).

Gli Stati Uniti come modello di riferimento culturale dell’Occidente trovano conferma nella storia del Millennio appena concluso, soprattutto perché, come scrivono Stephen Gundle e Marco Guani (1989), bisogna tenere in considerazione il fatto che

Nessun altro paese nel ventesimo secolo è stato in grado di competere con la crescente influenza e con l’ascendente che gli Stati Uniti hanno avuto sul mondo contemporaneo. Se pure si può argomentare che la potenza politica e militare americana raggiunse il suo apice nel 1945, quando l’esclusività nel possesso della bomba atomica, la vittoria militare e una straordinaria capacità economica e finanziaria produssero un’egemonia globale senza precedenti e senza seguito, per altri aspetti l’importanza degli Stati Uniti nel mondo occidentale è probabilmente maggiore oggi che non quarant’anni fa. (Gundle-Guani 1989)

Gli Stati Uniti, infatti, sono da tempo una solida e potente Nazione democratica, che ha conosciuto nel corso dell’ultimo secolo un enorme sviluppo economico tecnico-scientifico e culturale, ma soprattutto è la Nazione che, con il suo intervento, ha cambiato le sorti di entrambi i conflitti mondiali.

Tuttavia, l’incontrastato sviluppo e diffusione della cultura americana non è dovuto al loro determinante intervento per vincere entrambe le Guerre Mondiali; né tantomeno, perché non subirono nessun attacco nemico, tanto da poter mantenere in patria tutte le attività ai vertici dello sviluppo; né infine, perché negli Stati Uniti emigrarono i più importanti esponenti in tutti i campi dello scibile umano per fuggire da un’Europa funestata dalle persecuzioni naziste e dalle dittature.

Le ragioni per cui gli Stati Uniti diventarono la potenza che sono, economica, scientifica e culturale, sono piuttosto da ricercare nella continua profusione di ingenti energie e risorse per affermarsi come modello di vita – la cosiddetta American way of life – dal periodo della Cold War (Orwell 1945)[2], fino ad oggi.

Solo in parte, infatti, si conosce la diffusione dell’American Way of Life come l’esito di un’enorme impresa, compiuta dal 1947 al 1959 (Rossi 2019), la cui finalità fu quella di promuovere, informare e conquistare, con i mezzi della persuasione, della seduzione e del soft power, i Paesi devastati dalla Seconda Guerra Mondiale o quelli che ancora non avevano scelto quale modello adottare – tra Comunista e Capitalista – per la ripresa e la ricostruzione economica, fisica e morale.

Cosa si intende per soft power, lo spiega Joseph S. Nye in una sua pubblicazione dal titolo significativo, Bound to Lead. The Changing Nature of American Power (1990): è la facoltà di realizzare obiettivi prefissati in materia di relazioni internazionali attraverso la seduzione più che attraverso la coercizione (Mattelart, 2000).

La diffusione e conquista culturale mondiale degli Stati Uniti viene pienamente percepita nel periodo della ripresa e del boom economico degli anni Sessanta-Settanta, quando gli effetti delle politiche dell’European Recovery Program (ERP) e dell’Organization for European Economic Cooperation (OEEC) – il cosiddetto Marshall Plan (1948-1952) – si fecero evidenti.

Come conseguenza delle politiche ERP-OEEC e delle strategie del Soft Power, dalla fine degli anni Cinquanta, frigoriferi, forni elettrici, lavatrici, lavastoviglie, apparecchi radiofonici, televisori, film, frullatori, aspirapolvere, supermercati, drive-in, fumetti, cartoni, Jeans, Coca-Cola, Pepsi-Cola, fast food – oggetti comunemente in uso negli Stati Uniti fin dagli Anni Trenta – divennero disponibili. Così, l’American Way of Life, garantendo prosperità e libertà, si diffuse e conquistò il Mondo.

Il fascino e la seduzione delle merci degli Stati Uniti cambiarono radicalmente il modo di vivere degli europei e dei Paesi impegnati nel processo di ricostruzione e ripresa economica. Le merci, i beni, le diverse modalità per cucinare, conseguenti all’utilizzo del microwave, del freezer e dei cibi congelati, così come l’utilizzo degli elettrodomestici, contribuirono a modificare il modo di vivere e, così pure, l’architettura e le città.

