Moderno rurale. Temi e contesti      

Cristina Pallini



Se, come sostiene Eric Swyngedouw (1999), la modernità fu innanzitutto un progetto geografico, viene da chiedersi quanto la modernizzazione rurale sia necessariamente caratterizzata da un paesaggio tecnico frutto della sinergia tra strategie insediative, volontà politiche, conoscenze scientifiche e innovazioni tecnologiche. Una conferma sembra venire dai piani di modernizzazione rurale organici ai processi di consolidamento nazionale, comune banco di prova per esperti di diverse discipline: agronomi, geografi e ingegneri idraulici, medici e sociologi, architetti e urbanisti, artisti e paesaggisti.

Secondo Le Corbusier, l’era delle strade avrebbe favorito il ritorno alla terra, soprattutto laddove i nuovi villaggi avessero contribuito a migliorare lo standard di vita dei contadini (Le Corbusier 1934a, 25; 1934b). Nel village radieuse, le fattorie del relativo bacino d’utenza avrebbero trovato i principali servizi collettivi, aggregati trasversalmente alla strada anche per razionalizzare le operazioni di movimentazione e stoccaggio dei prodotti agricoli (Simone 2018).

Negli stessi anni Giuseppe Pagano rivalutava le molteplici tradizioni dell’Italia rurale come un immenso «dizionario della logica costruttiva dell'uomo» sfrondata da intenti celebrativi. Rivolgendosi a un mondo in cui prevaleva la necessità, gli italiani avrebbero finalmente preso le distanze «da un tempo cronologicamente definito da attributi stilistici» trovando la propria via verso l’architettura moderna (Pagano 1935). Il dizionario apparve nella sezione sull’architettura rurale della VI Triennale di Milano (Pagano e Daniel 1936).

Negli studi ormai numerosi sull'esportazione dei modelli occidentali in altri contesti ricorrono locuzioni come modernismo altro, ibrido o di confine. Secondo Maiken Umbach e Bernd Hüppauf (2005), allargando lo sguardo oltre i capisaldi del razionalismo architettonico europeo, sono emerse le esperienze concrete di molti architetti di qualità e con esse la continuità delle tradizioni vernacolari. Questa persistenza è tanto più rilevante nei processi di colonizzazione interna (Sabatino 2010; Chyutin e Chyutin 2016; Dremaité 2017; Lejeune 2021; Sezer 2022). Nella monografia sui villaggi della Spagna franchista, Jean-François Lejeune cita Mies van der Rohe a proposito dello sviluppo storico dell'architettura. In una conferenza del 1926, infatti, Mies delineava due fondamentali ambiti di intervento: gli edifici animati da atmosfere spirituali e quelli integrati nel paesaggio e più rispondenti a esigenze concrete (Lejeune 2021, p. 15).

Considerati nel loro complesso, gli insediamenti realizzati nell’ambito dei piani di modernizzazione rurale suscitano una serie di interrogativi. Innanzitutto, viene da chiedersi quali siano stati davvero i loro caratteri inediti, e se i modelli di organizzazione sociale ai quali erano ispirati abbiano trovato o meno piena espressione architettonica. Un tratto distintivo deriva senz’altro dalla relazione tra l’ordine introdotto dall’urbanistica (anche per ottimizzare la circolazione) e il valore di posizione dei principali edifici. Nel caso italiano, questi si affacciano sugli spazi pubblici, concepiti per portare in rappresentazione i nuovi comportamenti, nelle occasioni speciali come nella quotidianità (Falasca Zamponi 2003). La giornata moderna era infatti scandita non solo dagli spostamenti e dal lavoro nei campi, ma anche dalla frequentazione dell’ufficio postale, della Casa del Fascio e dell’Opera Nazionale Dopolavoro (Lupano e Vaccari 2009, p. 10).

Le esigenze concrete del mondo rurale furono alla base di molte invenzioni, basta pensare a quelle di Gaetano Ciocca, come la casa del contadino, la porcilaia modello o la betonvia tra le cascine e i centri della campagna pavese (Meriggi 2002, Schnapp 2004). [Fig. 01, 02]

In molti casi, come nelle scuole per i contadini della campagna romana, affiorò la dimensione simbolico-iconologica. Costruiti negli anni Venti, questi edifici erano dotati di una struttura per alloggiare la campana e decorati con elementi ceramici che li rendevano simili a chiese in miniatura (Morpurgo 1921, 364; Bonfante, Lombardini, Margione, Monica 2019: Cantatore 2021) [Fig. 03, 04]. Anche nei villaggi per i coloni italiani in Libia le emergenze verticali segnalavano la presenza di una chiesa, un mercato e una fontana a chi viaggiava lungo la nuova litoranea (Gresleri 2007) [Fig. 05, 06]. Altrettando emblematico del ritorno alla dimensione simbolica è il sovkhoz di Juknaičiai in Lituania, con il centro benessere dal tetto a capanna e la casa di riposo introversa come un monastero. [Fig. 07]

