Su globalizzazione, regionalismo e Smart City
Enrico Prandi
Con questo numero, il 61 curato da Ugo Rossi, FAM si addentra nella
più ampia riflessione sulla globalizzazione delle culture, sul
regionalismo e sulla Smart City.
Il metodo con il quale il curatore ha costruito il suo palinsesto
è una griglia di dodici domande fornite agli autori insieme ad
un testo introduttivo: agli invitati è stato chiesto di
«fornire riflessioni, studi e ricerche, esperienze e
testimonianze che affrontino i quesiti, o di estenderne le
problematiche». Le domande del questionario, che possono essere
lette nell’articolo del curatore che segue, spaziano
dall’architettura regionale (l’esistenza, lo scopo e il
significato) in contrapposizione all’architettura globale e al
modello di Smart City come proposta per l’architettura nei
contesti in via di sviluppo. Non è difficile intuire nel
palinsesto delle domande l’equazione tra città globale
capitalista e Smart City e il pericolo che i contesti in via di
sviluppo corrono nell’inseguire tali modelli universali.
Nella brevità di un editoriale che introduce criticamente il
tema non mi sottraggo a fornire il mio personale punto di vista in
maniera indiretta a partire dai saggi dei diversi autori.
Il Regionalismo Critico ed una sua (presunta) rinascita guidano il
lettore nei diversi contributi che hanno il pregio di alimentare la
discussione attorno ad uno dei momenti della recente storia
dell’architettura come è stato il tentativo di superamento
del Postmoderno. L’evoluzione del termine Regionalismo Critico e
la sua attualità dopo un periodo di oblio, la tesi qui oggetto
di verifica critica, dimostra come esso possa accogliere esempi anche
molto distanti tra di loro.
È opportuno, quindi, qualche chiarimento a partire dalle origini
del concetto stesso sul finire degli anni Settanta del Novecento
interpolate con le riflessioni odierne di Kenneth Frampton (il critico
militante del Regionalismo Critico) intervistato per l’occasione
dallo stesso Ugo Rossi.
Come altri termini, tanto coraggiosi nel tentativo di definire
atteggiamenti quanto labili nelle specifiche definizioni, anche il
Regionalismo Critico – che lo stesso Frampton (1984) invita a non
intendere ne come stile ne come periodo storico – può
essere meglio compreso per differenza, chiarendo anche cosa non
è: Regionalismo Critico non è vernacolo; Regionalismo
Critico non è prodotto spontaneo dell’interazione multipla
tra clima, cultura, mito e mestiere (ossia alla spontaneità va
sostituita l’intenzionalità di misurarsi in maniera
critica con gli elementi della trasformazione). Il Regionalismo Critico
è legato alle “Scuole”; Il Regionalismo Critico
è anti-centrista (e quindi contro la globalizzazione); Il
Regionalismo Critico aspira verso forme di indipendenza culturale,
economica e politica (quindi ancor più antiglobale). (Frampton
1980, p. 313).
Ad eccezione della questione sulle Scuole abbiamo delineato come
architettura regionalista la maggior parte della “buona
architettura contemporanea” intendendo come tale quella attenta
ai diversi contesti ed ai loro caratteri (escludendo quindi
l’architettura indifferente al contesto, interscambiabile che non
coglie l’opportunità di introiettare e rielaborare
caratteri stilistici, formali, tipologici, simbolici e via dicendo
tipici del luogo di appartenenza). Ma se reintroduciamo il criterio
delle Scuole allora il concetto diviene subito più complicato se
non contradditorio. La proliferazione delle Scuole, il loro ibridarsi a
temi di attualità, il carattere spesso spurio di dimensione
sovraregionale rende inapplicabile nella contemporaneità
l’applicazione di tale principio. Quali potrebbero essere, per
esempio nel contesto italiano, le “scuole regionali [di recente
formazione], la cui aspirazione principale è di rispecchiare e
trattare gli specifici elementi costitutivi sui quali esse si
fondano”? (Frampton 1982, p.371). Nessuna. Se ampliamo il
ragionamento al vasto contesto internazionale probabilmente qualcuna
esiste.
