La fine del Regionalismo

Alberto Ferlenga




[…] In the last twenty or thirty years, new directions in contemporary architecture have not come from Europe alone: A Universal civilization is approaching, and its development shows no symptoms of international standardization. Its common element is its conception of space, which is in keeping with both the emotional structure and the outlook of the period […] There is yet another factor of equal importance, one that arises from an attitude shared by the best contemporary architects. These architects aim, above all, at taking full account of the changeless atmospheric and topographical conditions of a country, which are no longer obstacles but springboards for the creative imagination. It has often been observed that the painting of the present century has repeatedly taken soundings of the past in order to renew contact with kindred elements in mankind of earlier times and to derives strength from this contact. Neither I have elsewhere called this coming to terms with pre-existing atmospheric and topographical condition a “new regionalism” […] Within this common concept of space, many different forms of architecture are developing, leading to unexpected situations.
(fig.a,b,c)

Così scriveva nel 1960 Sigfried Giedion introducendo The Works of Affonso Eduardo Reidy di Klaus Frank (1960), (fig. 1) la prima monografia sul lavoro dell’architetto brasiliano autore, tra l’altro, del Museo d’Arte moderna di Rio de Janeiro e della Scuola Sperimentale di Assunciòn in Paraguay. (fig. 2) Giedion riprende nel testo alcune idee maturate già a partire dagli anni ‘40 all’interno dei CIAM che lo vedranno progressivamente distaccarsi dalle interpretazioni più dogmatiche del Movimento Moderno per aderire alla nuova visione di una architettura attenta al rapporto con l’ambiente e con la storia e ai temi della sostenibilità urbana e della misura umana. Temi che in quegli anni incominciavano ad emergere dalla crisi dei CIAM e nelle teorizzazioni di architetti noti come Richard Neutra o Aldo Van Eyck e che, in forma più compiuta, costituivano il filo conduttore del lavoro dall’architetto greco Constantinos Doxiadis (fig. 3), planner di fama internazionale, e tecnico di punta dell’establishment democratico statunitense e delle Nazioni Unite sui fronti urbanistici della guerra fredda. Doxiadis, antico discepolo di Dimitris Pikionis presso il Politecnico di Atene, è stato, tra l’altro, il propugnatore di una scienza, l’Ekistica, basata sul rapporto tra architettura e insediamenti che, tra molte forzature e ambiguità, ha avuto il pregio di anticipare i temi dell’attuale sostenibilità. Ne erano premessa le analisi sulla nuova crescita delle città, esposte da Jean Gottmann nel suo Megalopolis (1961) ma anche i drammatici problemi insediativi seguiti alla Partition tra India e Pakistan (1947) e, ancor prima, alla Katastrophé dei Greci in Asia Minore (1923). Introdotto alla conoscenza di Doxiadis da Jaqueline Tyrwhitt, urbanista inglese e fervente seguace di Geddes e delle sue teorie ma anche membro attivo del CIAM, Giedion percorrerà un pezzo importante di strada con l’osservatorio “ekistico” che in Atene coniugava le tematiche globali e localistiche con una tradizione insediativa antica già studiata da Doxiadis nella sua tesi di dottorato Architectural Space in Ancient Greece (fig. 4) discussa nel 1936 a Berlino e divulgata in inglese dalla Tyrwhitt nel 1972. La tesi riprendeva le considerazioni sulla composizione dinamica dei monumenti dell’Acropoli avanzate da Auguste Choisy nella sua Histoire de l’Architecture (1899), nel capitolo dedicato al Pittoresco Greco – le cui immagini erano state utilizzate, come si sa, anche da Le Corbusier in Vers une architecture (1923), e le considerazioni di Pikionis sulla costruzione dello spazio sacrale greco attraverso sistemi geometrico visuali. Doxiadis ampliava, però, l’osservazione dall’Acropoli ad altri casi di recinti sacri e città greche e sottintendeva, con tutta evidenza, la possibilità di riutilizzo di alcuni principi insediativi antichi anche nel mondo presente per reiterare una relazione dinamica tra spazio pubblico e architettura e migliorare la qualità della vita urbana. Del gruppo “ekistico” arriveranno a far parte, oltre a Gottmann, storici come Arnold Toynbee, Margaret Mead, scienziati come Jonas Salk, paesaggisti come Lawrence Halprin oltre a ingegneri come Bukminster Fuller e architetti come Fumihiko Maki o Hassan Fathy (fig. 5) e alle sperimentazioni egiziane e irachene di quest’ultimo su materiali e clima Giedion si riferisce esplicitamente in un altro passo dell’introduzione a Reidy.

