Globalizzazione e identità nell’architettura contemporanea del Mediterraneo. Opposizione o compresenza?

Ludovico Micara




Le trasformazioni recenti di tante città evidenziano un continuo e progressivo compromesso tra spinte globali legate alla modernizzazione (nuove infrastrutture, nuovi servizi pubblici o privati …) e resistenze, o meglio “esistenze”, di identità, tradizioni, costumi, usi tuttora presenti e vivi.

Prendiamo il caso di un mondo, come quello Mediterraneo, in cui questo fenomeno si manifesta in modo particolarmente evidente. Una delle componenti culturali, religiose, antropologiche di questo mondo, quella “islamica”, sviluppatasi prevalentemente nella costa meridionale del Mediterraneo e nel Levante, aveva assunto i caratteri di una impronta “globale” su queste diverse regioni.

Quando intorno agli anni ’60 del secolo scorso si parlava ancora di “architettura e città islamica”, Paolo Portoghesi nel 1982 decise di intitolare Architettura nei paesi islamici (Portoghesi 1982) la Seconda mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia.

Cambiamento profondo, perché si riconosceva che il semplice aggettivo “islamico” non copriva la complessità degli aspetti che il mondo dei “paesi islamici” presentava nel campo dell’architettura e della città.

Oggi, allo stesso modo, si stenta a riconoscere una unità al termine “mondo islamico”.

Tripoli (Libia)

All’inizio del Ventesimo secolo la Medina di Tripoli (Micara 2008a) (fig. 1) rappresentava in modo mirabile gran parte delle caratteristiche delle città mediterranee nel Maghreb: vale a dire una riuscita sintesi tra aspetti tipici delle città di formazione arabo-islamica e caratteri in parte estranei a quella tradizione, ma derivanti dall’intensa attività di scambi commerciali, demografici, religiosi e diplomatici con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Così accanto alle moschee, agli alti e puntuti minareti che rendono manifesta l’appartenenza culturale e religiosa della città, al fitto e compatto tessuto di case a corte e stretti vicoli spesso a cul-de-sac, è possibile percepire una inconsueta apertura delle case verso la strada, con balconi e finestre, oltre a elementi estranei alla tradizione urbana locale come le mura e il castello con i bastioni cinquecenteschi dovuti alla globalizzazione spagnola di Carlo V. É anche evidente la inusuale regolarità di alcune strade (fig. 2), che ad una analisi più approfondita si rivelano come tracce del supposto cardo[1] e dei due decumani della progenitrice romana Oea della Tripolis (assieme a Sabratha e Leptis Magna). Sono anche da notare l’ampiezza e ariosità della casa a corte tripolina, soprattutto in vicinanza del mare e del porto, memore delle dimensioni della domus, e la presenza della chiesa e del campanile di S. Maria degli Angeli e delle tante sinagoghe, trasformate successivamente in moschee, a dimostrare la dimensione multietnica e multi religiosa della Medina nel passato.

Questa nuova dimensione ha completamente cambiato i rapporti tra le diverse parti della città. Già nel periodo dell’occupazione italiana di Tripoli, l’abbattimento di parti della cinta muraria, seppur conservatasi come sedime di nuove strade, aveva integrato la Medina con la città italiana degli anni ’30, dando luogo ad un inedito “centro storico” formato da tessuti urbani tradizionali e facilmente riconoscibili come quello arabo islamico basato sulla casa a corte e quello primo novecentesco, basato sul rapporto tipo-morfologico tra tracciato stradale ed isolato. Oggi questo nucleo storico, molto più ampio della tradizionale Medina, è ancora facilmente riconoscibile, con le sue architetture, gli antichi monumenti, i portici novecenteschi, le “nuove” istituzioni della città coloniale. Ma già in questa prima riscrittura emergono alcune trasformazioni urbane legate alla nuova dimensione dell’abitato. Mentre tutta l’attenzione dei nuovi colonizzatori è concentrata sulla città cosiddetta italiana, dove sono localizzati gli edifici delle istituzioni del potere coloniale, il labirintico tessuto urbano della Medina è tenuto sullo sfondo delle geometriche prospettive dei nuovi assi urbani. Uno sfondo ancora poco conosciuto e in parte misterioso, abbandonato alle sue logiche insediative e modi di vita sociali e religiosi, la cui presenza è tuttavia necessaria e costituisce componente fondamentale dell’idea novecentesca di città del Levante mediterraneo. In questo tipo di approccio le trasformazioni più rilevanti si verificano nelle aree di tangenza e di contatto tra i due sistemi urbani e quindi nei bordi della Medina. L’abbattimento di parti delle mura rende disponibili i sedimi per la costruzione di nuove strade e di nuovi edifici pubblici, mentre parti più o meno ampie di tessuto prossimo ai bordi vengono investite dall’attenzione “normalizzatrice” della amministrazione coloniale.

