Africa subsahariana. Identità, tradizione, memoria

Anna Bruna Menghini




Identità: sguardi incrociati tra Africa e Occidente

Affrontare il tema della nuova architettura in Africa implica una necessaria riflessione sugli attuali processi di globalizzazione, in un’era che rischia di replicare in forma diversa quella coloniale del secolo scorso. Ormai ci appare con evidenza che il “villaggio globale”, in cui siamo tutti interconnessi, ingigantisce, anziché risolvere, i problemi materiali e le disuguaglianze frutto di vecchi squilibri e di sfruttamenti a scala mondiale.

In particolare, nelle aree subsahariane il flusso migratorio di un’umanità in movimento, che sembra mettere in discussione il concetto stesso di “appartenenza ad un luogo”, fa emergere con evidenza le criticità dello sviluppo rurale, aggravate dalle carenze alimentari e idriche[1]. Unito all’esponenziale aumento demografico, questo fenomeno sta generando la crescita incontrollata delle concentrazioni urbane e degli agglomerati informali, accentuando le disparità sociali e le emergenze abitative, acuite dalle crisi ambientali e sanitarie[2].

La presa di coscienza di queste situazioni, che sembrerebbero lontane dal mondo occidentale, ci spinge a riflettere su problemi ormai generalizzati e diffusi a scala globale, i cui effetti si riverberano in tutto il pianeta: lo stiamo osservando drammaticamente con la crisi pandemica e i cambiamenti climatici.

Di fronte a bisogni primari e problemi emergenziali, l’interrogativo su come approcciarsi correttamente alle culture abitative indigene per la comprensione delle identità locali, potrebbe sembrare piuttosto capzioso. Ed invece è quanto mai necessario, considerando che da una parte questi territori sono soggetti a pervasive forme di neo-colonialismo economico ad opera di potenze europee, statunitensi e soprattutto asiatiche, e che dall’altra parte, attraverso la “cultura della cooperazione”, si rischia di intervenire in questi contesti con un discutibile atteggiamento pietista, imponendo, seppur a fin di bene, modelli estranei alle culture locali. Fortunatamente la “cooperazione allo sviluppo”, se in passato ricorreva a scelte che non sempre rappresentavano un impulso per la crescita delle comunità, nelle esperienze recenti mostra un approccio maggiormente integrato con i territori, più attento alle identità, alle risorse naturali e ai sistemi produttivi locali.

Le ragioni geopolitiche, economiche, culturali, sociali e umanitarie che spingono il mondo occidentale ad interfacciarsi oggi con il continente africano, fino ad operarvi direttamente, hanno radici antiche.

Sono ancora visibili le tracce della presenza occidentale affermatasi da inizi ‘900 con le pesanti colonizzazioni imposte dai paesi destinati a diventare le potenze ricche del pianeta. Ma positivi e ancora fecondi sono i lasciti di quell’attenzione culturale e scientifica verso il continente africano che si è sviluppata ad opera di esploratori, geografi, etnologi, antropologi, sociologi, architetti e ingegneri occidentali, in contrasto con le politiche coloniali che spingevano a considerare l’Africa un terreno vergine, disponibile allo sfruttamento e privo di storia (La Cecla 2019).

Tra le più significative è l’esperienza di Leo Frobenius, che attraverso il materiale raccolto nel corso delle sue dodici spedizioni mostrò agli europei la molteplicità e la ricchezza delle arti e delle tradizioni africane. L’etnologo tedesco interpretò le antiche civiltà e quelle dei cosiddetti primitivi come un vasto repertorio di esperienze, comprensibili solo assumendo il “simbolo” come base di ogni cultura e come principio di una conoscenza fondata sulla “commozione” (Ergriffenheit) (Frobenius 1933).

