Premessa
Negli anni in cui in Europa si va mettendo in discussione la Carta di Atene nei CIAM (da Aix-en-Provence nel ‘53 fino all’epilogo di Otterlo nel ‘59), in Brasile, con la presidenza di Kubitschek e la fondazione di Brasilia, si va invece consolidando l’idea di fare di un modernismo il veicolo culturale e sociale di una grande Repubblica in cerca d’identità. Quel progetto, il Moderno adattato ai caratteri brasiliani, vede protagonisti, già 30 anni prima di Brasilia, alcuni giovani architetti fra cui Lùcio Costa e Gregori Warchavchik con il “Manifesto dell’architettura razionale” (1925), nonché Le Corbusier con alcune conferenze (1929) e progetti-chiave come il nuovo Ministero dell’Educazione ed Igiene a Rio (1936).
I retaggi dell’architettura moderna, ancora oggi, sono molto vivi in Brasile e costituiscono i paradigmi culturali sui quali si fonda il lavoro di diverse generazioni di architetti brasiliani, giovani compresi. Questi ultimi, di fatto, appaiono disincantati dai prodotti globalizzanti delle archistar, mentre riescono ancora a valorizzare l’insegnamento lasciato dai maestri e dai loro allievi: da Costa a Vilanova Artigas, da Lina Bo Bardi ad Oscar Niemeyer, da João Filgueiras Lima a Paulo Mendes Da Rocha. L’eredità di un Moderno adattato ai caratteri locali, Carioca o Paulista che sia, è ancora ben visibile nelle architetture contemporanee brasiliane ed è così latente che sembra proteggere i giovani progettisti dalla tentazione dell’innovazione fine a sé stessa. Nelle loro architetture si coglie un fenomeno in continuità.
Il tema della rivista offre una particolare occasione per rimettere in fila alcuni fatti d’architettura del secolo scorso, accaduti tra Europa e Sudamerica, utile per allargare lo sguardo sul panorama delle opere sotto quella concezione critica di “architettura moderna e identità culturale”, che Frampton ha definito “Regionalismo critico”, dunque per accompagnare una riflessione “regionalista” intorno all’architettura di Scuola Paulista.
Prima di ogni ipotesi, è utile tenere a mente cosa si intenda con “Regionalismo critico” e lo facciamo riportando proprio quanto scrive lo storico inglese sull’edizione originale di Modern Architecture: A Critical History:
The term “Critical Regionalism” is not intended to denote the vernacular as this was once spontaneously produced by the combined interaction of climate, culture, myth and craft, but rather to identity those recent regional “schools” whose primary aim has been to reflect and serve the limited constituencies in which they are grounded. (Frampton, 1980, p. 313)
Frampton, dunque, non intende il vernacolare, piuttosto quell’architettura capace di riflettere (nel mondo) un’identità regionale.
Inoltre, per tenere traccia al percorso critico, appuntiamo tre concetti effettivamente in relazione, anche se apparentemente autonomi e distanti, che più avanti approfondiremo.
Primo: i sette caratteri, o meglio “attitudini” (Frampton 1986, p. 386), che Frampton indica per poter riconoscere l’architettura di una scuola regionale[1], appaiono in assoluta aderenza con i segni di una precisa produzione architettonica modernista - quella di Scuola Paulista - che qui ora vogliamo approfondire.
Secondo: dopo un primo periodo di “impostazione” del Moderno in Brasile, durato circa vent’anni a partire dai primi anni Venti e alimentato, anche direttamente, da Le Corbusier e alcuni architetti locali, dall’inizio degli anni Quaranta a San Paolo si è andata caratterizzando una pratica architettonica che, per usare le parole di Frampton, «svolge una critica della modernizzazione [e] rifiuta tuttavia di abbandonare quegli aspetti emancipatori e progressisti dei retaggi dell’architettura moderna». Si tratta della pratica di Scuola Paulista, e c’è un luogo costruito ed organizzato ad hoc dove ancora si può apprenderla: è la Faculdade de Arquitetura e Urbanismo da Universidade di São Paulo di João Batista Vilanova Artigas, che dal 1961 rappresenta un concreto simbolo della Scuola Paulista.
Terzo: come ha scritto recentemente Carlo Gandolfi in Matter of space. Città e architettura in Paulo Mendes da Rocha, un libro che inquadra la figura di Paulo Mendes da Rocha all’interno della Scuola Paulista, «per poter comprendere le radici concettuali di questo modo di guardare alla città e all’architettura, occorre fin da subito sgomberare il campo da un equivoco storiografico e critico di provenienza principalmente europeo, quello dell’etichetta brutalista». (Gandolfi 2018, p. 95) Una posizione che condividiamo pienamente.
Avanzeremo dunque esaminando questi tre concetti in altrettanti paragrafi.