Ancora oggi il problema dei bordi della Medina rimane irrisolto, anzi si aggrava ulteriormente per la presenza di nuovi edifici, come i grandi alberghi nell’area nord-occidentale della città, o di nuove infrastrutture, come la beltway tra la Medina e il porto che, recidendo le connessioni storiche tra il tessuto urbano e il mare, isola ancor di più la stessa Medina.

Oggi i maggiori problemi di Tripoli sono costituiti dalla sua nuova dimensione metropolitana. Se osserviamo ancora un’immagine satellitare della città ci accorgeremo che la sua crescita è avvenuta senza alcuna regola insediativa e che si è perso quel rapporto, così chiaro nella medina tradizionale tra tessuti residenziali e spazi pubblici.

L’unico elemento ordinatore della “grande Tripoli” sono le infrastrutture stradali che in parte riprendono gli antichi tracciati che collegavano la Medina alle aree interne e agli altri centri costieri, in parte tentano di definire, attraverso circonvallazioni sempre più ampie, la nuova dimensione urbana. In particolare gravida di conseguenze è la creazione di una highway che corre lungo il fronte mare tra la Medina e il porto (figg. 3-4-5).

Tale infrastruttura, creata per collegare il porto con le arterie principali della città, ha di fatto assunto il ruolo di una grande circonvallazione urbana che costeggiando il mare evita il centro città.

Gli effetti sulla medina di questa recente infrastruttura sono pesantissimi. Quello che si era fin dalle origini configurato come un tessuto urbano orientato sul porto non trova oggi più oggi alcuno sbocco sul mare e viene recintato e rinchiuso in sé stesso dalla barriera costituita da una grande strada difficilmente attraversabile (Micara 2013b, 2008b). Uno dei caratteri che avevano originato la configurazione del tessuto urbano della Medina viene cancellato, contribuendo così a ridurre ulteriormente le sue potenzialità di recupero.

Lo spostamento del porto commerciale più ad est con maggiori disponibilità di aree e di connessioni infrastrutturali potrebbe preludere allo spostamento o al depotenziamento della circonvallazione con la creazione di un porto turistico strettamente legato al recupero abitativo della Medina. Questa ritroverebbe così, riattivando il suo legame con il mare, uno dei caratteri fondativi della sua identità.

Nella nuova dimensione metropolitana della Grande Tripoli è tuttavia impossibile intervenire per elementi discreti, ma occorre una nuova visione strategica che interpreti la nuova scala geografica della città. Il progetto urbano del paesaggista francese Gilles Clément (Clément 2005) demolisce una serie di tessuti degradati, residui, délaissé nella nomenclatura di Clément, integrando le aree libere così ottenute con aree di risulta o non sfruttate, per realizzare una grande cintura metropolitana costituita da giardini, spazi pubblici e servizi.

Tale cintura, sviluppando le indicazioni di Clément potrebbe raggiungere ai suoi estremi anche il mare, saldando in un unico sistema lineare anche le presenti aree portuali e potenziandole con servizi di livello urbano. Si ricostituirebbe così, anche alla scala metropolitana, quel rapporto tra aree residenziali e spazi pubblici, così importante per la qualità del tessuto urbano della medina mediterranea (fig. 6).

Se alla dimensione urbana il tema della grande circolazione pone il problema della trasformazione del sistema portuale nel suo insieme, in ambiti più circoscritti è possibile fare interagire le nuove infrastrutture con il contesto storico della Medina.