Un’altra pietra miliare è costituita dalla figura di Claude Lévi-Strauss, antropologo, sociologo ed etnologo francese, che si è avvicinato alle culture “primitive” con un approccio di tipo strutturalista. Anche i suoi studi mettono in discussione la presunta superiorità delle società occidentali ed evidenziano il legame che sussiste fra di esse e quelle tribali, consistente in quelle strutture intellettive universali ed atemporali che sono alla base delle identiche disposizioni psico-cognitive con cui le diverse società elaborano i miti, praticano i rituali, si radicano ai territori e presiedono alle organizzazioni sociali. Per Lévi-Strauss il “pensiero selvaggio” sarebbe una forma mentale peculiare a tutti gli esseri umani – sebbene caratterizzante, per ragioni storiche e strutturali, soprattutto le culture non occidentali  ̶  basata su una particolare attenzione alle proprietà sensibili del reale e alla loro capacità di fungere da segni, piuttosto che sull’astrazione e classificazione logica di qualità e classi ideali (Lévi-Strauss 1962).

Riguardo all’architettura, quando le nazioni occupanti misero in atto opere di infrastrutturazione e di urbanizzazione dei territori africani, essa divenne uno dei mezzi privilegiati per affermare la superiorità civilizzatrice della cultura occidentale. Anche in Africa, in analogia alle altre vicende coloniali, il linguaggio architettonico imposto dalle diverse potenze straniere tentava inizialmente una penetrazione sottile, attraverso la mescolanza con “esotici” idiomi locali, in linea con l’eclettismo presente nella cultura architettonica occidentale di fine ‘800; quindi, lo stile coloniale venne sostituito progressivamente da un codice normalizzato, emblema del nuovo imperialismo, tra classicismo monumentale e accenti razionalisti.

Tra gli anni ‘50 e ‘60, in corrispondenza alla graduale decolonizzazione, si è sviluppata in Africa una cospicua domanda di opere pubbliche e infrastrutture, essenziali strumenti di modernizzazione dei territori e delle città in crescita, a cui hanno dato risposta architetti, ingegneri e tecnici provenienti dalle nazioni colonizzatrici o dagli stessi paesi africani; rinnovate immagini e nuovi simboli si sono offerti al progetto post-coloniale, prendendo a prestito i lasciti del linguaggio moderno occidentale, ancorché rivisitato mediante richiami locali[3].

Parallelamente, nel periodo postbellico l’Africa ha acquisito una certa visibilità nell’architettura e nelle arti occidentali, un ruolo già ricoperto a inizi ‘900 con il neo-primitivismo, che riconosceva nell’estetica delle forme arcaiche un fondamento della sensibilità moderna, superando i limiti di quell’eurocentrismo culturale mai messo in discussione fino a quel momento[4]. Con il declino delle istanze più avanguardiste del Movimento Moderno e del programma di diffusione dell’International Style, si erano iniziate a guardare con occhi nuovi le esperienze autoctone spontanee, riconosciute come l’origine più autentica e razionale del linguaggio moderno, pervenendo ad una sorta di “invenzione della tradizione” come espressione di una nuova koinè culturale[5]. In questo contesto l’architettura tradizionale dell’Africa subsahariana ha influenzato in modo significativo il modernismo del secondo dopoguerra in Europa e in Nord America; ma non tanto sotto l’aspetto linguistico ‒ quella di origine araba del Nord Africa si prestava maggiormente ad evocare i razionali “volumi bianchi sotto la luce” ‒ quanto per le strutture compositive riconoscibili alla base dei modelli abitativi. Ad esempio, il gruppo Team 10, attraverso la Charter of Habitat elaborata nel 1953 in occasione del CIAM IX, in particolare con le ricerche di Aldo Van Eyck, Georges Candilis, Alexis Josic e Shadrach Woods, assumeva come riferimento l’architettura tradizionale africana che, con le sue peculiari morfologie insediative, stimolava la ricerca di nuove strutture urbane in grado di indirizzare gli sviluppi spontanei, e la sperimentazione di sistemi abitativi composti da cluster a cellule, capaci di crescere autoregolandosi e di far germogliare luoghi adatti alle comunità (Dainese 2020).