La concezione regionalista e le “attitudini” del Sud America
Kenneth Frampton entra a far parte della redazione di Architectural Design (d’ora in poi AD) nel maggio ‘62 grazie a Theo Crosby e la sua prima copertina è il numero 8 dell’agosto dello stesso anno. A quanto pare Crosby quell’anno, in modo piuttosto originale, chiede a Frampton di insediarsi al suo posto come direttore tecnico. E ciò accade un po’ perché Crosby rimane colpito da alcune recensioni che Frampton aveva scritto su Art News e un po’ perché gli arriva un suggerimento da Monica Pidgeon, dalla direttrice storica e autorevole della rivista. Pidgeon, infatti, in un’intervista rilasciata a Charlotte Benton nel 1999[2], dice che in quella circostanza certamente qualcuno le aveva parlato bene di Frampton, anche se non ricorda chi. Lo storico Jorge Otero-Pailos, d’altra parte, osserva che Frampton in quegli anni è certamente coinvolto nel gruppo dei costruttivisti britannici come Crosby e che proprio gli artisti, dunque, possono rappresentare un collegamento fra i due. Il diretto interessato, Frampton, dice sul tema: «È una specie di enigma per me. Anche se avevo incontrato Theo, non facevo proprio parte della sua cerchia e non avevo scritto per la sua rivista. Peraltro avevo scritto pochissimo fino ad allora»[3].
La direzione di AD di Frampton, con i 31 numeri usciti tra il luglio del ‘62 e il gennaio del ‘65, si colloca tra quella di Crosby e quella di Robin Middleton, ma soprattutto si pone come una discontinuità in termini di politiche editoriali, considerato anche il poco tempo di lavoro che gli viene concesso[4]. Sarebbe meglio definirla una “sospensione”, dei tradizionali contenuti della rivista, rispetto a quella del predecessore e del successore che invece possiamo assimilare. Crosby e Middleton, infatti, spingono la generazione di neo-avanguardisti e tutti e due sono molto influenti con la rivista sulla più ampia cultura architettonica dando spazio a ideologie e suoi protagonisti: il primo con gli Smithson mentre il secondo con Cedric Price e gli Archigram. Frampton, invece, è principalmente interessato al “costruttivismo”, ma anche al modernismo “periferico”; ma è bene qui fare attenzione alle idee che il giovane direttore sta maturando dietro Pidgeon – con colei che ha la capacità di persuadere importanti “progetti” editoriali come quelli sul Sudamerica[5] - e dietro diversi viaggi in quelle regioni che chiamerà “città stato”[6].
Fin dai primi anni ‘60 l’attenzione di Frampton è orientata oltre i tradizionali confini dell’Europa e, non appena ha l’occasione di impostare AD, sarà lui stesso per primo a mettere in pratica una innovativa politica editoriale “enciclopedica”, come si evince dai suoi 31 numeri che attraversano lo sviluppo dell’architettura moderna in situazioni periferiche europee ed extra europee. E le “periferie extra europee” sono fondamentali per l’economia di questo contributo, perché riguardano il Messico, il Cile e soprattutto il Brasile. Accade così che, sebbene l’architettura di Inghilterra e Stati Uniti venga ancora sufficientemente riportata dalla rivista, sotto la direzione di Frampton AD sposta decisamente lo sguardo sull’Europa continentale e sull’America Latina.
Ciò che ci interessa particolarmente è che Frampton, con la direzione di AD e grazie ad alcuni viaggi di lavoro, sviluppa quel «desiderio di resistere alla tendenza a ridurre l’architettura a immagini» (Hallen-Foster 2003, p. 35-58). già nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Tuttavia, non possiamo affermare che in quegli anni la comunicazione di Frampton abbia avuto un impatto sulla cultura architettonica come lo hanno avuto quella di Crosby o di Middleton, nonostante il suo lavoro editoriale sia stato rivoluzionario. Possiamo però dire, riguardando oggi il passato, che quel suo breve e intenso lavoro è stato senza dubbio determinante per la ‘costruzione’ delle teorie intorno al Regionalismo Critico.
Due atteggiamenti in particolare segnano la posizione di Frampton sull’architettura durante la permanenza in AD: l’importanza e la creazione del luogo attraverso l’architettura e la sua realizzazione come fatto tettonico. Luogo e tettonica sono condizionati dalla fisicità dell’opera, dalla propria forza materica, dalla sua autenticità. A ben vedere, sono caratteri di una fenomenologia che trae origine anche dalle sue poche opere realizzate e dal pensiero di Hannah Arendt a cui è legato.
