40 anni per un’Architettura della Resistenza. Un'intervista

Kenneth Frampton




Ugo Rossi: Professore, quando lei ha scritto “Critical Regionalism: modern architecture and cultural identity” (1980), il processo di universalizzazione era agli inizi, cosa è cambiato oggi da allora?

Kenneth Frampton: Non molto, tranne che il dominio del capitalismo corporativo globale è più forte che mai! Come, non molto tempo fa, disse Frederick Jameson (1991), è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo! Sarei il primo ad ammettere che il capitalismo come il neocapitalismo dopo la fine della seconda guerra mondiale è stato un momento molto produttivo nella storia europea, in particolare nei Paesi Bassi, in Scandinavia e per poco tempo nel Regno Unito e potremmo dire che la Danimarca oggi rappresenta ancora il trionfo di questa economia ibrida in termini di benessere della società in relazione al mondo naturale! Purtroppo, nulla potrebbe essere più lontano da questo dell’ascesa del neoliberismo negli anni ‘70 con Ronald Reagan, Tony Blair e Margaret Thatcher! Più o meno lo stesso sarebbe accaduto nei Paesi Bassi e ovunque.

UR: Il saggio di Ricoeur ha avuto un posto di rilievo in “Critical Regionalism”, il suo articolo infatti, inizia con una sua lunga citazione. Se dovesse scrivere sul Regionalismo critico oggi, quali sarebbero le fonti di ispirazione?

KF: Si potrebbe anche citare Antoine de Saint Exupéry, cosa che tranquillamente ho fatto all’inizio di Studies in Tectonic Culture, nel senso che “Noi non chiediamo di essere esseri eterni. Chiediamo solo che le cose non perdano tutto il loro significato”, oppure Truth and Method di Harris Georg Gadamer del 1975, come ho fatto nel mio A Genealogy of Modern Architecture nel 2015.

UG: Il testo “Critical Regionalism” è stato scritto con uno spirito che si oppone ai fenomeni di universalizzazione e postmodernismo. In quale modo lei pensa che il suo testo possa essere stato un tentativo di definire un percorso alternativo per il moderno?

KF: Il mio coinvolgimento con l’argomento del Regionalismo critico è stato uno sforzo per postulare un’espressione etica nel movimento Postmoderno.

UG: Se dovesse affrontare oggi un articolo sulla resistenza/opposizione alla universalizzazione e alla globalizzazione, quale percorso alternativo intravvederebbe?

KF: Cosa si può affermare sia oggi una cultura di resistenza? C’è un aspetto della mia tesi sul Regionalismo critico che spesso viene ignorato e cioè il concetto distrettuale di governo diretto che è sempre sicuramente latente nella città-stato italiana/europea. Da qui il mio interesse per il concetto di Hannah Arendt di “spazio di apparizione pubblica come regno micro-politico”. Questo porta a pensare all’importanza del centro scuola-comunità come luogo di resistenza. È significativo che un recente sindaco di San Paolo, che apparteneva al Partito dei Lavoratori di Lula, sia riuscito a costruire circa 30 scuole durante il suo mandato, tutte situate nelle favelas. Questo può essere visto come il regionalismo critico nella sua forma più resistente.

UR: Con il compimento dei processi di globalizzazione culturale oggi in atto, a quale scopo parlare di architettura regionale?

KF: Queste ultime domande ci riportano prima o poi alla stessa domanda che è in fondo una questione politica in cui l’architettura ha solo un ruolo minore da svolgere! Quindi, in questo senso, il Regionalismo Critico era già irrilevante anche all’inizio degli anni ‘80 quando fu formulato prima da Tzonis & Lefaivre (2001) e poi da me!

A questo proposito, è sempre stata un’operazione di mantenimento. Questo è sempre stato il caso di architetti che ho più volte identificato come Regionalisti Critici come Alvaro Siza, Glenn Murcutt, Antonio Coderch, Carlo Scarpa, Tadao Ando, ecc.