Nonostante le specificità di ogni singolo caso studio, la progettazione dei villaggi implicava necessariamente nuove comunità immaginate (Anderson 1983). Da questo punto di vista, i tratti identitari dei nuovi insediamenti rurali furono spesso affidati a un'orchestrazione dello spazio capace di portare in rappresentazione la dimensione collettiva [Fig. 08]. Se in Italia edifici e spazi pubblici sorsero simultaneamente come manifesto di un programma funzionale e culturale, in Grecia lo spazio pubblico si riduceva agli isolati lasciati liberi in attesa dei fondi per costruire la scuola e la chiesa.

Gli studi di Le Corbusier dimostrano una volta per tutte che la modernizzazione rurale poneva dei problemi di architettura. Su questo terreno si cimentarono in molti: dagli accademici con un solido profilo teorico ai tecnocrati privi di cultura artistica, dai professionisti locali ai dipendenti dei grandi uffici di progettazione. Nella Cina maoista, per esempio, l’architetto era un semplice tecnico che redigeva gli elaborati necessari a realizzare i progetti discussi collettivamente.

Di fronte a questa pluralità può sembrare riduttivo limitarsi a distinguere le soluzioni da manuale dalle opere autenticamente originali, senza entrare nel merito dei singoli casi studio.

Contesti

Per una migliore comprensione di analogie e differenze, i contributi di questo numero sono associati in relazione ai contesti, a partire dal caso italiano e dai nuovi insediamenti realizzati nell’Agro Pontino. Seguono due articoli sulla Grecia, che accolse il CIAM del 1933 mentre si andava assestando la colonizzazione interna. Un contributo sul Portogallo mette in evidenza l’importanza della riscoperta dell’entroterra rurale da parte degli architetti che, accanto ai geografi e agli antropologi, operarono secondo la linea auspicata da Giuseppe Pagano. Il caso albanese sta a cavallo tra le vicende italiane e i piani di collettivizzazione delle campagne attuati nei paesi socialisti: l’Unione Sovietica degli anni Venti, la Lituania e la Lettonia del secondo dopoguerra. Gli ultimi due contributi allargano l’osservatorio agli Stati Uniti e alla Repubblica Popolare Cinese.

La risonanza internazionale della bonifica dell’Agro Pontino, che fu chiara da subito, ha dato origine a una lunga tradizione di studi critici in diversi ambiti disciplinari (Mariani 1976, Nuti, Martinelli 1981, Ghirardo 1989, Besana, Carli, Devoti, Prisco 2002; Pellegrini 2005, Caprotti 2007, Pennacchi 2008). I tre contributi si concentrano sui problemi di natura progettuale che emersero durante la costruzione dei nuovi insediamenti della campagna redenta. Francesca Bonfante e Luca Monica inquadrano la gerarchia tra fattoria, villaggio e città nell’ambito della struttura corporativa dello stato fascista, in base alla quale tutti gli insediamenti avrebbero dovuto essere ordinati per gradi e funzioni. Negli anni Cinquanta, questa modalità di governo del territorio lasciò il passo a un nuovo rapporto tra città e campagna, con nuove interpretazioni architettoniche che segnarono diversi punti di equilibrio tra razionalismo e pittoresco. Emanuela Margione entra nel merito dei temi tipologici sperimentati negli anni Trenta nelle città e nei borghi di fondazione: edifici complessi ante litteram come la Casa del Balilla, la Casa del Fascio, il Dopolavoro, e nuove istituzioni assistenziali come la Casa della Madre e del Bambino o la Casa del Contadino. Aleksa Korolija tratta di torri piezometriche, manufatti tecnici che ancora svettano tra città e campagna dando espressione monumentale alla retorica dell’acqua come simbolo di modernizzazione: quella della palude pompata e incanalata verso il mare e quella di falda sollevata nelle torri-serbatoio.