Alla fine degli anni ‘70, nel pieno della crisi petrolifera mondiale, i prodotti della tecnocrazia modernista, che continuavano ancora a prosperare nel contesto africano attingendo anche al postmodernismo architettonico, cominciavano lentamente a cedere sotto la pressione della cosiddetta “appropriate technology”, una teoria che metteva in discussione il paradigma occidentale incentrato su consumismo, grande industria e centralismo organizzativo, e che proponeva per la nuova architettura il ricorso alle tecnologie “intermedie” anticipando alcune tematiche ecologiste (Schumacher 1973).

Bisognerà arrivare agli anni ‘80, con il Regionalismo critico teorizzato da Kenneth Frampton, parzialmente figlio del “progetto incompiuto del Moderno” di Jürgen Habermas, per riconoscere il ruolo dell’ambiente nell’architettura – inteso nelle sue dimensioni ecologica, storica e culturale ‒ e per scoprire e valorizzare, senza forzature ideologiche e in risposta all’eclettismo postmoderno, i contenuti autentici e la ricchezza delle scuole regionali (Frampton 1983, Frampton-Kultermann 1999).

Gli anni ‘90 saranno caratterizzati da un doppio registro, che si accentuerà nel decennio successivo mostrando con maggiore evidenza i disequilibri dello sviluppo territoriale: da una parte, la crescita esponenziale delle megalopoli e delle città di media grandezza, e dall’altra l’abbandono delle aree rurali e dei villaggi.

Attraverso una visionaria, quanto omologata, creatività, giganteschi masterplan cominceranno a disegnare virtuali new towns, città satelliti e nuove inserzioni ̶ come ad esempio la Cité du Fleuve a Kinsasha, Eko-Atlantic City a Lagos, Tatu City e Konza Techno City a Nairobi ̶ e si realizzeranno grandi interventi speculativi ad opera di importanti studi internazionali, pubblicizzati con gli slogan dello smart e dell’ecosostenibilità, sul modello di megalopoli come Dubai, Shangai o Singapore, sotto la spinta di investimenti immobiliari destinati alla fascia medio-alta della popolazione (Albrecht 2014).

Il nuovo volto rappresentativo delle megalopoli africane ‒ manifestazione visibile dei grandi capitali economici ‒, si sta affermando attraverso immagini influenzate da modelli asiatici, ma quasi tribali nelle loro espressioni paradossali e ipercolorate, che si proiettano verso il futuro in cerca di una non convenzionale “identità africana”[6].

Queste operazioni, sempre più pressanti e a grande scala, stanno cancellando, almeno sulla carta, le aree informali, facendo spazio agli urban gating, isole ed enclave separate dalla città dei poveri. Eppure, gli spazi flessibili dell’informalità, modellati direttamente dagli abitanti con confini indefiniti tra uso pubblico e privato, paradossalmente sembrano rappresentare in maggior misura il carattere autentico e contraddittorio della città africana contemporanea (Sennett 2018). In opposizione all’omologazione culturale e morfologica con cui crescono le grandi città, si comincia oggi ad affrontare il problema di quale modello abitativo proporre in alternativa agli slum, che non segua le logiche della globalizzazione ma che nasca dalle culture locali, valutando ipotesi di rigenerazione urbana e di rivisitazione dei modelli spontanei di occupazione del suolo.

Inoltre, in antitesi alle grandi concentrazioni urbane, nell’immenso villaggio informale disteso sul territorio ̶ sommatoria, o meglio, sviluppo frattale di infiniti microvillaggi ̶ si assiste oggi a piccoli ma diffusi interventi connessi a strategie di aiuto umanitario, attraverso progetti not-for-profit soprattutto nel campo assistenziale, come i centri educativi e sanitari. L’obiettivo è quello di sostenere lo sviluppo delle realtà rurali con il coinvolgimento delle comunità locali, che aiuterebbe anche a disincentivare il grande esodo delle popolazioni verso le metropoli, senza prospettive reali di sussistenza.