Questa invasione di prodotti e la colonizzazione culturale degli Stati Uniti portò tuttavia molti Paesi, sottoposti a questo fenomeno, a sentirsi minacciati, originando così il timore dell’avvento di una società unica e una cultura omologa – internazionale e multinazionale prima, planetaria e globale poi – e del «diffondersi sotto i nostri occhi di una civiltà mediocre e di una cultura elementare e semplificata» (Ricoeur, cit. in Frampton 1982, p. 371), fondata sul consumo di massa. Tali timori trovarono espressione, soprattutto dagli Anni Sessanta, nelle riflessioni di Paul Ricoeur (1961), Jean Baudrillard (1968, 1970, 1986), Gilles Deleuze, Felix Guattari (Deleuze-Guattari, 1972), Armand Mattelart (Dorfman-Mattelart 1972, Mattelart 2001) e di molta della intelligentia del tempo. Venne così emergendo una vera e propria avversione e contrapposizione tra la “cultura” del vecchio continente, e l’“incultura” del nuovo mondo; tuttavia,

Al di fuori degli Stati Uniti la gente probabilmente non berrebbe Coca-cola piuttosto che una qualsiasi altra bevanda frizzante, non indosserebbe i Levi’s invece di altri calzoni pesanti di cotone, né mangerebbe gli hamburgers al posto di altri spuntini (non almeno in tali grandi quantità) se non associasse tutte queste cose ad uno stile di vita attraente. (Gundle-Guani 1986, p. 562)

Di fatto, già dopo il primo conflitto mondiale, l’idea che l’Europa fosse la guida culturale e centro del mondo era oramai superata.

Mentre nel 1919 Paul Valéry scriveva: 
Tutto è arrivato in Europa e tutto è venuto da essa. O quasi tutto. Tuttavia, l’oggi implica questa domanda cruciale: l’Europa manterrà la sua preminenza in tutti i generi? L’Europa diventerà ciò che è veramente, ovvero: un piccolo capo del continente asiatico? O l’Europa rimarrà ciò che sembra, cioè la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo?

il filosofo tedesco Oswald Spengler aveva inaugurato la breve era di pace, successiva al primo conflitto mondiale, con la pubblicazione de Il tramonto dell’Occidente (1918), in cui prefigurava la fine dell’Europa come centro della civiltà occidentale, causata non solo dalla massificazione e dalla perdita delle identità – in cui all’individuo si sostituisce la massa – ma anche e soprattutto perché entrava in crisi la sua supremazia economica, culturale e militare. L’Europa, infatti, non aveva più la forza di comandare il mondo e inoltre, era il resto del mondo che non voleva più essere comandato dall’Europa (Mattelart 2000).

Sarà soprattutto la politica punitiva dei trattati di Versailles – che umiliando la Germania e riducendo l’Austria, da importante centro politico di un impero multietnico e poliglotta, ad una piccola Nazione – a suscitare e fomentare sentimenti di rivincita e risentimento, sviluppando politiche nazionaliste, neutralizzeranno così ogni speranza per l’unità politica e per il presunto primato culturale Europeo.

José Ortega y Gasset nel suo libro, La rebelión de las masas (1930), non accettava il tramonto dell’Europa pronosticato dallo Spengler e, inoltre, era in disaccordo con chi affermava che l’avvenire della civiltà sarebbe stata consegnata all’America, negandole la capacità di ereditare il ruolo di faro spirituale del mondo.

Tuttavia, la storia darà ragione proprio a Paul Valéry, il quale affermava che in caso di deflagrazione mondiale, l’unica nazione in grado di preservare la cultura occidentale sarebbe stata proprio l’America, «la più favolosa creazione dello spirito europeo» (Mattelart 2000, p. 225).

Storiograficamente, la cultura americana è stata considerata come dipendente e discendente della cultura delle Nazioni colonizzatrici che dominarono il Nuovo Mondo. Una visione condizionata dalla storiografia occidentale, la quale aveva eletto l’Europa come centro di riferimento in rapporto al quale veniva costruita la storia dell’intera umanità. In tale direzione, anche la cultura architettonica americana ha subito questo destino.

La progettazione urbana dei primi insediamenti in America assunse un ruolo determinante per la stabilizzazione degli imperi coloniali delle potenze europee in lotta per la conquista del Nuovo Mondo (Reps 1965); inoltre, il Nuovo Mondo fu anche il luogo per sperimentare e attuare le utopie socialiste (Cabet 1840) e millenariste (Kruft 1989) degli europei. Così, se l’origine dell’architettura e delle città americane discendevano dall’applicazione dei modelli dei colonizzatori europei (Reps 1965), l’architettura moderna americana fu originata dalla “colonizzazione” dei maestri europei, grazie alla presenza e all’impulso di coloro che, negli anni Trenta, emigrarono negli Stati Uniti per fuggire dalle dittature e dalle persecuzioni razziali in atto in quegli anni in Europa[3].

A parte la breve parentesi dei grattacieli, delle grandi costruzioni industriali e delle infrastrutture – tanto decantate da Loos (1921), Le Corbusier (1923, 1937) e Mendelshon (1926) – a lungo si è pensato che, come la cultura, anche l’architettura americana fosse condizionata, originata e dipendente da quella europea. Infatti, come notarono Peter Blake (1993, 1996)[4] e Tom Wolfe (1981), finita la Seconda Guerra Mondiale gli istituti universitari e le scuole di architettura in America si adeguarono ai principi di Mies, di Gropius e della Bauhaus.