Frampton durante il suo mandato in AD è chiaramente attratto dall’architettura con una certa materialità strutturale, spesso riprodotta attraverso la fotografia in bianco e nero, da quella che si pone in forma di servizio sociale piuttosto che arte pura e dove è chiara che l’estetica è parte di quella stessa etica che esprime. E questa tesi Frampton la racconta a Otero-Pailos nel 2010: «fare edifici in cui le persone potessero perseguire esperienze estetiche era un impegno etico in relazione, e appropriata, alla politica sociale progressista» (Otero-Pailos 2010, p. 183). Frampton non ha mai abbandonato le sue idee, negli anni Sessanta ha anche dato spazio agli enormi cambiamenti tecnologici che in quel momento stavano influenzando l’architettura; anzi, una volta lasciata la rivista AD per prendere la strada dell’accademia come storico dell’architettura, le ha sviluppate in principi fenomenologici al centro della teoria sul Regionalismo Critico. Parliamo di quell’architettura che non abbandona i retaggi del Moderno, che attribuisce importanza al territorio da insediare, che si pone come fatto tettonico, che si identifica con il luogo e con l’ambiente dove si situa, che accentua la percezione tattile e visiva, che presenta occasionalmente elementi vernacolari reinterpretati, che sia «in grado di sfuggire alla tensione ottimizzante della civiltà universale». (Frampton 1986, p. 387)
Nel 1964 Frampton, prima di lasciare AD, inizia a frequentare l’università di Princeton dove rimarrà ad insegnare fino al 1972. Le porte di Princeton a Frampton si aprono grazie a Peter Eisenman, che aveva conosciuto a Cambridge tramite Colin Rowe, con cui rimarrà sempre in buoni rapporti tanto da condividerci, insieme all’argentino Gandelsonas, la fondazione della rivista Oppositions. Nel 1970 Middleton, due anni prima che Frampton andasse alla Columbia University, lo incarica di scrivere quello che dieci anni dopo pubblicherà col titolo “Modern Architecture: A Critical History”. Un testo, inutile ricordarlo, divenuto di riferimento in tutto il mondo.
Architettura moderna e identità in Brasile
In Brasile, prima dell’arrivo di Le Corbusier, che come scrive Argan «ha segnato un’epoca, come nel Cinquecento l’arrivo di Serlio in Francia o nel Seicento il ritorno di Inigo Jones in Inghilterra con i testi del Palladio e dello Scamozzi», (Argan 1954) le espressioni del Moderno iniziano a vedersi grazie alla “Settimana d’Arte Moderna” di San Paolo. La “Semana”, nata nel 1922 e dal 1951 “Biennale”, si rivela soprattutto l’occasione per discutere dell’architettura moderna in Brasile. Qualche anno dopo, nel 1925, alcuni giovani architetti fra cui Gregori Warchavchik e Lúcio Costa decidono di riunirsi intorno a un “Manifesto dell’architettura razionale” promuovendo l’adozione delle teorie funzionaliste europee. Aldilà delle ideologie, per i brasiliani la modernità rappresenta innanzitutto un riscatto dalla storia, ovvero un calcolato oblio del ricordo coloniale. E il Moderno, con la sua carica progressista, risponde bene a questo riscatto.
È bene tener presente che negli anni Venti e Trenta, nonostante la cultura brasiliana si confronti a San Paolo, cioè nella città più industrializzata del Brasile, il centro delle arti è Rio de Janeiro, la capitale federale, e per l’architettura ne capiremo subito il motivo. È a Rio, infatti, che è istituita, sin dal 1896, una sezione di Architettura presso la Scuola di Belle Arti e qui si laureano, tra gli altri, Lúcio Costa (1924), Affonso Eduardo Reidy (1930), Oscar Niemeyer (1934) e Roberto Burle Marx (1934), ovvero le firme più note del primo modernismo brasiliano.
Lúcio Costa, che vive l’adolescenza in Europa e dove si appassiona ai movimenti d’avanguardia, dopo la laurea, a Rio, è un acceso animatore della cultura modernista. Ed è così preso dalla causa progressista che nel 1930, quando assume la direzione della Scuola dove aveva studiato, incarica di docenza tutti quegli architetti che cinque anni prima avevano sottoscritto con lui il “Manifesto”. Insomma, è a Rio, e per merito di Costa, che si iniziano a diffondere in Brasile i nuovi ideali moderni e a rompere gli schemi conservatori dell’Accademia. E la sua azione, malgrado la brevità, rimarrà comunque fondamentale per la scuola Carioca. Un anno dopo infatti, nel 1931, Costa è costretto a lasciare per quelle idee progressiste poco condivise dalla politica nazionale.
Nel 1929 Le Corbusier è ufficialmente invitato a tenere un ciclo di conferenze in Brasile, prima a Rio e poi a San Paolo. Nell’occasione Lúcio Costa, docente nella sezione di Architettura, ed altri architetti brasiliani nonché il suo miglior collaboratore che è Oscar Niemeyer entrano in contatto con il maestro svizzero grazie ad Alberto Monteiro de Carvalho, l’organizzatore delle conferenze. Questo “contatto”, difatti, sarà molto prezioso da lì a poco.