Tradizione e memoria: la nuova generazione di architetti africani

Oltre che con le problematiche di natura economica e sociale, su cui si impegna attivamente anche la cooperazione internazionale, il continente africano si misura oggi con la questione, apparentemente meno impellente ma più delicata, dell’identità culturale. La molteplicità delle tante “Afriche” presenti nel continente, non corrisponde solo ad un fatto geografico e politico, e non coincide con i confini nazionali, ma è frutto di stratificazioni culturali ed etniche che rendono particolarmente complesso e articolato il quadro identitario di questo continente, in cui si riconoscono le componenti indigena, islamica e giudaico-cristiana (Holm-Kallehauge 2015).

Il processo storico costituito dalle fasi di colonizzazione-decolonizzazione-globalizzazione, fino all’attuale colonizzazione globale, ha esercitato, ed esercita tuttora, un’influenza profonda nella cultura architettonica africana, nell’ambito della quale si possono riconoscere diversi atteggiamenti, figli dell’orgoglio panafricano e della rivendicazione delle radici culturali precoloniali che aveva caratterizzato il movimento della Négritude.

Da una parte, dai contesti metropolitani proviene una riflessione che fa i conti con l’eredità coloniale e con gli effetti della globalizzazione contemporanea, ma anche con gli stereotipi legati all’identità, o meglio, alle identità africane. Gli artisti e architetti contemporanei spesso rifiutano il riferimento alla “tradizione” per produrre opere basate sul sincretismo e sul meticciato, che del resto hanno sempre caratterizzato questo continente. Concentrandosi su questioni socioculturali e geopolitiche rappresentative della complessa realtà contemporanea, lavorano sulla contaminazione tra le culture, compresa quella del “villaggio globale” e del nuovo cosmopolitismo metropolitano (Njami-Motisi 2018).

Dall’altra parte, nei contesti rurali sta emergendo un rinnovato approccio, semplice e autentico, ai bisogni delle comunità, fondato sul rapporto dell’architettura con il luogo di appartenenza e sulla rivisitazione degli aspetti rituali, simbolici, arcaici dell’abitare e del costruire ancora presenti nei villaggi.

Al di là dell’attenzione storico-documentaria verso il patrimonio architettonico delle aree rurali, concentrata in maggior parte su quei beni che possiedono valore estetico e caratteri di eccezionalità[7], nel recente passato è venuto meno l’interesse economico alla conservazione, non solo fisica, ma soprattutto culturale di questa eredità, in gran parte immateriale; l’edilizia tradizionale sta gradualmente scomparendo e con essa i valori che ne conseguono in termini di memoria storica e di identità del costruito, ma soprattutto di sopravvivenza della cultura materiale e delle conoscenze tecnico-costruttive tramandate (Oliver 1971, Denyer-MacClure 1976, Silberfein 1998).

Fortunatamente, accanto al nuovo professionismo legato al mondo del volontariato e delle grandi istituzioni umanitarie internazionali, sta emergendo una giovane classe di progettisti africani: una generazione di architetti formatasi in scuole occidentali che è tornata ad operare nel proprio territorio, con una nuova consapevolezza e con un orgoglioso sentimento di appartenenza.

Questi progettisti, operanti in diversi paesi dell’Africa subsahariana, propongono un’architettura regionale che non si limita ad affrontare i pressanti problemi emergenziali, ma che si confronta con il tema universale del rapporto uomo-natura; una diade che sembrava risolta nella civiltà occidentale attraverso un approccio strettamente antropocentrico e razionale imposto sulla complessità del reale, ma che sta ora mostrando tutti i suoi squilibri (Lepik 2013).

Questi architetti perseguono una diversa «modernità come ritorno alle origini», per «far rivivere una vecchia civiltà assopita e prendere parte alla civiltà universale» (Ricoeur 1965). Essi riprendono e rivisitano i caratteri vitali e ancora attuali delle tradizioni africane (Arecchi 1999) attraverso opere legate alle specificità dei luoghi, alla loro morfologia, alla vegetazione e al clima, e che attribuiscono una priorità alla componente fisica dell’architettura e all’espressività dei materiali costruttivi.