Alla fine di un intenso Post Scriptum all’intervista pubblicata
in questo numero, che inizia come una antica epistola, Kenneth Frampton
propone il mito del Regionalismo Critico come «ipotetico terreno
sul quale creare ancora un microcosmo», una modernità
alternativa come è stata quella di Alvar Aalto. Anche il tema
della modernità altra è una strada già battuta a
livello della letteratura critica internazionale per definire figure
irregolari della modernità.
Al di là delle implicazioni teoriche di un dibattito durato
quasi un ventennio – e per certi versi sterile nel concentrarsi
troppo sul tentativo di definire qualcosa di sfuggevole –
possiamo intendere un “Regionalismo Critico di ritorno” se
così si può definire, in senso ampio come
un’attenzione nei confronti dei contesti (atteggiamento che
caratterizza tutt’ora buona parte dell’architettura
italiana) ma soprattutto, come sottolinea Ugo Rossi nel suo saggio
sugli USA, come “resistenza culturale” in antitesi ad un
approccio globalizzante ed internazionalistico (consumistico): una
progettualità equilibrata tra atteggiamento istintivo e
spontaneo che sfocia nel vernacolo ed all’opposto un
atteggiamento indifferente al contesto, alla cultura e alle specifiche
identità.
Nel susseguirsi dei contributi critici Luigi Coccia propone come
regionalista un’opera manifesto di Peter Zumthor come le Terme di
Vals giudicandola a buona ragione come «sperimentazione
progettuale che favorisce lo sviluppo di una cultura forte e carica di
identità, che mantiene tuttavia aperti i contatti con la tecnica
universale» (Frampton 1983): benchè esperienza solitaria
non ascrivibile ad una specifica scuola, l’analisi risulta
particolarmente interessante anche grazie al filtro
teorico-interpretativo di Peter Handke. Mentre Ettore Vadini
analizzando alcuni punti dei precetti framptoniani verifica
l’ipotesi che la Scuola Paulista nel suo declinare il modernismo
in maniera specifica possa essere, essa si nella vastità della
produzione complessiva, ascrivibile all’architettura regionalista.
Come dimostrato dal suo articolo, Nicola Pagnano importa in Cina un
atteggiamento critico contestuale che deriva da una formazione italiana
ed in particolare veneziana, mentre all’opposto le major cinesi
stanno esportando nei nuovi mercati asiatici (India ed Africa in
primis) un atteggiamento acritico, acontestuale e linguisticamente
omologante nel ridurre a banalità i differenti caratteri.
Anche per questo motivo il tema pregnante della globalizzazione delle
culture verrà ripreso indirettamente in uno dei prossimi numeri
(per il quale è tutt’ora aperta la call for papers)
dedicato all’architettura tropicale nell’Africa
Subsahariana, ossia quella forma di contestualismo tipico della fascia
tropicale che trova nelle condizioni geografiche e climatiche il motivo
di resistenza ad un mercato immobiliare gestito anche dal punto di
vista progettuale dagli investitori stranieri.
Una nuova forma di «neo-colonialismo economico» come lo
definisce Anna Bruna Menghini che è parte di quel processo
ciclico di colonizzazione e decolonizzazione del quale l’autore
espone chiaramente le ragioni storiche di una perdita di
identità culturale e di ibridazione stilistico-figurativa. In
attesa di una nuova «identità africana» –
forse sarebbe opportuno parlare al plurale di specifiche
identità per un Continente vasto e composito come l’Africa
– vengono presentati progetti di una (relativamente) giovane ed
effervescente generazione di architetti operanti in Africa siano essi
autoctoni come il Pritzker 2022 Diébédo Francis
Kéré (del Burkina Faso ma formatosi in Germania) e David
Adjade (della Tanzania ma formatosi in Gran Bretagna) che alloctoni
come TAM, i fratelli Caravatti ed altri.