Mentre, prima dell’arrivo dei maestri europei, le Scuole “moderne” in America non erano più di due – la Taliesin di Frank Lloyd Wright e la Cranbrook di Eliel Saarinen (trasferitosi negli Stati Uniti nel 1923) – negli anni Quaranta lo erano diventate pressoché tutte. Il sistema d’insegnamento americano – precedente all’arrivo dei maestri europei – che era ispirato all’Ecole des Beaux-Arts, sembrava non esistere più e chi l’aveva sostenuto seguiva allora tutt’altri orientamenti (Blake 1993, p. 44).

Mies van der Rohe giunse negli Stati Uniti nel 1937, grazie ad un invito del giovane Philipp Johnson, per costruire una country-house per Stanley Resor in Jackson Hole, Wyoming e nel 1938 si stabilì definitivamente in America, accettando l’invito di John Holabird di diventare il direttore della School of Architecture all’Armour Institute di Chicago (successivamente, Illinois Institute of Technology).

Walter Gropius dopo l’allontanamento dal Bauhaus, a causa delle sue simpatie politiche di sinistra, riparò a Londra, dove lavorò con Maxwell Fry dal 1934 al 1937. Nel 1937 venne invitato negli Stati Uniti presso la Graduate School of Design ad Harvard, dove diventò direttore della sezione di architettura dal 1937 al 1952. Nel 1937 venne inoltre invitato dal MoMA per organizzare la mostra Bauhaus: 1919-1928[5].

L’eredità del Bauhaus trovò particolare ospitalità presso il Black Mountain Institute, fondato nel 1933 nel North Carolina, dove lavorarono come professori Josef e Annie Albers, e lo stesso Gropius (Harris 1987).

Herbert Bayer, direttore della sezione di stampa e grafica presso la Bauhaus, emigrò negli Stati Uniti nel 1938, dove venne invitato da Alfred H. Barr, Jr. – direttore del MoMA – ad applicare le sue teorie sull’esposizione e l’installazione museografica nelle mostre del MoMA Bauhaus: 1919–28, Road to Victory e Airways to Peace[6].

Nel 1932 il MoMA di New York aveva organizzato la mostra The Modern Architecture: International Exhibition[7], curata da Henry-Russel Hitchcock, Philip Johnson, Alfred H. Barr e Lewis Mumford con cui si documentò la nascita e lo sviluppo dello stile moderno, che da quel momento divenne “International Style” (Hitchcock-Johnson 1932). Una mostra che più di ogni altra iniziativa aveva promosso il Movimento Moderno (soprattutto europeo) in America (Riley 1992). È da questa situazione che l’International Style divenne il “nuovo stile americano”, come hanno sottolineato Tom Wolfe (1981) e Peter Blake (1996).

A quel tempo, le pubblicazioni più importanti avevano il proposito “didattico” di avvicinare il pubblico e gli architetti al “nuovo stile”, come The International Style: Architecture since 1922 (Hitchcock-Johnson 1932); An Introduction to Modern Architecture (Richards, 1940); What is Modern Architecture? (Bauer Mock-McAndrew 1942), o ancora, di testimoniarne la diffusione come in An outline of European architecture (Pevsner 1943); Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries Modern Architecture (Hitchcock 1958), infine, di presentarne i maestri come in Pioneers of the Modern Movement, from William Morris to Walter Gropius (Pevsner 1936).

Queste pubblicazioni e storie dell’architettura dedicarono poco spazio all’America e ancor meno ai suoi maestri.

Henry Hobson Richardson, Henry Louis Sullivan, Frank Lloyd Wright erano parte di capitoli marginali, tra Romantico, Art Nouveau e proto-moderno. Come affermò Lewis Mumford nel suo The Brown Decades (1931), «Non disponiamo ancora di una approfondita, autentica, intelligente storia dell’architettura americana» (Mumford 1977, p. 166).

Con la pubblicazione di Verso un’architettura Organica del 1945 e la successiva Storia dell’architettura moderna del 1950 di Bruno Zevi, si ha testimonianza di un primo originale accostamento ed esaustivo studio dell’architettura e dei maestri americani.

Per la prima volta, nella storia dell’architettura, le figure e il pensiero architettonico americano assunsero un ruolo determinante e paradigmatico per osservare e interpretare lo sviluppo dell’architettura moderna.