UR: In termini di processo progettuale, l’architettura regionale in cosa differisce da quella internazionale e/o globale?

KF: La leggenda narra che Ando una volta restituì una commissione a uno sviluppatore con le parole: “Penso che oltre una certa altezza l’architettura non sia più possibile”. Nello studio in 33 volumi, The Endless City researched by the London School of Economics (2007) si sottolinea che nel 1980 c’erano solo 120 edifici al mondo di oltre 8 piani di altezza, mentre nel 2005, 25 anni dopo, erano 10.000! a quel punto il 50% della popolazione mondiale viveva nelle città, molte delle quali in megalopoli con una popolazione che va dai 20 ai 30 milioni!

Ci sono studi di architettura aziendale in tutto il mondo che progettano mega grattacieli in queste città, ma rimane il dubbio se queste opere abbiano un qualche tipo di significato culturale, a parte l’inquinamento prodotto da tali strutture e il consumo di risorse non rinnovabili che esse rappresentano. Da questo punto di vista, il regionalismo critico è vicino all’etica del libro di Ernst Friedrich Schumacher, Small is Beautiful: A Study of Economics as if People Matted (1973).

UR: Il Critical Regionalism era una proposta alternativa al Postmodern, in risposta ai processi di internazionalizzazione e universalizzazione. Oggi, in risposta ai processi di globalizzazione, il Critical Regionalism non potrebbe essere piuttosto una necessità?

KF: Ciò che è necessario al giorno d’oggi è una significativa risposta mondiale al riscaldamento globale, ma questa, tragicamente non sarà la priorità del governo Biden quando subentrerà il 20 gennaio, anche se sicuramente aiuterebbe a riavviare l’economia statunitense!

P.S:

Caro Ugo, trovo che tutte le domande che mi hai posto siano variazioni sulla stessa domanda fondamentale: A che pro continuare con una tesi di “critica resistente” vecchia di quarant’anni quando siamo testimoni del trionfo globale della modernizzazione del tardo capitalismo neoliberista?

La tua critica dell’attuale situazione é praticamente la stessa di Frederic Jameson nel suo libro del 1994 “The seeds of time” (p. 189-209).

Durante la nostra intervista mi hai giustamente confrontato sulla pertinenza del mio insistere con questa istanza di resistenza vecchia ormai di quarant’anni, generata dal saggio fondamentale di Alex Tzonis e Liane Lefevre “The grid and the pathway” del 1981 che fu sicuramente l’ispirazione del mio saggio del 1983 “Towards a Critical Regionalism: Ten Points for an Architecture of Resistance”. Come hai indicato giustamente a suo tempo, quale può essere la pertinenza di questa tesi dato il conseguente trionfo mondiale del Capitalismo Neoliberista globalizzato: un movimento già di per sé in moto all’epoca dell’elezione di Ronald Reagan alla presidenza statunitense nei primi anni ottanta e della tesi sull’economia statale anti-welfare di Von Hayek, poi abbracciata da Margaret Thatcher. Tuttavia, si può sostenere che la quinta edizione del mio libro “Modern Architecture: a Critical History” (2020) provi la validità dell’argomentazione del Regionalismo Critico per cui il concetto di modernità è stato declinato in modi diversi da una parte all’altra del mondo.

Nel suo libro del 1994 “The Seeds of Time, Frederic Jameson analizza in maniera rigorosa, e allo stesso tempo sensibile, il Regionalismo Critico come un’estetica dai toni politici. Scrive che la categoria della giuntura come articolazione primaria di due forze che si incontrano nel mezzo proprio là dove si trova il suo correlativo di rottura o disarticolazione … il punto nel quale le cose si spezzano incontrandosi piuttosto che connettersi, quel fulcro significativo, per cui un sistema improvvisamente finisce per dar strada ad un altro (qui il suo riferimento è al mio saggio Rappel à l’ordre” del 1991), sembrerebbe essere l’estetica fondamentale del Regionalismo Critico.