Nel 1936 Lúcio Costa, in rappresentanza di un team formato da Affonso Eduardo Reidy, Ernâni Vasconcelos, Carlos Leão, Jorge Moreira, Roberto Burle Marx e Oscar Niemeyer, viene incaricato dal ministro Gustavo Capanema del progetto per il nuovo Ministero dell’Educazione ed Igiene a Rio. Costa, in qualità di capogruppo, propone alla politica e ottiene di nominare come consulente alla progettazione l’amico Le Corbusier. Si tratta di una consulenza che durerà solo un mese, ma quel progetto, per Le Corbusier come per i brasiliani, rappresenterà un banco di prova fuori dall’Europa per i concetti contenuti nei “cinque punti di una nuova architettura”. Come è noto, il Ministero dell’Educazione ed Igiene farà decollare definitivamente l’architettura moderna in Brasile, ma quello che qui più ci interessa è che con quest’opera possiamo evidenziare come per i brasiliani era sì necessario prendere a modello l’architettura lecorbusiana, ma anche “alterarla” per poter inserire la machine à habiter in un paese tropicale. Insomma, la “lezione” di Le Corbusier era flessibile e lasciava dunque spazio ai brasiliani per riscattarsi definitivamente da una eredità coloniale.
Il lavoro messo in piedi da Costa a Rio si mostrerà poi ad un pubblico più ampio nel 1939 quando lui, Niemeyer, Burle Marx e Paul Lester Wiener realizzano il padiglione del Brasile alla Fiera Mondiale di New York: tra padiglioni di regime che si fronteggiano in preludio alla Guerra Mondiale, quello brasiliano appare come un’aria nuova della cultura moderna. Sopraelevato da pilotis e collegato a terra da una sinuosa rampa, il padiglione è sintomaticamente organizzato intorno ad una corte con un giardino esotico disegnato da Burle Marx.
Con gli anni Quaranta l’esperienza architettonica brasiliana diventa ancor più nota.
In Europa – dove s’era andato disperdendo l’insegnamento del Movimento Moderno, mancando, in particolari situazioni politiche, i presupposti di un libero dibattito culturale – quando compaiono, dopo il 1945, alla fine della guerra, i primi reportages sulla architettura in Brasile, sembra a tutti gli architetti europei di rivedere in quelle manifestazioni la felice continuità con le esperienze così drammaticamente troncate, arricchite da un linguaggio nuovo, stimolante e pieno di spunti geniali. (Bracco 1967, p. 35)
Una notevole visibilità è data dalla mostra organizzata nel 1943 da Philip L. Goodwin al MoMA di New York, con catalogo dal titolo Brazil Builds. Un altro importante contributo alla diffusione della maniera brasiliana sarà dato dalle riviste. Oltre Habitat di Lina Bo Bardi e Modulo di Oscar Niemeyer, ricordiamo L’Architecture d’Aujourd’hui, Progressive Architecture e Zodiac. Non mancheranno le critiche, sopra tutte quelle di Max Bill che dalle pagine di Architectural Review rimprovera agli architetti brasiliani di aver dato vita a una moda.
Tuttavia l’architettura moderna brasiliana, di scuola Carioca o Paulista, dal secondo dopoguerra viene apprezzata in tutto il mondo per la capacità di rappresentare i caratteri locali e di essere una valida alternativa all’International Style. E quei caratteri esotici intrisi nell’architettura moderna interessano più tipologie, compresa la residenza pubblica dove in Brasile è già una questione sociale. Se Niemeyer a Pampulha si misurerà con i servizi, con il ristorante Baile, lo Yatch Club e la chiesa di San Francesco, sul tema, appunto, dell’abitazione sociale ci sarà Costa che realizzerà un’interessante integrazione tra edifici e parco al Guinle (1948-50) a Rio, e poi Henrique Mindlin e i fratelli Roberto, rispettivamente con le residenze Tres Leões (1951) a San Paolo e Marques de Herval (1956) a Rio, e soprattutto Affondo Eduardo Reidy con il complesso di Pedregulho (1947-50) e il quartiere per gli impiegati statali di Gàeva (1950-58) a Rio. Tutte opere in cui troviamo sempre un’allusione al tropicalismo grazie anche alle sistemazioni esterne di Burle Marx e ai mural di Candido Portinari.
La Scuola Paulista come critica della modernizzazione
Dagli inizi degli anni Quaranta del XX secolo il modernismo brasiliano si sposta quasi esclusivamente a San Paolo, se escludiamo il periodo di Brasilia, e se facciamo un paragone con quanto accade nelle restanti ‘città d’architettura’ del Brasile: Rio, Belo Horizonte, Curitiba e Porto Alegre.
A San Paolo, dove Gregori Warchavchik firma le prime case moderniste tra cui Casa su Rua Jtapolis (1930)[7], all’inizio degli anni ‘40 torna Rino Levi (già a Roma con Piacentini) e poi arrivano anche Bernard Rudofsky e Daniele Calabi. Questi tre architetti iniziano a realizzare case secondo una tipologia a patio, disponendo i volumi intorno a uno spazio aperto con la chiara intenzione di instaurare un dialogo con la natura[8].