È questo il caso del bordo Ovest della Medina dove la highway di circonvallazione costeggia, con una sua derivazione, una parte delle mura ancora esistenti (fig. 7). In alternativa ad una soluzione di pura tangenza tra due entità estranee tra loro, è possibile allora pensare e progettare un loro coinvolgimento reciproco al fine di realizzare quella integrazione che sembra caratterizzare molti tessuti urbani mediterranei (fig. 8).

Il ritrovamento di una foto del periodo coloniale italiano testimonia la presenza di un fossato lungo le antiche mura e di una porta di ingresso alla Medina in corrispondenza dell’ex ghetto, hara, ebraico. È allora possibile recuperare questa quota più bassa rispetto a quelle circostanti per realizzare una passeggiata e un parco urbano lungo le mura (figg. 9-10-11-12).

L’interramento della highway permetterà l’accesso diretto alla Medina, mentre il cammino di ronda sulla sommità delle mura potrebbe diventare un mercato panoramico all’aperto (figg. 13-14).

Yazd (Iran)

Un problema simile, legato alla modernizzazione dei centri storici attraverso nuove infrastrutture stradali è riscontrabile a Yazd (Kowsar 2020), antica città persiana ai bordi del deserto centrale iraniano (fig. 15).

Anche in questo caso la realizzazione di nuove strade entro i tessuti storici consolidati ha rappresentato un tipo di intervento urbano al quale le città iraniane hanno fatto ricorso diffusamente nel secolo appena trascorso (fig. 16). L’interazione tra le nuove infrastrutture e i caratteri originari di un importante centro antico propone, attraverso il progetto, un nuovo e più complesso intreccio tra identitario e globale.

Possiamo distinguere due momenti in cui tali interventi sono stati realizzati. Il primo si colloca durante la fase di modernizzazione avviata da Reza Shah Pahlavi (1925-1944) per risolvere il problema del denso e compatto tessuto urbano storico delle città iraniane.

Il secondo, più recente, è riconducibile agli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, prima che si affermassero i principi della conservazione e del restauro del patrimonio storico architettonico, non solo relativi ai cosiddetti “monumenti”, ma anche ai tessuti urbani storici.

Mentre le “ferite” prodotte nei tessuti urbani dalle prime demolizioni, veri e propri “tagli”, interventi di sventramento, sono state ricucite con sistemi architettonici caratterizzati da porticati su cui affacciano negozi, e da prospetti continui, le demolizioni più recenti sono riconoscibili per la ricostruzione casuale dei nuovi fronti stradali, o per gli edifici ancora presenti e le case parzialmente demolite, le cui rovine, con i loro spazi e le corti interne, un tempo tenuti gelosamente nascosti, sono ora esposti allo sguardo indiscreto dei passanti.

Le conseguenze di tali operazioni di “taglio” nei tessuti urbani storici delle città iraniane hanno avuto un doppio risvolto. Il primo è l’interruzione della continuità dei percorsi e dei vicoli (kuché) storici di connessione tra le case o quartieri (mahallah) ed il percorso principale (rasteh) dei bazar, con i suoi caravanserragli aperti (caravanserai), i bagni pubblici (hammam), le scuole religiose (madrasa) e le moschee. La forte unità e integrazione del tessuto tradizionale risulta così spezzata, in assenza di un alternativo modello insediativo di riferimento.

Il secondo effetto è la perdita di rilevanza del bazar, come centro commerciale della città, a favore delle nuove strade commerciali, dove è possibile raggiungere botteghe e negozi utilizzando l’automobile. Come conseguenza il bazar ha perso la qualità che lo aveva caratterizzato: quella di costituire il più importante spazio pubblico della città.

L’obiettivo del progetto di riqualificazione (Micara 2020) (Figg. 17-18) dunque è non solo di definire e disegnare i fronti stradali della nuova Seied Golesorkh Street, ma anche trarre profitto dalla disponibilità delle aree demolite per sistemare alcuni servizi ad integrazione di quelli già presenti nel tessuto urbano storico.

I nuovi fronti urbani sono stati progettati proponendo porticati a uno o due livelli, costruiti con elementi prefabbricati, combinati secondo varie configurazioni e interrotti da grandi porte disegnate ad arco, che segnalano l’ingresso ai percorsi del centro storico. Il disegno dei nuovi fronti stradali non si configura come un nuovo muro continuo e compatto di separazione tra la strada e il tessuto urbano storico, ma piuttosto come un sistema permeabile e “poroso” di integrazione tra i nuovi spazi urbani e quelli esistenti.