Le loro architetture si misurano con gli elementi originari della natura, che mostrano da sempre in quelle aree la loro ricchezza ma anche quella forza indomabile con cui perfino le potenze più tecnologizzate si stanno scontrando oggi. Sono manufatti che modellano la terra, raccolgono l’acqua, gestiscono l’aria, custodiscono il fuoco. Vi si riconoscono gli archetipi del “recinto” e della “copertura”, nel loro presentarsi come semplici diaframmi murari disposti sotto grandi ripari sollevati. Sono architetture che interpretano in modo originale la continuità tra spazio interno ed esterno e la commistione tra spazio pubblico e privato, rivisitando modelli edilizi e insediativi derivati dalle tradizioni abitative locali.

In realtà, questa recente architettura africana nasce con un obiettivo prioritariamente pragmatico: fornire soprattutto quelle strutture pubbliche di cui hanno bisogno le comunità dei villaggi, ed insieme, formare delle figure di artigiani direttamente in cantiere, attraverso l’utilizzo di tecniche tradizionali o accortamente innovate.

Si praticano spesso processi di autocostruzione assistita, proponendo criticamente una forma aggiornata di “architettura senza architetti” attraverso manuali e linee guida indirizzate agli attori del processo progettuale ed esecutivo, sulla scorta dell’appassionante esperienza di Yona Friedman. Si sperimentano anche inediti modelli abitativi e costruttivi, per certi versi vicini alla tradizione nomadica, composti da strutture leggere e flessibili, realizzate con prodotti industriali e standardizzati o con materiali di riuso.

Si introducono inoltre fattori innovativi dal punto di vista della sostenibilità ambientale ed energetica, standard adeguati al benessere e ai modi di vita contemporanei e comunque rispettosi delle specificità socio-culturali locali, con soluzioni idonee a fronteggiare le sempre più impellenti problematiche igienico-sanitarie.

I temi compositivi legati al paesaggio, all’abitare e al costruire con cui questi architetti si misurano, stanno generando un linguaggio comune, a cui aderiscono con naturalezza anche progettisti non africani operanti in questi territori. Modelli insediativi, tipologici e costruttivi ricorrenti e ripetuti con piccole variazioni, scaturiscono dall’integrazione nei luoghi, dall’aderenza alle culture materiali e ai bisogni delle comunità e degli individui; traggono forza dalla ritualità del ripetere atti antichi, ma che ogni volta si rinnovano, anche grazie agli scambi con le altre culture, tra cui quella occidentale.

In questo senso, si assiste a una globalizzazione positiva, consistente nella condivisione di linguaggi architettonici essenziali e originari con una visione cosmopolita. È un’apertura necessaria, considerando che i nuovi interventi non possono non fare i conti con la penetrazione e l’influenza della cultura globale contemporanea, a cui le comunità aspirano ad aderire, perché associata all’idea di benessere economico e di sviluppo sociale. 

In particolare, nei territori rurali dell’Africa subsahariana operano, dai primi anni 2000, molti interessanti progettisti, ormai riconosciuti a livello mondiale.