Come scrisse Zevi (1945),

Storie dell’architettura moderna sono uscite in gran numero negli ultimi anni in America e in Inghilterra ed alcune di esse sono eccellenti. Ma in generale queste storie si chiudono dopo aver trattato della prima generazione di architetti moderni, dei maggiori maestri che lavorarono, specie in Germania e in Francia […] Il mio proposito è invece di ricercare una direttiva nell’architettura degli anni più recenti; più che di storia, si tratta perciò di cronaca, ma pare evidente che in essa già possa scorgersi un atteggiamento intellettuale e artistico verso l’architettura degno di essere esposto. I migliori architetti contemporanei vanno verso un genere di architettura cui qui si è dato il nome di organico. (Zevi 1945, pp. 11-12)

Il significato di organico, nel libro di Zevi (1945, pp. 63-64), viene mutuato dalle parole di William Lescaze:

Organico è la parola che F. L. adopera per descrivere la sua architettura […] L’aggettivo fu per la prima volta applicato all’architettura da Louis Sullivan […]. Secondo quanto Claude Bragdon […] spiegò […], l’architettura mondiale nella sua storia presenta un inevitabile dualismo, perché è stata o organica (cioè che ha seguito la legge degli organismi naturali) o predisposta (composta secondo qualche ideale euclideo inventato dall’uomo). (Lescaze 1942, pp. 78-79)

Con Zevi, Wright e la poetica Organica degli architetti della Bay Region, di Aalto e dell’Empirismo Scandinavo, diventarono i punti di riferimento dell’architettura Moderna; non più il macchinismo di Giedion e Gropius, dei CIAM e di Le Corbusier. L’America fu per Zevi, l’epicentro culturale, il paese, capace di proporre un’alternativa ai presupposti scientifici, ai regolamenti dell’Existenzminimum e dei CIAM[8].

Oltre al punto di vista di Zevi, Blake, nel suo The Master Builders (Blake 1960), ebbe addirittura il “coraggio” di accostare Frank Lloyd Wright a Mies e Le Corbusier, affermando che nessun edificio moderno costruito oggi avrebbe l’aspetto che ha se non fosse per le opere di questi tre maestri (Blake 1960, pp. 17-18).

Tuttavia, la cultura architettonica americana ancora stentava a definirsi come indipendente e ad emanciparsi da quella europea, come testimonia l’importante mostra del MoMA, Modern Architecture U.S.A. del 1965[9].

La mostra, curata dal direttore del dipartimento di architettura e design del MoMA, Arthur Drexler, succeduto a Philip Johnson nel 1956, era dedicata ai contributi degli architetti “americani” al Movimento Moderno, ma, a parte il lavoro di Frank Lloyd Wright, Greene & Greene e Irvin Gill, la maggior parte degli architetti selezionati per rappresentare l’architettura moderna americana erano gli stranieri emigrati negli USA. Un altro aspetto “debole” della mostra era la completa esclusione delle “autentiche” conquiste dell’architettura americana; le stazioni ferroviarie, i grattacieli, i Bowling Alleys, i Mall, i Drive-in e i Motel... Questo fu quanto fece notare Reyner Banham (1965) in un articolo dedicato alla mostra.

Banham considerava riduttiva la scelta di Drexler di presentare un repertorio di pietre miliari della modernità International Style, ignorando, al contrario, l’architettura più rappresentativa degli Stati Uniti; quella più “popolare” e visibile, on the road, a cui, fin dal 1932, Frank Lloyd Wright ne riconosceva il ruolo centrale per la costruzione delle “nuove” città:

La stazione di rifornimento delle rotabili può essere in embrione il futuro centro distributivo della città. Ogni stazione può benissimo svilupparsi in un ben progettato, conveniente centro di distribuzione di zona che diverrà, del tutto naturalmente, un luogo di convegno, un ristorante, una sala di riposo o qualsiasi altra cosa possa rendersi necessaria col progredire e l’affermarsi del decentramento e della reintegrazione. Già centinaia di migliaia di queste stazioni di rifornimento hanno occupato i punti migliori nelle cittadine o, cosa anche più importante, a notevole distanza dai centri abitati. (Wright, 2016, p. 293)

L’opinione di Drexler, era che certamente Motels, Supermarkets, Bowling Alleys, Oil stations, Hamburger Stands erano architetture diffuse e popolari negli USA, ma di certo, non erano le più rappresentative e degne di essere esposte al MoMA; d’altra parte, il museo aveva sempre e solo dato spazio all’architettura “alta” e “colta”.

Come testimonia Peter Blake nella conferenza di Melbourne (Blake 1971), egli era, come molti altri, del parere che non esistesse «Paese più volgare e banale degli Stati Uniti: gli Stati Uniti di Las Vegas e di Los Angeles, dei sordidi chioschi sparsi lungo le autostrade, della pubblicità» (Blake 1973, p. 55).