Vilma Hastaoglou-Martinidis e Cristina Pallini si soffermano sulle misure straordinarie attuate dal governo greco con l’aiuto delle istituzioni internazionali – innanzitutto la Società delle Nazioni – per fronteggiare l’emergenza umanitaria causata dalla migrazione dei profughi dall’Asia Minore. Il difficile bilancio tra quantità, risorse e tempi aprì la strada ai nuovi metodi di prefabbricazione e standardizzazione, non solo per le soluzioni distributive e costruttive delle singole abitazioni, ma anche per le loro modalità di aggregazione nell’impianto dei nuovi villaggi. Il confine tra edilizia e architettura andava stemperandosi proprio quando Atene ospitò il IV CIAM: le urgenze del presente mettevano in ombra anche la gloria dell’antichità. Luisa Ferro si concentra sulla scena ateniese dei primi anni Trenta. Il problema della casa si sommava alla difficile gestione dell’espansione urbana e Dimitris Pikionis, figura emergente, prendeva posizione in merito al valore dell’architettura della tradizione e alla qualità architettonica dei nuovi quartieri.

La Pianura Pontina e la Grecia del nord consentono dunque di mettere in luce alcune nodali diversità: il significato della colonizzazione interna (nelle regioni che ne furono teatro) nel processo di consolidamento nazionale, la diversa successione degli interventi di trasformazione del territorio, il numero dei coloni e dei nuovi insediamenti rispetto al totale della popolazione nazionale e, soprattutto, il ruolo dell’architettura e dall'urbanistica.

Helena Maia e Alexandra Cardoso prendono le mosse dalla riscoperta dell’entroterra portoghese all’inizio del Novecento da parte di architetti, agronomi, geografi e antropologi. Queste esperienze gettarono le basi per la realizzazione di sette colonie rurali e per l’istituzione della Junta de Colonização Interna nell’ambito del Ministero dell’Agricoltura, e il periodo tra la fine degli anni Venti e la seconda metà degli anni Cinquanta fu sufficientemente lungo per sperimentare diverse alternative: non solo per l’impianto generale degli insediamenti, ma anche per il programma di dotazioni collettive e la loro caratterizzazione architettonica. Il tema centrale restò quello del casale rurale: ben distinto dai villini dei tecnici e degli amministratori in residenza nella sua configurazione architettonica e nella sua organizzazione funzionale-distributiva.

I quindici anni tra i primi sbarchi italiani in Albania (1914) e l’occupazione militare del 1939 furono densi di studi e progetti: sulla geografia fisica e le risorse del paese, le vie di comunicazione e le principali città, la composizione etnica della popolazione. Nella regione di Valona furono istituti l’Ufficio Agrario (1916), l’osservatorio agronomico e la tenuta sperimentale di Babizza Piccola, la prima scuola di agraria in Albania (1927) (Gresleri 1993). Nel 1939 l’Albania aveva un’economia rurale di tipo feudale e una popolazione di contadini e braccianti. Federica Pompejano ripercorre la transizione del paese al modello socialista, basato sulla meccanizzazione dell’agricoltura e la collettivizzazione della terra. Il tentativo di eliminare il divario tra città e campagna implicò l’adozione di nuovi modelli insediativi: i centri agricoli socialisti di nuova costruzione e gli insediamenti cooperativi che integravano i villaggi esistenti a quelli di nuova fondazione.

I tre contributi sui paesi del Blocco Orientale coprono un arco temporale che va dagli anni Venti al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Maurizio Meriggi entra nel merito della dialettica tra vecchio e nuovo (dal titolo del film di Sergej Ejzenštejn) nella transizione tra la Nuova Politica Economica (1921-1928) e il Primo Piano Quinquennale (1928-1932), sostenendo che, all’inizio della collettivizzazione rurale, gli edifici collettivi e quelli di abitazione rispondevano ai canoni dell’architettura costruttivista. Marija Drėmaitė tratta della Lituania Sovietica (1940-1990) correlando le politiche di pianificazione territoriale ai nuovi problemi di architettura. Mentre la progettazione delle residenze per i contadini faceva riferimento a una serie di antecedenti, la configurazione complessiva delle aziende agricole collettive e la loro dotazione di servizi ponevano problemi nuovi. Il tema del centro amministrativo acquisì sempre maggior rilevanza e complessità funzionale, con soluzioni che recuperavano forme e stili delle tradizioni architettoniche locali nel solco della tendenza postmoderna. Anche in Lettonia si andò oltre la standardizzazione. Yuliia Batkova e Laine Nameda Lazda prendono in esame la fattoria collettiva di Nakotne, un caso particolare sia per l’articolazione del suo impianto, sia per la densità funzionale e la configurazione architettonica del suo centro sportivo e culturale. Ragionando sui nuovi problemi di architettura correlati ai processi di collettivizzazione rurale non si può sottacere il tema dei grandi sanatori/preventori per i lavoratori dei kolkhoz e dei sovkhoz costruiti nelle principali località di villeggiatura dei Paesi Baltici, un tempo mete esclusive (Dremaite 2017). Concepiti come alberghi di massa in luoghi di eccezionale valore paesaggistico, i sanatori sovietici catalizzarono nuovi modelli di comportamento. Durante le ferie, i lavoratori potevano accedere a cure mediche gratuite e trattamenti sanitari all’avanguardia, alternando il riposo alle attività ricreative e acquisendo consapevolezza di sé in una nuova società. Tijana Vujošević (2017) ritiene infatti che la sanità pubblica sia stata decisiva nella costruzione dell’uomo nuovo. Dopo l’ideologia produttivista dei primi anni, basata sul valore e le capacità dell’individuo, emerse un’etica rappresentativa, nell’ambito della quale i sanatori, così come i bagni pubblici, racchiudevano l’ordine sociale come microcosmi di intimità collettiva per la trasformazione fisica e spirituale. [Fig. 09-10]