Da una parte troviamo architetti africani pienamente inseriti nel panorama internazionale, che uniscono un approccio multiculturale a un’introspezione identitaria: David Adjaye, nato in Tanzania, con studi a Londra, New York e Accra, in Ghana, tra le cui opere ricordiamo il National Museum of African American History and Culture a Washington, il Ruby City Contemporary Art Center a San Antonio in Texas, la National Cathedral e il District Hospitals in Ghana, il Memoriale dei Martiri a Niamey; l’architetto nigeriano Kunlé Adeyemi, progettista di OMA prima di fondare lo studio NLÉ con sedi in Nigeria e Olanda, ideatore della Makoko Floating School a Lagos; il ghanese Joe Osae-Addo con studi in Ghana e negli Stati Uniti, uno dei principali promotori dell’attuale dibattito internazionale sull’architettura africana contemporanea attraverso l’organizzazione ArchiAfrika. Accanto ad essi troviamo architetti formatisi all’estero e operanti prevalentemente in Africa: Diebédo Francis Kéré che ha reinvestito nel suo paese le conoscenze acquisite in Germania, sperimentando un rinnovamento delle tradizioni locali a partire dalle scuole costruite nel suo villaggio natale di Gando in Burkina Faso; la nigeriana Mariam Kamara, allieva di David Adjaye, che vive a Boston ma con studio a Niamey, autrice del complesso residenziale Niamey 2000, del complesso religioso e laico Hikma e del Mercato regionale a Dandaji, del Centro culturale di Niamey; Christian Benimana, direttore di MASS Design Group in Rwanda, che ha creato a Kigali il primo African Design Centre. Interessante è anche l’attività di gruppi di progettisti internazionali quali Konkuey Design Initiative (KDI) con sede principale a Nairobi e Active Social Architecture (ASA) con sede a Kigali. Infine, sono da citare i tanti architetti sudafricani, tra cui: Peter Rich, Noero Wolff Architects, Makeka Design Lab, A4AC Architects, Local Studio, Tsai Design Studio, Studio[D]Tale, DesignSpaceAfrica.

Una delle esperienze più significative è quella di Francis Kéré, che si occupa dei servizi necessari per le comunità di piccoli villaggi, rendendole parte attiva nel processo ideativo e costruttivo. Attraverso una progettazione sostenibile e a basso costo, adotta principi che valorizzano le risorse materiali e umane presenti nei territori. Ibridando materiali e adattando tecnologie avanzate ai contesti locali, nelle sue opere sostituisce l’uso comune del calcestruzzo con blocchi di terra stabilizzata o pietra locale e adotta doppie coperture con ampi tetti metallici distaccati dai corpi di fabbrica, per la ventilazione e il raffrescamento passivo, per la protezione dalle piogge e la raccolta dell’acqua e per creare ampie zone d’ombra e di sosta all’aperto. Le sue ormai numerose opere non sono mai vernacolari, ma fondono il linguaggio dell’architettura moderna con la chiarezza delle architetture “primitive”. La maggioranza di esse è realizzata in Burkina Faso, sua terra di origine: il complesso educativo di Gando ‒ costituito da due scuole primarie e una secondaria, una biblioteca e alloggi per docenti –, la Scuola secondaria a Dano, il Centro medico di Léo, l’Orfanotrofio di Noomdo, il Liceo Schorge di Koudougou, l’Opera Village di Laongo. E ancora, Kéré ha progettato in Mozambico un insediamento per la comunità residenziale di Benga Riverside e in Kenia lo Startup Lions Campus.

Parallelamente sempre più numerosi architetti esteri operano nei paesi africani, condividendo un medesimo approccio al progetto e linguaggi confrontabili; tra i più noti: gli spagnoli Urko Sanchez Architects con sede a Madrid e Nairobi, Albert Faus con sede in Burkina Faso, Selgas Cano; lo studio olandese LEVS Architecten che lavora in Mali; il portoghese ColectivoMEL; il tedesco Studio Mzamba; il newyorkese Sharon Davis Design; il francese Collectif Saga; l’inglese Orkidstudio con sede a Nairobi; i belgi BC architect.

Per quanto concerne i progettisti italiani, TAMassociati è tra gli studi professionali più attivi nella realizzazione di strutture sanitarie in Sudan e Darfur, in collaborazione con Emergency. Gli interventi in Mali e Burkina Faso dello studio Caravatti, particolarmente attenti ai contesti, introducono aggiornamenti tecnici, come ad esempio nella volta nubiana.