Anch’egli, come Drexler, deplorava la volgarità e l’inquinamento visivo che deturpavano il paesaggio, le strade e le città americane – e nel 1963 aveva pure scritto un libro su questo argomento, God’s own junkyard (Blake 1963) – tuttavia, a Melbourne, affermò che

i tipi come me andavano in giro a fare conferenze contro questo genere di cose, concludendo che un Paese capace di produrre una quantità così pazzesca di spazzatura non valeva la pena di essere salvato (Blake 1973, p. 55).

Ma dovette cambiare idea. Nonostante tutto, bisognava ammettere che

il fenomeno più interessante degli ultimi dieci o vent’anni nel campo delle arti […] sia stato la nascita della Pop Art – o meglio l’aver scoperto in ciò che una volta consideravamo futile e volgare una enorme risorsa inesplorata (Blake 1973, p. 55).

In ogni caso, prima di poter percepire un cambiamento sostanziale tra le storie dell’architettura con un punto di vista “europeo” e uno “americano”, bisognerà aspettare le pubblicazioni dello storico dell’architettura americano Vincent Scully Jr. (1961, 1969).

La sua prima storia dell’architettura, Modern Architecture (Scully, 1961), fu un primo passo, ma con American Architecture and Urbanism (1969), Scully affrontò l’architettura americana dalla preistoria, osservando quanto essa influì sui Conquistadores, come nel caso delle chiese di San Esteban ad Acona, del 1630 circa, o San Francisco a Rachos de Taos del 1772, nel New Messico.

In American Architecture Scully studiò i tratti di originalità della cultura architettonica americana, stabilendone l’indipendenza da quella europea, individuando e distinguendo ciò che era “americano” da ciò che era “europeo”. Se tutto questo non bastasse, nell’introduzione di Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi (1966, p. 6), Scully definì il libro di Venturi come il più importante testo di architettura del Novecento dopo Vers une Architecture di Le Corbusier (1923).

Furono infine, proprio Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, che con Learning From Las Vegas (1972), contestarono la differenza tra cultura colta e cultura volgare, rivendicando la legittimità di poter amare al contempo il manierismo italiano e l’architettura vernacolare americana come espressioni autentiche di una cultura e di una civiltà, opponendosi così alle concezioni elitarie espresse pochi anni prima da Blake e Drexler.

Quanto scrissero Tom Wolf in Las Vegas. What? Las Vegas Can’t heart you! Too Noisy (1964) e Rayner Banham in Towards a million-volt light and sound culture (1967), chiarisce quanto il clima culturale fosse cambiato. Secondo loro Versailles e Las Vegas erano l’autentico modello della città moderna della storia occidentale e così, quanto diedero avvio la Scott Brown Izenour e Venturi con i loro studenti, non fu solo lo studio della singola città di Las Vegas, ma di tutte le città del mondo che, prima o poi, si sarebbero sviluppate in funzione dell’automobile, della pubblicità, degli Shopping Centers, dei Fast Food, delle Gas Stations, così meravigliosamente progettate, descritte, studiate e testimoniate da Wright (1932), Rusha (1963), Wolfe (1964), Banham (1971), Scott Brown, Izenour, Venturi (1972), Blake (1963) e molti altri.

La rivendicazione di indipendenza, il taglio del cordone ombelicale dell’architettura americana da quella europea, era definitivamente sancito.

L’America aveva i suoi pionieri, i suoi eroi, i suoi maestri, i suoi poeti, le sue scuole, la propria storia e infine, la propria tradizione (Wrenn-Mulloy, 1976).

Passati appena quarant’anni da queste prime manifestazioni di consapevolezza e indipendenza culturale, nel 2014, diversamente dalla mostra del MoMA Modern Architecture U.S.A. del 1965, in occasione della XIV mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, nel padiglione degli Stati Uniti si dava “dimostrazione” della diffusione dell’architettura americana nel mondo in tre cataloghi.

Il primo, OfficeUS Atlas – di ben 1230 pagine – (Gilabert-Kubo,-Miljački-Schafer 2014) consiste di un’ampia ed esaustiva selezione di articoli d’epoca, a testimonianza dei lavori degli architetti americani overseas; di articoli e saggi sulla struttura organizzativa (business management) degli studi americani; di una serie di schede sugli architetti nazionali, e molto altro. Il secondo catalogo, OfficeUS Agenda (Gilabert-Lawrence-Miljački-Schafer 2014), contiene saggi sulle “competenze manageriali” degli architetti americani; sulla cooperazione internazionale compiuta dagli architetti degli Stati Uniti in terra straniera[10] e sul ruolo dell’architettura americana come ambasciatrice dell’America nel mondo.

Nell’ultimo catalogo della mostra, OfficeUS Manual (Gilabert-Miljački-Carrasico-Reidel-Schafer 2014), si mostrano al mondo le “buone pratiche” degli studi americani per ottenere successo; un vero e proprio manuale di business management per gli architetti.