Identità globali: una contraddizione?

Il tema della città continua, non risultante da parti autonome ed isolate, così connaturato alle città del mondo islamico, ha affascinato molti architetti contemporanei.

Penso a quanto scriveva Ludovico Quaroni ne La torre di Babele:

Con i mezzi moderni è possibile che la nostra nuova unità non sia un insieme di fabbricati e non sia solo un fabbricato (grattacielo o contenitore). Dell’unico fabbricato avrà la caratteristica della continuità: anzi potrà averla maggiormente, proprio perché sarà libera dai limiti del corpo di fabbrica, di facciate, di terreno. La continuità, in un discorso architettonico simile, è la prima e più importante caratteristica. Potrà e dovrà essere percorsa in tutti i sensi, e non soltanto in orizzontale come siamo abituati a pensare; potrà avere uno spessore, o solo quello corrispondente all’altezza di un piano, e variare nei diversi punti; potrà anche estroflettere mazzi di grattacieli; potrà essere affiancata dalla strada, ma più facilmente sarà distante da una strada (autostrada), o invece avrà questa sopra, o sotto, o sarà percorsa dentro dalla stessa. Per l’aria e la luce, limitatamente a quanta ne servirà (poca) per mantenere i contatti fra l’uomo e l’alternarsi del giorno e la notte, fra l’uomo e il cielo sereno, fra l’uomo e la vegetazione, per respirare l’aria libera, tutte le volte cioè che la luce e areazione naturale dovranno correggere quelle artificiali saranno praticate delle aperture, dei fori e dei canali nel continuo fabbricato che saranno cosa diversa dai cortili e dalle strade, perché non saranno la fine della costruzione, del tessuto che continuerà in loro. (Quaroni 1967)

Come è possibile non riconoscere nelle immagini di Klee dopo il suo viaggio in Tunisia all’inizio del ‘900, o nei progetti di G. Candilis (Università libera di Berlino, 1963), Y. Friedman (Progetto per la Città spaziale, 1961), degli Smithson (Progetto di un livello pedonale continuo sopra il tessuto urbano del centro di Berlino, 1958) o di M. Safdie (Figg. 19-20) la fascinazione del continuum, della “città continua” del Mediterraneo islamico?

Ecco, dunque, che uno degli elementi identitari delle città di formazione islamica può assumere il ruolo di motivo ispiratore di nuovi e più complessi insiemi urbani. Lo stesso uso, spesso disinvolto, del termine “porosità”, architetture, città “porose”[2] per individuare il carattere di sistemi architettonici, in cui pieni e vuoti sono legati tra loro da reciprocità e interrelazioni di uso che non è facile disconnettere, non è in qualche misura un richiamo alle medine che abbiamo appena visitato, stravolte da avventate e irriguardose globalizzazioni?

Guardando agli ultimi progetti esaminati, e al titolo del paragrafo “Identità globali”, ecco dunque che l’identitario aspira ad avere una impronta globale, invertendo e rovesciando, così, il processo logico da cui era partito questo studio.

Note

[1] Suscita dubbio la correntemente accettata identificazione del cardo della Tripoli romana, Oea, con la lunga strada rettilinea denominata Sciara Arba’a Arsat e Sciara Jama el-Druj. Quest’ultima, infatti, è obliqua rispetto alla direzione dei fornici dell’Arco di Marco Aurelio, allora centro ed umbilicum della città, contrariamente al decumanus che è perfettamente orientato in asse al fornice principale dell’Arco stesso. Inoltre le vie trasversali al supposto cardo non sono ad esso ortogonali, come avviene di regola per un percorso di impianto, ma orientate come il decumano. In assenza e in attesa di riscontri archeologici si può supporre che il cosiddetto cardo sia una trasformazione ottomana dovuta alle distruzioni operate dagli Spagnoli e dai Cavalieri di S. Giovanni nell’area urbana ad ovest del Castello per conquistare la città.

[2] A volte è opportuno tornare alle fonti e rileggere un testo esemplare, non scritto da architetti, che ha creato questa tematica nel lontano 1924, (Benjamin e Lacis 2020).

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