In questi stessi anni e luoghi inizia la professione João Batista Vilanova Artigas, una personalità di spicco con una visione idealista a sfondo sociale. Nato a Curitiba ma laureatosi come ingegnere-architetto nel 1937 presso la Scuola Politecnica dell’Università di San Paolo, Vilanova Artigas sarà anche nel 1948 tra i fondatori della FAU-USP. Dopo le prime case caratterizzate da alcuni elementi di origine wrightiana[9], è con il complesso Louveira (1946-49) che Vilanova Artigas inizia a presentare innovazioni architettonico-urbane di un certo rilievo, ovvero una continuità spaziale pubblico-privata tra due edifici residenziali e la strada che diventerà uno dei tratti distintivi della sua ricerca. In questo periodo Vilanova Artigas inizia a lavorare con pilotis e lunghe rampe di collegamento che, come tema, si ritroveranno nell’ospedale di San Lucas a Curitiba (1945), nella Casa Czapski (1949), nella Seconda Casa Artigas (1949) e nella stazione bus Londrina (1950). Anche questi due elementi avranno un ruolo importante nell’evoluzione dell’architettura di Artigas, in un modo più rigoroso e monumentale rispetto a Niemeyer, verso un’articolazione della forma strutturale che dialoga sempre più con la topografia del luogo e che diventerà la cifra distintiva della Scuola Paulista. Come scrive Frampton, «Ciò che la Scuola Paulista aggiunse a questo esuberante linguaggio topografico fu un atteggiamento tettonicamente più rigoroso verso l’articolazione della forma strutturale». (K. Frampton, 2010, p. 5)
Dopo il soggiorno negli Stati Uniti del 1947, dove ha modo di confrontarsi con alcuni esuli del Bauhaus, Vilanova Artigas avvia un’intensa attività di scrittura[10] attraverso la quale esprime le proprie convinzioni sul ruolo dell’architettura in un mondo capitalista. Parallelamente, la sua ricerca progettuale inizia ad avvicinarsi alle strutture di ampie luci fino a quelle coperture-diaframma sotto le quali sviluppare un intero programma funzionale, pubblico o privato che sia. La piccola scala dotata di funzioni urbane, in una metropoli come San Paolo, è alla base delle strutture pubbliche, come lo Stadio Morumbi (1952) progettato insieme a Cascaldi. La Casa Taques Bittencourt (1959), invece, un patio tra due muri in cemento armato su quattro punti di appoggio, è l’archetipo delle sue opere più importanti degli anni Sessanta. La Bittencourt, insieme alla Casa Baeta (1956), Casa Ruben de Mendonça (1958) e Casa Ivo Viterito (1962), oltre che rappresentare esempi di minimalismo strutturale, sono anche basi per indagare i materiali, soprattutto il calcestruzzo a vista, verso la definizione dei caratteri fondamentali della Scuola.
Un’altra figura importante della Scuola Paulista è Lina Bo Bardi. Allieva di Giò Ponti, si trasferisce in Brasile nel 1946 insieme a Pietro Maria Bardi, influente critico d’arte e gallerista. Il Brasile per Lina si scoprirà come terreno ideale per un ritorno ai valori primordiali, grazie alla cultura indigena brasiliana. L’attenzione che ha dedicato alla cultura materiale e spirituale del Brasile è da considerarsi sovversiva rispetto ai canoni culturali dell’epoca: ma questo le permetterà, insieme alla sua formazione razionalista, di sviluppare un particolare senso delle arti, un’integrazione razional-esotica che attraverserà per sempre la sua scrittura, la sua attività artistica e architettonica fino a quella ‘cultura come libera scelta’ che si ritrova nell’allestimento museografico del Museo d’Arte di San Paolo. La Casa de Vidro (1951) che realizza per sé racchiude in un certo senso il suo nuovo mondo: organizzata intorno ad una corte e disposta su un pendio tramite pilotis si apre col grande soggiorno sopra una lussureggiante natura esotica quasi abbracciandola. Bo Bardi difatti contribuirà alla consacrazione del linguaggio Paulista con due opere: il MASP (1968) e il SESC Pompéia (1986).