Fu così che nell’esposizione della XIV mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, il visitatore del padiglione USA veniva letteralmente investito dall’enorme quantità di progetti che gli architetti americani avevano realizzato in ogni dove. Una vera e propria rivelazione.

Tuttavia, la percezione e consapevolezza che l’architettura americana, così come il primato in ogni altro campo, fosse già un fenomeno globale, non necessitava di alcuna dimostrazione.

 Come affermava Armand Mattelart (2000), l’unico paese che, per il suo potere d’influenza, meritava il nome di “società globale” erano proprio gli Stati Uniti. Per maturità, la società americana era la società che illuminava il cammino delle altre nazioni. In termini politici ormai, non si poteva più parlare di “imperialismo culturale” degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo per il fatto che la loro industria culturale e i loro modelli di organizzazione erano di per sé universali. Quello che gli Stati Uniti proponevano era un modello globale di modernità, un modello di comportamento e di valori destinato ad essere imitato su tutto il pianeta. Cosicché, Mattelart, prospettava la nuova società globale come un’estrapolazione dell’archetipo nato e cresciuto nel Nuovo Mondo.

Nel campo architettonico è sufficiente considerare quanto si è diffusa la pratica costruttiva del grattacielo. In origine, autentico archetipo americano e costruzione esclusivamente americana – gli unici esempi di edifici alti, prima del 1920, erano visibili solo a New York e Chicago – oggi i grattacieli sono le “nuove” costruzioni più diffuse nel pianeta.

Il grande successo del grattacielo deriva essenzialmente dalla sua simultanea rappresentatività di modernità, simbolicità e di Reklame Arkitectur (Hilberseimer 1927), poiché «The Medium is the Massage» (McLuhan 1967). Questo fenomeno però non ha nel grattacielo l’unico protagonista. L’enorme successo delle catene di alberghi, di abbigliamento, di Fast Food, di Supermercati, di centri commerciali, di sedi per uffici delle multinazionali – altri edifici “originariamente” americani – sono anch’essi oggi globalmente diffusi, facendo registrare così la loro crescente adozione in contesti geografici molto differenti e favorendo soprattutto, la formazione di paesaggi urbani che vanno via via negando le loro originarie peculiarità e contribuendo alla formazione di luoghi che il sociologo francese Marc Augé ha definito Non-Lieux [non luoghi](1992); costruzioni elette per rappresentare le società moderne o in via di sviluppo, soprattutto per la loro attitudine atopica, per le loro doti di essere ripetute – di poter trasmigrare – in qualsiasi parte del mondo senza eccezioni. Fenomeno questo, rasserenante e al contempo alienante. Rasserenante perché protegge dal “rischio” della “sorpresa” di contesti ambientali “diversi” e “sconosciuti”; alienante perché luogo universale, ovunque uguale.

Nel corso dei primi anni di questo terzo millennio, si registra la crescente realizzazione di edifici con il deliberato ricorso tanto a eccezionali e ardite soluzioni costruttive, quanto a sofisticate tecniche che le rendono possibili, e che consentono di creare contesti ambientali esplicitamente artificiali e svincolati dalle condizionanti situazioni locali.

Alle attuali linee della ricerca progettuale ed al tipo di tecnica che le rende attuabili, sembra essere sottesa la convinzione che i modelli edilizi non debbano necessariamente essere radicati ai contesti locali (e questo è ciò che si è apprezzato, il pregio che ne ha decretato il grande successo e diffusione globale), così che, è venuto a mancare il legame con le realtà locali.

A partire dagli anni Cinquanta e con crescente intensità, negli Stati Uniti si moltiplicarono interventi edilizi caratterizzati da opere ad altissimo tenore tecnologico. Oltre ai già citati grattacieli, nei laboratori del MIT si svilupparono studi e prototipi per case ad energia solare (Barber 2014, 2016) e case prefabbricate e componibili di plastica (Behrendt 1958; Plastic Houses 1956), successivamente – presso il Media Lab del MIT – con lo straordinario sviluppo delle tecnologie digitali, dell’Intelligenza Artificiale e della domotica, si poté pensare alle case autosufficienti e alle Città dei Bits: le Smart Cities (Mitchell 1995).

Si è notato (McLuhan 1962) che l’alfabetizzazione mediatica su scala planetaria ponesse le premesse della globalizzazione, ma anche che la nuova interdipendenza elettronica ricreava il mondo nell’immagine di quello che si poteva definire un villaggio globale (McLuhan 1962, p. 31).