Non a torto Ludovico Micara si appella al «compromesso tra spinte
globali legate alla modernizzazione […] e resistenze, o meglio,
“esistenze”, di identità, tradizioni, costumi,
usi». Ecco allora che portando ad esempio il tema
dell’architettura dell’Islam (islamica, dei paesi
dell’Islam, ecc.) l’autore presenta alcuni suoi progetti a
Tripoli in Libia e Yazd in Iran dimostrativi di una ricerca paziente
tra ragioni storiche e contestuali che fanno della lettura del luogo
nella sua complessità e vastità l’origine di ogni
intervento di trasformazione.
L’Ekistica di Costantinos Doxiadis, infine, fa da sfondo al
contributo di Ray Bromley che sintetizza i principi di una
“scienza degli insediamenti umani” come premessa allo
sviluppo di una città a misura umana. Al di la della
visionarietà implicita del pensiero ekistico, l’apporto
più significativo dell’esperienza di Doxiadis è
l’audacia del tentativo di progettare nella complessità e
totalità degli aspetti il futuro degli insediamenti. Come la
storia insegna i visionari oltre ad esercitare un certo fascino hanno
il pregio di promuovere la discussione e stimolare l’innovazione.
Di fronte alle attuali condizioni di crisi (ambientale, sociale e
urbana), Alberto Ferlenga propone un “nuovo realismo”
anziché un “nuovo regionalismo” (da qui il titolo Fine del Regionalismo)
basato sull’analisi dei fenomeni urbani prendendo come caso
studio la città italiana e ponendosi, quindi, in
continuità con la tradizione di studi interrotta mezzo secolo
fa. “Imparare dalla città italiana” per parafrasare
il titolo del libro di Francesco Tentori su Venezia a sua volta
derivato dal più celebre “Learning from Las Vegas”
di Venturi-Scott Brown.
Un’ultima precisazione ritengo necessaria su un termine tanto
scivoloso quanto abusato ed equivocato anche da molti addetti ai lavori
come quello di Smart City: dopo la prima fase che gli psicanalisti
chiamerebbero della “luna di miele” tra gli studiosi,
architetti e il mondo digitale (la città dei Bit, Smart City
2./3./4.0, ecc.), i tempi sono maturi per il ritorno alla
responsabilità del progetto di architettura nella trasformazione
della città.
Ho già avuto modo di esprimere questo concetto alcuni anni fa
sostenendo che la vera città intelligente è quella in cui
il progetto è intelligente esplicandosi nelle sue forme
tradizionali, classiche e sempre attuali (Smart Design for a Smart City,
N. 33 (2015)). Nessuna sovrastruttura tecnologico-informatica
potrà battere in intelligenza ed efficienza (ed in questo
annoveriamo anche il concetto di sostenibilità, altro termine
spesso abusato), il progetto di architettura se nasce contestualmente
al luogo e se non è viziato da pressioni speculative.
La città tradizionale, che nasce dall’equilibrata
interazione tra clima, cultura, mito e mestiere (ossia mediata dalla
capacità dell’architetto), è la città
intelligente per antonomasia. Chiamarla città della resistenza
culturale, città del Regionalismo Critico o città del
Nuovo Realismo, a questo punto è indifferente;
l’importante è che, come sottolinea l’ultimo
Frampton, «possa ancora rendere possibile la creazione di un
microcosmo» che rifletta i caratteri identitari delle diverse
culture.
Bibliografia
FRAMPTON K. (1980) – Critical Regionalism: modern architecture and cultural identity. In: Id., Modern Architecture: a Critical History, Thames and Hudson, London. Traduzione italiana (1982) – Storia dell’architettura moderna. Zanichelli, Bologna.
FRAMPTON K. (1983) – Towards a Critical Regionalism: Six Points for an Architecture of Resistance, in Foster H., The Anti-Aesthetic, Bay Press, Seattle, Washington, pp. 16-30.
FRAMPTON K. (1984) – “Anti-tabula rasa: verso un
Regionalismo critico”, in «Casabella» n.500, marzo,
pp. 22-25.
PRANDI E. (2015)– “Il progetto intelligente per la
città intelligente / Smart design for a Smart City”, in
«FAM» n.33. DOI: 10.12838/fam/issn2039-0491/n33-2015/76