Ogni progettista sembra leggere nel contesto africano qualche aspetto della propria cultura: mentre i giapponesi Toshiko Mori (autore di un centro culturale e di una scuola in Senegal) e Shigeru Ban (che ha sperimentato case per rifugiati in Kenya) si misurano con la raffinata tradizione del legno, del bambù, della tessitura e dei materiali leggeri, gli italiani guardano maggiormente alla solida cultura muraria.

Questo breve excursus dimostra che l’approccio all’architettura africana da parte dell’Occidente è stato, ed è tuttora, influenzato inevitabilmente da uno sguardo occidentale, anche quando si prova a cambiare prospettiva. E ciò vale anche al contrario, nell’approccio degli africani verso l’Occidente.

Tuttavia, questo condizionamento reciproco, se assunto con consapevolezza, è all’origine di quell’arricchimento delle civiltà che si produce attraverso uno scambio di sguardi incrociati, e consente di interpretare il concetto di identità come una condizione mutevole e aperta alle ibridazioni.

Ma soprattutto, noi occidentali ci stiamo rendendo conto, come rilevavano Frobenius e Lévi-Strauss, che guardando al mondo africano nelle sue espressioni più originali e autentiche, osserviamo indirettamente noi stessi e le nostre origini. Si possono, infatti, rintracciare molti caratteri comuni alle diverse culture, derivanti dalla condizione umana dell’“essere nel mondo”. Lo studio dell’architettura africana consente, ad esempio, di avvicinarsi agli atti originari ed essenziali dell’abitare e del costruire, universali e al tempo stesso legati agli ambiti regionali. Indirizza anche a riflettere su forme insediative e abitative alternative a quelle consolidate nella cultura occidentale, fondate su diversi rapporti tra spazio pubblico-privato e tra luoghi dell’abitare e del lavoro.

Il contesto africano spinge, inoltre, a considerazioni ancor più radicali sul ruolo dell’architettura come “bene comune” diffuso nella società; valutazioni necessarie nella civiltà occidentale, dove l’architettura e il settore delle costruzioni, che apparentemente prosperano, esprimono una crisi del senso comune e dei significati dell’abitare e del costruire.

E ancora, la conoscenza delle culture africane spinge a riconsiderare la condizione anonima e collettiva del progetto e la permanenza delle sapienze materiali basate su principi progettuali semplici e tecniche sostenibili integrate con l’ambiente. Pone, inoltre, un focus sullo sviluppo dei processi partecipativi che uniscono le figure dell’ideatore, del costruttore e del fruitore.

L’incontro e lo scambio tra la cultura occidentale e le culture autoctone, può altresì favorire un arricchimento reciproco dal punto di vista metodologico. Culture abitative e costruttive fondate sui bisogni primari e su tecniche spontaneamente tramandate, se interpretate attraverso l’approccio analitico e il metodo scientifico occidentale, possono generare risultati interessanti e innovativi. Da una parte le comunità locali possono raggiungere un miglioramento dei loro modi di vivere e di costruire, grazie a buone pratiche ambientali e igienico-sanitarie e attraverso innovazioni tecniche applicate ai materiali e ai processi costruttivi. Dall’altra parte, per la cultura occidentale, l’attenzione sempre più diffusa alla sostenibilità e alla riconversione ecologica, la necessità di garantire un equilibrio tra paesaggi naturali e artificiali e la biodiversità negli habitat antropizzati, la tendenza al minimalismo, all’essenzialità, all’autenticità, alla naturalità e alla condivisione dell’architettura, possono trarre risposte non convenzionali dalle culture non globalizzate.

Se inserito in questo quadro di questioni, “imparare dall’Africa” non ci appare più un facile slogan funzionale a pacificare le cattive coscienze, ma una opportunità reale per riflettere, indirettamente, sul nostro modello di progresso ormai in crisi, e per immaginare una nuova direzione condivisa di sviluppo globale attraverso il locale.

Note

[1] Cfr. Rural Africa in motion. A Dynamics and drivers of migration South of the Sahara, report a cura della FAO, 2017.