Secondo McLuhan, le scoperte tecnotroniche hanno ricreato il “campo”, per cui viviamo in un unico spazio ristretto che risuona di tamburi tribali. Così che, la preoccupazione per il “primitivo” oggi, risulta essere banale quanto la preoccupazione per il “progresso” del XIX secolo e irrilevante per i nostri problemi (McLuhan 1962, p. 31), egli afferma che

Il nostro è un mondo nuovo di zecca tutto in una volta. Il “tempo” è cessato, lo “spazio” è svanito. Ora viviamo in un villaggio globale ... un accadimento simultaneo. (McLuhan 1967, p. 63)

Tuttavia, questo modello globale di modernità impone da una parte la riflessione sul concetto stesso di sviluppo, e dall’altra, sul problema delle istanze culturali regionaliste e identitarie che Kenneth Frampton esponeva in Critical Regionalism: modern architecture and cultural identity (Frampton 1980, pp. 313-327).

Da tempo, si sostiene che l’attuale processo di sviluppo – cosiddetto lineare – ha quasi esaurito e dissipato le risorse planetarie e che il fenomeno della globalizzazione ha messo a repentaglio, se non annientato, le diversità e le complessità culturali delle Nazioni e dei Paesi del mondo. Ma, se la prima affermazione può corrispondere al vero, la seconda è ancora tutta da dimostrare. Paradossalmente, la globalizzazione è un fenomeno che ha dato forza propulsiva alle istanze identitarie, in atto da decenni, ed è altrettanto evidente, che ai problemi dell’esaurimento delle risorse e della relativa emergenza planetaria, corrispondono le crescenti azioni contrarie, di compensazione e resilienza, di cui il Critical Regionalism è portatore.

Oggi per tanto, ci si chiede se il modello di sviluppo degli Stati Uniti e di tutto quel mondo che ad essi guardano, può essere replicato; in altre parole, possono i Paesi meno sviluppati – come diceva Marx – seguire le orme di sviluppo degli Stati Uniti d’America? Un Paese dalle vaste dimensioni, dalle illimitate (si pensava) risorse minerarie e dagli immensi giacimenti di petrolio? Un Paese dell’abbondanza, proiettato verso il futuro e dal grande avvenire, dove tutto è possibile?

La risposta è, a questo punto, scontata, e la domanda retorica. Ovviamente, le possibilità di sviluppo non possono essere più e per nessuno, quelle che hanno reso possibile l’indiscutibile primato degli Stati Uniti. La parentesi storica dello sviluppo lineare e del consumismo, di cui gli Stati Uniti hanno rappresentato il modello (Galbraith, 1958), non è più, da molto tempo, sostenibile, oltre che per ragioni etiche, per le necessità di preservare l’equilibrio, già sconvolto e quasi [?][11] irreversibilmente compromesso del Pianeta (Schumacher 1973).

Tuttavia, oggi, le costruzioni più diffuse al mondo sono proprio i grattacieli, i centri commerciali e ad esse si associano le salvifiche Smart Cities, assunte come modello per un nuovo equilibrio tra città, società e Pianeta. Modelli originati e sviluppati negli Stati Uniti e, con il tempo, assimilati e diffusi in tutto il mondo, così che, come affermava Mattelart (2000), la società globale altro non è che l’estrapolazione dell’archetipo nato e cresciuto nel Nuovo Mondo.

Ma questi edifici, così come le Smart Cities, adottati come modello globale, richiedono enormi quantità di energia, un elevato apparato informatico, tecnologico e scientifico. Tutto questo porta alla paradossale, ridicola, se non tragica situazione per cui nel mondo, Paesi meno sviluppati utilizzino questi modelli incondizionatamente, conducendo a quanto Richard Sennett osservava e che induce all’ovvia domanda in termini di progettazione, di come sia possibile che un paese come l’India, con una popolazione che non ha acqua potabile, nessun sistema fognario e nessun ambulatorio a livello di quartiere, cerchi di seguire questa strada destinata al fallimento, progettando 100 Smart Cities nuove di zecca (Sennett 2018, p. 162).

Evidentemente, l’inerzia con cui i Paesi sottosviluppati, o semplicemente meno sviluppati degli Stati Uniti, vogliano anch’essi raggiungere le vette dello sviluppo è ancora questione aperta. Purtroppo, però, il modello lineare, e lo sviluppo economico globale – modello adottato da tutti i Paesi, industrializzati e non – ha sprecato e consumato le risorse e, soprattutto, ha prodotto una quantità indescrivibile di rifiuti, nonché causato l’annullamento delle diversità culturali, regionali e locali.

In tal senso la cultura del Regionalismo Critico e di tutti coloro che percepirono come una grande illusione la possibilità di uno sviluppo continuo e illimitato, oggi troveranno una rinnovata, forse necessaria, collocazione.

Per contrastare l’attuale modello di sviluppo, forse non basteranno il Regionalismo Critico e la ricerca di un modello di consumo circolare e di piccola produzione – regionale – come proposto da Ernst Friedrich Schumacher (1973); ma sarà molto probabile che i diversi Paesi del mondo dovranno necessariamente formulare dei modelli di ripensamento – critico – nei confronti di quelli attuali, seguendo ognuno, le proprie attitudini, possibilità e cultura locale – regionale?