Le idee di una architettura legata all’ambiente, di città-mondo e allo stesso tempo “demoltiplicate” nel loro corpo vivo grazie a centralità minori e diffuse, rispettose della misura umana, le nuove forme dell’abitare, l’attenzione a fattori climatici, alla viabilità, ai temi ambientali in generale, vengono approfonditamente discusse tra il 1963 e il 1975 nei Delos Symposia, (fig. 6) eventi spesso citati ma ancora oggi poco studiati, che si rifacevano apertamente, nella ritualità, ai viaggi e ai convegni dei CIAM, rispetto ai quali Tyrwhitt e Giedion assicuravano una sorta di continuità ideale, ma ne ampliavano e diversificavano la partecipazione, rivolgendo forse per la prima volta l’attenzione di un’ampia rappresentanza della cultura del tempo ai nuovi aspetti di un mondo urbano che stava mutando i suo parametri di riferimento.

Giedion, percepisce i cambiamenti che l’architettura inizia a manifestare in un’epoca in cui la spinta delle avanguardie perde forza di fronte alle nuove emergenze sociali ed economiche e ad uno sviluppo della comunicazione che muta radicalmente lo scambio e la conoscenza delle idee in ambito sociale ma anche urbano. Aveva lavorato su questi temi in Canada, tra il 1951 e il 1957 nell’Exploration Group, insieme a McLuhan e alla stessa Tyrwhitt, ed elaborerà la definizione di Nuovo Regionalismo proprio per descrivere una attitudine nascente in architettura attribuendo, dunque, a questo termine un’accezione positiva. Malgrado ciò, dalle sue considerazioni trapela ancora l’ambigua differenza tra un mainstream ancora legato all’influenza dei CIAM e delle avanguardie ed un’architettura nuova ma ritenuta ancora secondaria per localizzazione geografica ed espressione formale, anche se capace di intuire e declinare le nuove esigenze del mondo. Un’architettura fatta di esperienze locali, coinvolgimenti politici spesso discutibili e comunque molteplici, rapporti stretti con le città esistenti, linguaggi diversificati, rapporti complessi con le tecnologie. Un’architettura non riconducibile a stili, scuole o movimenti ma che trova piuttosto il suo tratto comune nel rapporto con quella che Pikionis chiamava l’«unica tradizione dell’Architettura del mondo» (fig. 7, 8) declinata in mille versioni ma sostanzialmente unitaria nei principi. Ed è proprio il riconoscimento di protagonisti “anomali” come Reidy da parte di attenti ma “condizionati” osservatori come Giedion a mettere in luce, paradossalmente, la grande opera di rimozione perpetrata dalla cultura architettonica più avanzata nei confronti di una vicenda novecentesca spesso parallela a quella più conosciuta ma considerata superata e poco significativa.

Manuel de Solà Morales in un saggio del 1987 pubblicato in Spagna su «UR, urbanismo revista», e pochi anni dopo in Italia su «Lotus International» (1989), dal titolo Otra Tradiciòn Moderna è stato tra i primi a cercare di delimitare dentro la storia del Novecento i contorni di questa nuova tradizione per molti versi anticipatrice, specie per quanto riguarda il contesto urbano.

In Olanda l’opera ben nota de Willem Dudok e di J.J. Oud tanto quanto la più classica di Michel de Klerk o di Hendrik Petrus Berlage, mostra uno stile nel progetto urbano che la situa come intromissione dentro un contesto stabilito. I lavori di Giuseppe de Finetti, Emilio Lancia, o di Giovanni Muzio a Milano, quelli di Kay Fisker, Carl Petersen o Ivar Bentsen a Copenhaghen, quelli di di Eliel Saarinen a Helsinky e Sven Markelius a Stoccolma, quelli di Joze Plecnik a Lubiana come quelli di Francesc Folguera in Catalunya o di Secondino Zuazo a Madrid manipolano la città come campo della nuova architettura senza che essa perda mai il suo ruolo come strumento di ordinamento urbano, Saggia disciplina che parte in verità dall’amore e non dall’odio nei confronti della città esistente e che per questo rende la sua trasformazione più rigorosa […] Era un urbanistica che si misurava con la condizione distinta di ogni parte urbana, con l’idea della città come artefatto complesso sempre più ricco e diversificato. Credo che qui, in questa complessità si debba riconoscere la vera tradizione della città moderna. (Solà Morales 1989) (fig. 9)

Il punto di vista di Manuel de Solà Morales è prevalentemente rivolto alla città ma se ampliassimo il discorso ad altri temi che oggi hanno assunto una nuova rilevanza come quelli ambientali o identitari le vicende di quel secolo – scritti e progetti – ci offrirebbero in gran numero riflessioni analoghe in quanto a preveggenza e utilità. 