La serie di scuole commissionate dallo Stato di San Paolo all’inizio degli anni ‘60 ad alcuni architetti tra cui Vilanova Artigas rappresenta un’occasione per sviluppare quell’idea tanto auspicata di “spazio democratico e trasparente” sotto un’unica copertura. La sequenza, grandi volumi su appoggi minimi e spazi illuminati dall’alto attraverso bucature nella maglia strutturale, inizia con la scuola di ltanhaém (1959), poi con quella di Guarulhos (1960) e culmina con l’opera più conosciuta di Vilanova Artigas la FAU-USP (1961). «Non è un caso che l’opera più nota di João Batista Vilanova Artigas sia una scuola d’architettura. Per lui infatti, attività progettuale, formazione delle nuove generazioni d’architetti e militanza politica e professionale costituiscono un unico insieme». (Martins 2007, p. 33) In quest’opera sono tangibili tutti i caratteri che contraddistinguono la Scuola Paulista, qui si riconosce un luogo di aggregazione e di scambio di idee. L’insieme è una sintesi paradigmatica tra architettura, ingegneria e concezione ideologica; il programma funzionale della FAU-USP poggia sul progetto didattico che Vilanova Artigas e Flavio Motta elaborano per la Riforma del 1962. Come dice Paulo Mendes da Rocha nell’intervista rilasciata a Guilherme Wisnik nel 2008, «io vedo la FAU-USP come l’albero di Vieira e mi sento come uno di quei frutti». (Wisnik 2008, p. 135)
Gli elementi che ricorrono nell’architettura di Vilanova Artigas di questo complesso periodo sono le rampe concepite come pieghe dei solai e quelle soluzioni all’incastro, trave-pilastro, svuotati nei punti di apparente massima tensione. Egli perfeziona questi elementi in tre impianti sportivi, tutti del 1961: il San Paolo Football Club, il Tennis Club Anhembí e il circolo nautico per lo Yatch Club di Santa Paula.
La dittatura militare, se da un lato censurerà[11] il pensiero e l’insegnamento di Vilanova Artigas, dall’altro lo impegnerà molto come progettista, in particolare per definire una tipologia tettonica così flessibile da poter essere impiegata indistintamente dal grande edificio pubblico, come per la Stazione Bus a Jaù (1973), alla piccola residenza, come per Casa Mendes André (1966), Casa Elza Berquò (1967) e Casa Martirani (1969). Dopotutto, Vilanova Artigas pur «rivendicando sulle riviste la necessità di piani, di programmi operativi, soprattutto nel campo della residenza» [le sue opere] «non rinunciano all’idea che una operazione architettonica, qualificata ed autonoma, possa avere di per sé tanto valore da riscattare situazioni che invece vanno affrontate ad altra scala ed in altri ambiti». (Bracco 1967, p. 76)
Paulo Mendes da Rocha inizia a collaborare con Vilanova Artigas nel 1959, col suo maestro condivide la necessità di un compromesso tra arte e politica per modernizzare il Brasile. Mendes da Rocha è difatti la figura che prenderà il testimone della Scuola Paulista per portarlo fino ai giorni nostri, grazie alle sue numerose opere e all’attività di formazione presso la FAU-USP. Oltre le opere pubbliche[12], che partono con il Clube Atlético Paulistano a San Paolo (1958), ciò che qui ci interessa in modo particolare sono le sue case degli anni Settanta quali esempi di una radicalità irriducibile di Scuola Paulista nonché paradigmi per molte generazioni di architetti. Sono la serie Millàn (1970), Masetti (1970), King (1972-74), Junqueira (1976-80), e poi in particolare la propria casa del 1966 alla quale bisogna guardare per trovare una comune chiave di lettura. In Casa Mendes da Rocha, come nelle successive, l’orografia originale diventa condizione del progetto dove un volume astratto e omogeneo, apparentemente chiuso, si cala fino ad una certa altezza in base alla quota di terreno lasciando in chiaroscuro il piano d’accesso. Ancora una copertura-diaframma “alla Artigas” che domina tutto, che asseconda la natura del luogo e dove proprio l’articolazione di base permette una molteplicità di spazi-luoghi sia per la vita domestica, riservata da un lato, che per l’incontro, open space dall’altro, come il suo maestro gli aveva insegnato.
Le ragioni che allontanano la Scuola Paulista dall’etichetta “brutalista” le possiamo trovare innanzi tutto nel testo “Os Caminhos da Arquitetura Moderna” di Vilanova Artigas. Questo testo più “Le Corbusier e o Imperialismo” del 1951, entrambi pubblicati dal Partido Comunista Brasileiro, esprimono l’inquietudine dell’architetto davanti al rischio del Movimento Moderno di asservire l’imperialismo. Vilanova Artigas inizia affermando che “nessuna forma di architettura moderna sembra assurda e scioccante, dando l’impressione di essere prodotto del caso e della fantasia”. E poi prosegue: «ogni scuola, ogni tendenza, è costruita su un certo numero di premesse, e le forme degli edifici che creano gli architetti affiliati [a quella scuola] non sono solo il prodotto della loro fantasia, ma anche una conseguenza logica di queste premesse». È chiaro che gli anni ‘50 sono anni di disputa ideologica combattuta sul corpo dell’architettura moderna.