Quarant’anni separanto la prima dalla quinta edizione di “Modern Architecture: a Critical History” (1980 e 2020), con la prima edizione che coincide con quell’edizione scenograficamente postmoderna della Biennale veneziana di quell’anno. La prima edizione dunque, scritta tra il 1970 e il 1980, fu una storia operativa, in larga misura sul Movimento moderno tra le due guerre, concepita come un seguito progressista di sinistra dell’anti-marxista “Theory and Design in the First Machine Age” di Banham, del 1960. Mentre la prima edizione si apre con l’immagine dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin, scritto nel 1944 poco prima del suo suicidio, la quinta edizione si apre con una citazione di Guy Debord da “Comments on the Society of the Spectacle” (1988; 1990), che si conclude con le parole: il potere, salvato dai media dal doversi prendere la responsabilità per le sue deliranti decisioni, che pensa di non avere più bisogno di pensare, ed effettivamente non può pensare. Al termine della prima edizione scrissi: “il velo che la foto-litografia posa sull’architettura non è neutrale. La fotografia ad alta velocità e i processi riproduttivi sicuramente non sono solo l’economia politica del segno, ma anche un ingiusto filtro attraverso il quale il nostro ambiente tangibile tende a perdere la sua concreta reattività. Quando buona parte del costruire moderno si sperimenta nella realtà, la sua qualità fotogenica e scultorea viene meno a causa della povertà e della brutalità dei suoi dettagli … Che la società moderna possieda ancora una qualche capacità mirata a tali raffinate declinazioni, trova conferma nel lavoro migliore di Aalto.

Nonostante i suoi risultati stimolanti, la tendenza del costruire moderno di essere privato di contenuti e di essere ridotto dalla maniera in cui è costruito ci riporta alla sfida Heideggeriana per cui costruire, dimorare, coltivare e essere era, una volta, una sola cosa”.

Qui abbiamo già le radici del Regionalismo Critico “Avant la lettre”, oltre che il mio spostamento verso la tettonica negli anni 90 (1995). Tuttavia il mio riferimento ad Aalto, nel 1980, può essere visto, in retrospettiva, come l’intento di sostenere una modernità alternativa! Per quanto, come Jameson puntualizza in “The seeds of time” (da p. 26 a 30), questa alternativa è stata inaccessibile dalle titaniche forze, particolarmente distruttive, scatenate dal tardo capitalismo! Quale commento si può portare di fronte a tutto questo? Forse si può solamente proporre il mito del Regionalismo Critico come un ipotetico terreno sul quale si possa ancora creare un microcosmo.

Bibliografia

BANHAM, R. (1960) - Theory and Design in the First Machine Age. Praeger, New York.

BURDETT R. e SUDJIC D. (2007) – The Endless City, researched by the London School of Economics. Phaidon, London.

DEBORD, G. (1988) – Commentaires sur la société du spectacle. Éditions Gérard Lebovici, Paris.

DEBORD, G. (1990) – Comments on the Society of the Spectacle. Verso, London-New York.

FRAMPTON, K. (1980) – Modern Architecture: A Critical History. Thames and Hudson, London.

FRAMPTON, K. (1990) – “Rappel à l’ordre, the Case for the Tectonic”. Architectural Design 60, 19-25.

FRAMPTON, K. (1995) – Studies in Tectonic Culture. The Poetics of Construction in Nineteenth and Twentieth Century Architecture. MIT Press, Cambridge.

JAMESON, F. (1991) Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism. Duke University Press, Durham.

JAMESON, F. (1994) – The Seeds of Time. Columbia University Press, New York.

LEFAIVRE L. e TZONIS A. (1981) – “The grid and the pathway: An Introduction to the Work of Dimitris and Susana Antonakakis”. Architecture in Greece, 15, 164-178.

LEFAIVRE L., TZONIS A. e STAGNO B. (2001) – Tropical Architecture, Critical Regionalism in an Age of Globalization. Wiley Academy, London.

SCHUMACHER E. F. (1973) – Small is Beautiful: Economics as if People Mattered. Harper and Row, New York.