[2] Si prevede che entro il 2050 la popolazione urbana in Africa arrivi a rappresentare il 20% di quella mondiale. Le città africane conteranno 950 milioni di cittadini in più rispetto agli attuali. Cfr. Africa’s Urbanisation Dynamics 2020. Africapolis. Mapping a new urban geography, ricerca che ha prodotto “Africapolis”, una mappa interattiva disponibile sul web che mette a sistema informazioni utili alla comprensione del fenomeno urbano nel continente africano (https://africapolis.org/en). Analisi e proposte sulle trasformazioni degli insediamenti africani sono costantemente documentate in pubblicazioni a cura di UN-Habitat (https://unhabitat.org/).

[3] Accanto ai numerosi architetti attivi nel nord Africa (Fernand Pouillon, Roland Simounet, Jean Bossu, Louis Miquel, Pierre Bourlier e José Ferrer-Laloë, Oscar Niemeyer in Algeria, Hassan Fathy in Egitto, Michel Écochard, Jean-François Zevaco, Elie Azagury, Abdeslam Faraoui e Patrice de Mazières, Henri Tastemain in Marocco), dell’Africa subsahariana hanno operato architetti locali quali: il nigeriano Demas Nwoko, i tanzaniani Anthony Almeida e Beda Amuli, il portoghese-mozambicano Pancho Guedes, l’etiope Michael Tedros con l’israeliano Zalman Enav, il nigeriano Oluwole Olumuyiwa, il sudafricano Norman Eaton, e architetti europeri quali: il francese Henri Chomette, il greco Constantinos Doxiadis, i britannici Edwin Maxwell Fry e Jane Drew ̶ esponenti della Tropical Architecture ̶ e D. A. Barrett, il tedesco Ernst May, gli italiani Renato Severino, Marcello D’Olivo, Arturo Mezzedimi, ma anche i più noti Pierluigi Nervi, Cesare Valle, Luigi Moretti e, qualche anno più tardi, Fabrizio Carola. In particolare, l’interesse italiano maturato in quegli anni verso la nuova architettura africana, è testimoniato dal numero monografico dedicato all’Africa di «Edilizia Moderna», n. 89-90, edito nel 1967. Cfr. Kultermann 1969; Folkers e Van Buiten 2019.

[4] Nel 1905-06 il gruppo dei Fauves iniziò a studiare l’arte dell’Africa subsahariana e dell’Oceania, in parte sotto l’influenza delle opere di Gauguin che stavano acquisendo visibilità a Parigi. Pablo Picasso, in particolare nel “periodo africano” (1907-1909), ha esplorato la scultura e le maschere tradizionali, riconoscendone la grande potenza formale.

[5] In Italia, l’interesse per l’Africa si colloca nell’ambito di quella rivalutazione della tradizione anonima e popolare che – dopo le indagini di Giuseppe Pagano sull’architettura rurale – si affermerà negli anni ‘50 e culminerà con la diffusione di Architecture Without Architects pubblicato nel 1964 da Bernard Rudofsky, in cui grande grande spazio è dedicato proprio all’architettura africana. Nel dicembre 1954 Ernesto Nathan Rogers pubblicava su Casabella Continuità un reportage sull’architettura tradizionale nell’Africa equatoriale, commentandolo con un testo critico sul concetto di “civilizzazione”.

[6] Una condizione espressa, a inizio anni ‘90, nelle utopiche visioni urbane dello scultore congolese Bodys Isek Kingelez, pastiche di grandi oggetti colorati oggi fonte di ispirazione per le megalopoli africane.

[7] Lo studio delle molteplici forme abitative tradizionali è incentivato dall’azione UNESCO di tutela degli Indigenous peoples and intangible cultural heritage. Il concetto di “patrimonio” così come si sta ampliando in ambito europeo, ben si adatta al contesto africano. Cfr. la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa per la tutela del patrimonio culturale del 2011, denominata “Convenzione di Faro”, che promuove una visione di patrimonio non come insieme di “oggetti” ma come «risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione».

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