Dallo stesso testo si capisce che le premesse della “Scuola”, a cui Artigas crede, sono quelle dell’antimperialismo, dell’attivismo, per scongiurare un futuro con «l’architettura moderna, come la conosciamo» perché «è un’arma di oppressione, un’arma della classe dirigente; un’arma di oppressori, contro gli oppressi». E alla fine si domanda:
cosa fare? Aspettare una nuova società e continuare a fare quello che facciamo noi, oppure abbandonare la professione di architetto, in quanto orientata in una direzione ostile al popolo, e lanciarci completamente nella lotta rivoluzionaria? Nessuno dei due. È chiaro che dobbiamo lottare per il futuro della nostra gente, per il progresso e per la nuova società, dando a questa missione il massimo sforzo possibile [...] creeremo uno spirito critico per dissipare il buono dall’inutile in architettura. Ma è anche chiaro che, finché non sarà stabilito o organizzato il legame tra gli architetti e le masse popolari, finché il lavoro degli architetti non avrà la gloria di essere discusso nelle fabbriche e nelle fattorie, non ci sarà architettura. (Artigas 2004, p. 35-50)
L’etichetta “brutalista” a Vilanova Artigas non è mai piaciuta, come conferma Wisnik: «insomma, in tutti questi brutalismi si percepisce una riduzione espressiva dell’architettura alla sua realtà tettonica, in un’operazione estetica che doveva essere caricata di motivazioni etiche». (Wisnik 2010, p. 12) Per ironizzare sulla qualificazione della Scuola Paulista come brutalista fatta da Bruno Alfieri sulle pagine di Zodiac nel 1960, Vilanova Artigas alla Biennale di San Paolo del 1965, facendo un omaggio a Carlos Millán dice: «le ultime residenze che [Millán] ha costruito a San Paolo rivelano una tendenza che la critica, soprattutto europea, chiama brutalista. Un brutalismo brasiliano, per così dire. Non credo che ciò giustifichi tutto. Il contenuto ideologico del brutalismo europeo è ben altro» (Wisnik 2010, p. 12). Tuttavia Zodiac, che dedica buona parte del numero 6 al “Rapporto Brasile”, offre a Flavio Motta, professore di Estetica e co-firmatario della riforma FAU-USP, di parlare con “Introduzione al Brasile” (Motta 1960, p. 61), dell’esistenza di una produzione locale, alternativa all’architettura di Rio, e di mettere in risalto la figura di Vilanova Artigas. Se fino a quel momento Artigas aveva ricevuto solo un’attenzione episodica da parte della pubblicistica, ora era il protagonista a San Paolo di una “attività dottrinale intensa”. È interessante notare come vari osservatori, intorno al ‘60, iniziano ad occuparsi dell’architettura di San Paolo con enfasi come una manifestazione collettiva e indipendente. Luiz Saia, ingegnere-architetto paulista, nel 1959 sul “Diario di San Paolo”, scrive un articolo dal titolo “Architettura Paulista” (Saia 2003, p. 106-119), dove elogia l’esistenza di una professionalità locale nata dai movimenti modernisti.
Alla fine degli anni ’60, il crescente apprezzamento dell’opera di Scuola Paulista e la sua legittimità a rappresentare un’architettura nazionale, difatti spinge la proposta di Paulo Mendes da Rocha, corredata della relazione di Motta, al concorso per il Padiglione del Brasile all’Expo di Osaka. Il progetto, tra varie espressioni, è selezionato proprio per il linguaggio di Scuola, nel quale si intravede una continuità e un interesse universale. Un tema, come è evidente, è la continuità o meno della Scuola Paulista, ovvero se si tratta di una architettura influenzata dai caratteri espressi a Rio oppure d’altro. Molta critica vede una persistenza di valori, sia formali che funzionali, e colloca la Scuola Paulista in una linea continua di sviluppo dell’architettura brasiliana dove è possibile riscontrare identità regionali. Contraria invece ad una continuità è la critica dello storico Yves Bruand autore del libro Architettura Contemporanea in Brasile nel 1973. Negli anni in cui si inizia ad avvertire un certo attrito e una rivalità tra le due scuole, il libro di Bruand si fa spazio con una delle analisi più accettate dalla critica sulla produzione di Scuola Paulista, che definisce ambiziosa, riconoscente di riferimenti, caratterizzata da un rigoroso funzionalismo, un portato tecnico che aspira all’industrializzazione dell’edilizia e un’estetica che valorizza «la forza, l’urto, la massa, il peso e i contrasti violenti». (Bruand 1973) Bruand, classificando per la prima volta quelle opere, con un tale insieme di caratteri, di “Scuola Paulista”, identificava già un’eredità di questa architettura, quella di Vilanova Artigas.