Si tratta di “sperimentazioni” meno appariscenti e più realistiche di quelle della modernità conclamata, declinate in espressioni formali spesso ostiche, non sempre in grado di lasciare edifici iconici, ma capaci di produrre frammenti urbani riconoscibili e indagini su vari aspetti dell’architettura tradizionale e delle città: da Amsterdam a Lubiana, da Amburgo ad Atene, dalla Svezia alla Spagna. Esse ci consegnano un quadro di riflessioni e di realizzazioni che, depurato da ingombranti zavorre ideologiche e da sistemazioni critiche strumentali, si dimostra, sempre di più, sterminato e fertile. Della sua esistenza si accorge, qualche anno dopo Giedion, Kenneth Frampton che nell’ansia di etichettare il fenomeno, e di distinguerlo da altri finisce, però, con il replicare lo stesso errore dello storico tedesco. Come era già accaduto per Giedion, ma con l’aggravante di una situazione storicamente più chiara, infatti, l’interesse di Frampton nei confronti delle declinazioni meno convenzionali dell’architettura del secolo scorso, sintetizzate nella definizione di Regionalismo Critico, non può sfuggire al carattere intrinsecamente limitativo della sua stessa denominazione finendo con l’individuare ghetti eccellenti, vicende irripetibili e, di fatto, preferenze personali. Così, ancora una volta, una storia complessa come quella dell’architettura del Novecento in cui avanguardia e tradizione si intrecciano spesso nelle realizzazioni dei medesimi protagonisti e le idee passano attraverso relazioni personali che travalicavano le posizioni “di facciata”, viene ridotta ad evento di secondo piano e ad una vetrina di personaggi isolati, importante da ricordare, in attesa di una vera ondata innovatrice.

Scrive Frampton:

Il Regionalismo critico presuppone necessariamente un rapporto più esplicitamente didattico con la natura di quello definito dalle tradizioni astratte e formali dell’architettura dell’avanguardia. (Frampton 1984)

ma è corretto attribuire a quel campo architetti come Plecnik, Pouillon (fig. 10) o Pikionis in Europa o Reidy e Vilanova Artigas in Brasile, tanto per citare alcuni esempi? Non dovremmo, invece, considerare i loro contributi componenti essenziali di una modernità in architettura che sarebbe ora di considerare come una vicenda unica, sfaccettata e complessa, piuttosto che un catalogo di false coerenze o somma di drastiche opposizioni?

Se partiamo da questo punto di vista, lo spazio di un secolo i cui effetti non sono ancora finiti, ci appare come una miniera ancora in gran parte da sfruttare.

E sempre partendo da questo punto di vista, dovremmo rilevare come l’attenzione ai luoghi e alle identità sia sempre stata una costante in tutta la storia del ‘900 architettonico anche quando le spinte palingenetiche e gli intenti futuristici sembravano oscurare tutto il resto. Ciò che è cambiata nel tempo è piuttosto la considerazione dell’importanza di questa ricerca, la sua utilità rispetto ai temi odierni. Una consapevolezza che cresce di pari passo con la difficoltà di riconoscere ciò che il mondo contemporaneo ha generato in quanto ad aspetto fisico nelle città e nell’ambiente e con il fallimento degli strumenti di progetto o di controllo a larga scala e, per contro, delle ricette liberistiche. La compresenza di fenomeni di globalizzazione e di differenze locali è oggi un fatto consolidato e spesso nelle seconde è contenuta una ricchezza formale e una capacità di reazione ai problemi del nostro mondo maggiori che nei primi. D’altra parte, la cornice dentro cui ci muoviamo non è più quella del progresso economico e delle ideologie totalizzanti, ma piuttosto quella della transizione e dell’incertezza dentro la grande crisi ambientale, sociale e urbana. Un quadro, questo, che altri hanno intuito come priorità di una nuova epoca se consideriamo, ad esempio, intellettuali anomali come Oswald Spengler, Patrick Geddes, Lewis Mumford, Jean Gottmann e lo stesso Doxiadis. Portatori di una cultura le cui intuizioni rispetto al futuro sono apparse molto più vicine alla realtà di quelle prefigurate dai salti in avanti delle cosiddette avanguardie: un nuovo realismo piuttosto che un nuovo regionalismo.