Come afferma Frampton,

Il regionalismo critico tende a prosperare in quegli interstizi culturali che, in un modo o nell’altro, sono in grado di sfuggire alla tensione ottimizzante della civiltà universale. La sua comparsa indica che la nozione ereditata di un centro culturale dominante circondato da satelliti dipendenti e dominati è, in ultima analisi, un modello inadeguato per dare un giudizio complessivo sullo stato attuale dell’architettura moderna. (Frampton 1982, p. 387)

Questo ci rassicurerebbe e farebbe piacere crederlo.

Note

[1] Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del proprio avvenire.

[2] Generalmente l’inizio della Cold War viene cronologicamente collocato nel 1947 con l’adozione del National Security Act (18 settembre, 1947) e si conclude simbolicamente con la caduta del muro di Berlino (1989) e lo scioglimento dell’URSS (1991). Diversamente qui si indica come data di inizio della Cold War il 1945, in concomitanza dello scritto di George Orwell che, in risposta al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaky, scrive l’articolo “You and the Atomic Bomb” (1945): «The atomic bomb may complete the process by robbing the exploited classes and peoples of all power to revolt, and at the same time putting the possessors of the bomb on a basis of military equality. Unable to conquer one another, they are likely to continue ruling the world between them, and it is difficult to see how the balance can be upset except by slow and unpredictable demographic changes […] that is, the kind of world-view, the kind of beliefs, and the social structure that would probably prevail in a state which was at once unconquerable and in a permanent state of “cold war” with its neighbours».

[3] Negli USA infatti emigrarono Theodor W. Adorno (1939), Josef and Annie Albers (1933), Herbert Bayer (1938), Peter Blake (1940), Max Beckmann (1933), Marcel Breuer (1937), Serge Chermayeff (1940), Albert Einstein (1938), Enrico Fermi (1938), Walter Gropius (1937), George Grosz (1933), Victor Gruen (1938), Max Horkheimer (1933), Fritz Lang (1934), Claude Lévi-Strauss (1940), Peter Lorre (1935), Thomas Mann (1939), Erich Mendelsohn (1941), László Moholy-Nagy (1937), Sibyl Moholy-Nagy (1937), Piet Mondrian (1940), Mies van der Rohe (1933), Berta and Bernard Rudofsky (1941), Josep Lluís Sert (1939), Hans Richter (1940), Arnold Schoenberg (1933), Georg and Maria Ludwig von Trapp (1938), Oskar Wlach (1940), Bruno Zevi (1940) e molti altri (la data indica l’anno di arrivo negli USA).

[4] Le osservazioni di Peter Blake riguardo l’influsso dei maestri europei emigrati negli Stati Uniti, appartengono a pubblicazioni piuttosto recenti, ma queste, come è testimoniato in No Place Like Utopia (Blake, 1993), risalgono ai primi anni Cinquanta.

[5] Bauhaus: 1919-1928 [MoMA Exhibition. #82, December 7, 1938-January 30, 1939].

[6] Road to Victory [MoMA Exhibition #182, May 21-October 4, 1942], Airways to Peace [MoMA Exhibition #236, July 2-October 31, 1943].

[7] Modern Architecture: International Exhibition [MoMA Exh. #15, February 9-March 23, 1932]

[8] Non bisogna dimenticare che Zevi a seguito delle leggi razziali, lascia l’Italia nel 1939 per recarsi prima a Londra e poi, nel 1940, negli Stati Uniti. Qui si laurea presso la Graduate School of Design della Harvard University, diretta da Walter Gropius, e scopre Frank Lloyd Wright. Nel 1943 torna in Europa a bordo di una nave militare che approda a Glasgow, vive da rifugiato a Londra e, su incarico dell’esercito degli Stati Uniti, progetta accampamenti militari prefabbricati in vista dello sbarco in Normandia. A Londra frequenta la biblioteca del RIBA e prepara la stesura del suo primo libro, Verso un’architettura organica.

[9] Modern Architecture, U.S.A. [MoMA Exhibition #767a, May 18-September 6, 1965].

[10] Emblematico il lavoro compiuto da Albert Kahn, l’architetto di Ford (Bucci, 1992), per l’edificazione di complessi industriali in Russia.

[11] Il punto di domanda sta ad indicare l’incertezza di questa affermazione. Ancora non sappiamo se abbiamo sconvolto l’equilibrio del pianeta in modo irreversibile o se siamo in tempo per invertire i processi innescati dalla deforestazione, dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua…cause dell’effetto serra, dei Tornado, dell’innalzamento del livello del mare, dello scioglimento dei ghiacciai……e delle pandemie.

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