Marlene Milan Acayaba (1986) quando analizza l’architettura delle residenze dagli anni ‘40 ai ‘70 a San Paolo mette in luce alcuni caratteri di Scuola Paulista molto affini a quelli elencati da Frampton sul capitolo “Regionalismo”. Sono i “dieci comandamenti”: il rapporto delle case col paesaggio e la geografia, il blocco unico quale ordinatore urbano, lo spazio organizzato intorno al patio o un vuoto centrale, i volumi indipendenti, materiali saranno generici come il calcestruzzo armato e industrializzati, le relazioni sociali che si svolgono sotto una nuova etica. Il critico Hugo Segawa, invece, sostiene che
caratterizzare la produzione Paulista come “Brutalista” forza una relazione di ascendenza che minimizza le rimanenti influenze o le restrizioni stabilite da questo modo di fare architettura. È impossibile equiparare l’austerità dell’Inghilterra, una nazione che ancora subiva le conseguenze della guerra e soffocato dalla momentanea mancanza di materiali, con una nazione come il Brasile, che aveva poche risorse tecnologiche e la cui sobrietà architettonica (per non dire “rusticità estetizzata”) derivata dai limiti imposti dalle possibilità offerte dall’industria delle costruzioni civili. In questo senso, il cemento armato e le sue potenzialità plastiche ed estetiche (via Le Corbusier) erano il fronte tecnologico più avanzato a disposizione degli architetti brasiliani dell’epoca. (Segawa 2013, p. 175)
Siamo convinti che l’etichettatura brutalista dell’architettura paulista non regge né come precedente, se si considera la costruzione storiografica di Reyner Banham e le opere contenute in “The New Brutalism”, né come fenomeno parallelo, se ci si attiene a quella distinzione fatta sul “brutalismo” da molta critica anglosassone – quale esclusiva tendenza inglese degli anni ‘60 e’70 – e poi a quella battuta del suo principale teorico, ovvero di Banham stesso, quando ammette che i brutalismi erano finiti già nel 1966 quando veniva stampato il suo libro (Banham 1955, p. 1966).
Note[1] K. Frampton il tema lo affronta anche sulla rivista “Perspecta” quando nel 1983 pubblica il saggio Towards a Critical Regionalism: Six Points for an Architecture of Resistance, un testo di 6 punti che si appoggia su un’alternativa storiografica, da lui stesso aperta difatti negli anni ‘60, contro la minaccia dell’universalizzazione del linguaggio architettonico.
[2] Intervista di Charlotte Benton a Monica Pidgeon (9 luglio 1999), in “Pigeon, Monica (7 of 25) National Life Story Collection: Architects’ Lives”, British Library, Sound Archive, https://sounds.bl.uk/Oral-history/Architects-Lives/021M-C0467X0039XX-0700V0.
[3] Presentazione di Kenneth Frampton al Memorial Monica Pidgeon, Architectural Association, 23 novembre 2009 (https://www.youtube.com/watch?v=-oJ0lsfBuzE).
[4] Theo Crosby è stato redattore tecnico di AD per 8 anni e 7 mesi, Robin Middleton per 7 anni e 8 mesi, Kenneth Frampton invece per soli 2 anni e 7 mesi.
[5] Tra il ‘62 e il ‘64, più volte la rivista si è occupata di architettura e urbanistica sudamericana e in particolare dal Brasile. Ad esempio, il numero di maggio 1964 è per metà dedicato al lavoro di Oscar Niemeyer a Brasilia.
[6] K. Frampton, in Architectural Design, January 1965.
[7] Gregori Warchavchik con la Casa su Rua Jtapolis, molto apprezzata da Le Corbusier, si fregerà dell’appellativo di “pioniere dell’architettura moderna in Brasile”. Ma di lui vanno ricordate anche la Casa su Rua Santa Cruz (1927) e la Casa Max Graf (1929) che Giò Ponti, su Domus 64 del 1933, elogiava per quanto “dimostrino la loro grande capacità di adattamento ai paesi caldi e si inquadrino stupendamente nella vegetazione tropicale”.
[8] Di Rino Levi sono Casa Levi, Casa Milton Guper, Casa Castor Delgado Perez; di Bernard Rudofsky sono Casa in Rua Canadá, Casa Frontini; di Daniele Calabi sono Casa Calabi, Casa Ascarelli, Casa Medici, Orfanotrofio a San Paolo con Giancarlo Palanti.
[9] Si tratta della Casa Bertha Gift (1940), della sua Prima Casa (1942) e della Casa Rio Branco Paranhos (1943).
[10] In particolare con i tre scritti dal titolo Le Corbusier e o Imperialismo, Caminhos do Arquitetura Moderna e Uma falsa crise.
[11] Nel 1964 Vilanova Artigas è allontanato dalla FAU-USP insieme a Paulo Mendes da Rocha e Jon Majtrejean e poi nel 1969 sarà messo in pensione coattivamente. Artigas dovrà attendere l’amnistia, il 1979, per vedersi reintegrato prima come assistente e poi nel 1984 come ricercatore.
[12] Tra le sue tante opere sono da citare il Padiglione de Brasile all’Expo di Osaka 1970, la Capela de São Pedro a Campos Jordão 1987, il Magazzino Forma 1987, il MUBE 1988, la Pinacoteca di Stato 1993, la sistemazione di Praça do Patriarca a San Paolo 2002.
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