Ma indicare un terreno di studio dentro una storia dimenticata non basta più. Le nuove emergenze non richiedono solo il recupero di idee anticipatrici ma nate dentro condizioni superate dai fatti, bensì la ricostruzione di forme di conoscenza e di strumenti pratici e teorici che nel loro insieme configurino una cultura “laica” e adatta ad affrontare il tempo presente e le sue contraddizioni.

Dentro la storia dinamica e fatta di continui ritorni delle città questo vuol dire, ad esempio, riprendere il filo di una lettura analitica, ravvicinata, dei fenomeni in corso per quanto riguarda gli aspetti formali di un mondo come quello urbano in cui i tempi si confondono continuamente dando una connotazione molto speciale all’idea di attualità. Una lettura del mondo, delle sue città, dei suoi paesaggi, interrotta almeno 50 anni fa e che ha avuto in Italia uno dei suoi luoghi d’origine e di maggior sviluppo. Ciò implica anche il tornare a considerare il valore esemplare di alcune aree che, come l’Italia, si presentano come veri e propri archivi viventi dei valori urbano-architettonici. Ogni città italiana ha un suo carattere, plasmato dalla storia, una sua identità che non può essere certo replicata, ma possono esserlo le sue dimensioni, la misura dei suoi spazi pubblici, il suo rapporto con la topografia o il paesaggio, il suo stare dentro organizzazioni metropolitane o naturali più ampie, la sua capacità di produrre uno speciale benessere di vita e di lavoro. In un momento particolare e tragico come è stata questa pandemia una città come Venezia, (fig. 11, 12) ad esempio, l’ha ampiamente dimostrato. Ma non è solo la storia a insegnarci ancora qualcosa. La necessità dell’identità emerge anche in luoghi – sempre più diffusi nel mondo – in cui la vita è segnata dalla temporaneità e dalla disperazione. Suketu Metha nel suo La vita segreta delle città (2016) dedicato a Italo Calvino, dieci anni dopo Maximum City ritorna su questo tema rileggendo gli slum di Mumbay dove gli abitanti, pur nella precarietà di un abitare ai limiti della sopportabilità umana, ricostruiscono forme disperate di identità nominando rivoli fognari o cumuli di immondizie con i nomi dei fiumi e delle colline dei loro villaggi lontani e cercando di riprodurne gli spazi architettonici e pubblici. La stessa cosa potremmo dire considerando l’evoluzione delle favelas di Rio de Janeiro o dei barrios informales (fig. 13) di Lima dove gli spazi e le architetture si riaggregano per generare un valore evocativo e sociale che, inevitabilmente e inconsapevolmente, riprende la memoria delle città, e le infrastrutture (funicolari, scale, ecc.) si tramutano in altrettante occasioni per segnare nuove identità.

Tornano dunque gli stessi temi, nelle città, ma le condizioni e le dimensioni in cui si presentano e la nostra stessa mutata sensibilità nei confronti dell’ambiente richiedono una riconsiderazione complessiva di storie, teorie e strumenti e una nuova conoscenza delle condizioni contemporanee del vivere urbano (fig. 14, 15), grazie alla quale rintracciare i materiali e gli strumenti che possano dar vita a processi virtuosi di trasformazione e di riconoscimento che interessino le parti più abitate del mondo e non i pochi metri quadrati delle – indistinguibili tra loro – Downtown metropolitane.

Bibliografia

CHOISY A. (1899) – Histoire de l’Architecture. Gauthier-Villars, París.

DOXIADIS C. (1972) – Architectural Space in Ancient Greece. MIT Press, Cambridge.

FRAMPTON K. (1984) – “Anti tabula rasa: verso un Regionalismo critico”. Casabella 500, marzo, 22-25.

FRANCK K. (1960) – The Works of Affonso Eduardo Reidy. Frederick A. Praeger, New York.

GOTTMANN J. (1961) – Megalopolis the Urbanized Northeastern Seaboard of the United States. MIT Press, Cambridge.

LE CORBUSIER (1923) – Vers Une Architecture. Éditions Crès, París.

METHA S. (2016) – La vita segreta delle città. Einaudi, Torino.

SOLÀ MORALES M. (1989) – Un’altra tradizione moderna. Lotus International, 64.

SOLÀ MORALES M. (2021) – Miradas sobre la ciudad. Acantilado, Barcelona.

TESSARI A. (2020) – Informal Rooting. An Open Atlas. LISt Lab.