Gli ultimi due contributi allargano il campo di osservazione agli Stati Uniti e alla Cina. Nel corso degli anni Trenta le grandi pianure meridionali degli Stati Uniti furono devastate da una serie di tempeste di sabbia causate da decenni di tecniche agricole inappropriate. Questo disastro ecologico costrinse i coltivatori a migrare. Come i profughi di religione greco-ortodossa dovettero abbandonare le città dell’Asia Minore per affrontare un futuro incerto nelle campagne della Grecia del nord, così i contadini americani, privati dei mezzi di sussistenza, furono costretti a migrare verso ovest. Il problema del reinsediamento di massa emerge nella sua ciclicità.

Filippo De Dominicis esamina gli interventi promossi dalla Farm Security Administration concentrandosi sui progetti di Vernon DeMars, Garrett Eckbo e Fran Violich. Con la domanda di spazi in grado di stabilizzare le relazioni più strette, emerse la difficoltà di trovare un punto di equilibrio tra la cultura insediativa americana e i principi della nuova architettura affermati da Le Corbusier.

Il caso della Cina presenta delle evidenti analogie con le esperienze delle repubbliche sovietiche: i primi tre decenni della Repubblica Popolare Cinese (1949-1979) furono infatti caratterizzati da un’economia collettivista e pianificata, nell’ambito della quale la campagna subì una vera e propria metamorfosi: le foreste furono disboscate, i laghi prosciugati e i pendii terrazzati. Anna-Paola Pola ricostruisce la vicenda del villaggio di Dazhai nel corso di quel trentennio. Completamente ricostruito per opera dei suoi abitanti, Dazhai diventò un esempio per centinaia di villaggi collettivizzati, che reinterpretarono con i mezzi a disposizione le idee e i modelli del partito. La modernità dei nuovi villaggi si esprimeva nel loro assetto regolare e compatto di fronte a un paesaggio plasmato dall’uomo.

Nota

Questo numero prende le mosse dal progetto MODSCAPES (Modernist Reinventions of the Rural Landscape) finanziato nell’ambito della HERA call Uses of the Past (grant 5087-00420A). Il progetto è stato sviluppato nel triennio 2016-2019 in collaborazione con l’Université libre de Bruxelles (Project Leader), la Cooperativa de Ensino Superior Artistica do Porto, la Eesti Maulikool (Estonian University of Life Science), e la Technische Universität di Berlino, con la partecipazione di DOCOMOMO International, CIVILSCAPES (Bonn), ECLAS European Council of Landscape Architecture Schools (Vienna). La centralità del caso pontino dipende anche al fatto che, nel corso del progetto, le unità di ricerca del Politecnico di Milano e TU Berlino hanno ottenuto un finanziamento della Deutscher Akademischer Austauschdienst DAAD per l’organizzazione del seminario Rethinking the Rural Landscape (Pontinia 28 aprile - 6 maggio 2018).

MODSCAPES ha coinvolto 22 ricercatori senior, 6 dottorandi e 4 assegnisti e si è concluso con la mostra Enter the Modern Landscape presso il Bozar di Bruxelles (29.11.2019 — 12.01.2020)

Dopo la chiusura del progetto, nell’ambito del corso Composition and reality: investigating the tools coordinato da Elvio Manganaro e Henrique Pessoa Alves presso la Scuola AUIC del Politecnico di Milano (a.a. 2020-2021), chi scrive ha coordinato il Seminario Tematico Rural Modern, a testing ground for architectural design.

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