Nuove città e nuove campagne in Italia, dalla Città corporativa alla Ricostruzione

Francesca Bonfante, Luca Monica



Introduzione

La letteratura sulla trasformazione dell’Agro Pontino e la costruzione della città nuove è assai ampia e appartiene ai diversi campi del sapere direttamente coinvolti nel progetto di bonifica integrale, dall’economia alla politica, dall’agronomia alla storia del paesaggio, dalla geologia all’idrografia, dall’urbanistica all’architettura. È quindi difficile districare il complesso intreccio di conoscenze messe in campo e le molteplici visioni critiche contemporanee o posteriori alla realizzazione.

Molti studi sull’architettura e l’urbanistica italiana del periodo tra le due guerre (pubblicati per lo più negli anni Settanta e Ottanta) trattano le intricate vicende politiche e culturali dell’Italia fascista, spesso criticando i progetti intrapresi per le Paludi Pontine. Questi autori, oltre a mettere in discussione l’effettiva capacità del regime fascista di pianificare organicamente economia, società e territorio, stigmatizzano gli architetti italiani che abbracciarono il razionalismo compromettendo forma e ideologia, piuttosto che trovare vere alternative all’architettura di regime (Mariani 1976, Sica 1978, Nuti e Martinelli 1978, Ciucci 1989).

Tuttavia, al di là della propaganda, la bonifica dell’Agro Pontino è un caso studio fondamentale per interrogarsi sul rapporto tra i cantieri reali e le idee, tra i metodi, i risultati e le contraddizioni della gestione fascista del territorio.

Restano aperte, a tale proposito, alcune questioni sul ruolo svolto dall’alternativa rurale nella strategia di un possibile riequilibrio tra città e campagna.

Complesso e sfaccettato è il giudizio storico sugli effetti sullo sviluppo economico delle azioni legate ai principi della bonifica integrale, che da una parte aveva visto un aumento della produzione agricola e dall’altra non fu in grado di effettuare un vero «rinnovamento delle strutture produttive e la formazione di una piccola proprietà coltivatrice attiva e intraprendente, sostenuta dagli enti pubblici di credito fondiario» (Castronovo 1975, p. 281).

Tuttavia, come è stato riconosciuto, vennero poste le basi “strumentali” per una ripresa avvenuta a partire dagli anni Cinquanta, soprattutto nel Mezzogiorno, delle quali riferisce Manlio Rossi Doria, richiamando l’azione di Serpieri:

Subito dopo la guerra la situazione delle bonifiche meridionali era quanto mai confusa ed incerta. […] Risale, infatti, a quegli anni la formulazione dei principi che hanno, poi, trovato la loro realizzazione con l’istituzione e il programma della Cassa per il Mezzogiorno: la necessità di adeguati stanziamenti pluriennali consolidati, di un piano di lungo termine, di un organo straordinario per la sua realizzazione, di una discriminazione dei comprensori, di una concentrazione degli sforzi sui più pronti e promettenti tra di essi, di una sistematica attività di studio e di approfondimento degli infiniti problemi della bonifica, di una stretta connessione, infine, sin dall’inizio tra opere pubbliche e trasformazione fondiaria, tale da rendere finalmente concreta anche nel Mezzogiorno la luminosa concezione di Arrigo Serpieri dell’integralità della bonifica (Rossi Doria 1961, p.82-83).

Se queste sono state le premesse economiche che hanno definito un contesto di interventi, ecco che risulta più facile ricollegare in una nuova e diversa storia sia i progetti di architettura più esemplari del periodo tra le due guerre che quelli successivi alla Seconda Guerra, pur nei mutati contesti storici e ideologici.

Infatti, se il progetto per l’Agro Pontino è stato l’esperimento più chiaro nell’ambito della bonifica integrale degli anni Venti e Trenta, altrettanto si può dire per il quartiere La Martella, uno dei progetti più significativi del periodo della Ricostruzione, ancora una volta inconcepibile al di fuori dei programmi dei Consorzi di bonifica voluti dalla legge promossa da Arrigo Serpieri, qui trattato in un successivo paragrafo.

La questione italiana: corporativismo e ruralizzazione

La ruralizzazione del paese – attraverso la politica di bonifica integrale – e l’avvio massiccio di opere pubbliche trova sostegno istituzionale nelle Corporazioni che avrebbero dovuto risolvere una contraddizione fondamentale del capitalismo, la contrapposizione fra datore di lavoro e forza lavoro, intesa quest’ultima come parte autonoma ma collaborativa. Giuseppe Bottai, Ministro delle Corporazioni, cerca di intrepretare nel modo più dinamico possibile questo strumento istituzionale che avrebbe dovuto recidere alle radici le cause di una latente conflittualità[1]. Secondo Bottai, ogni gruppo sociale avrebbe dovuto assolvere un ruolo nello stato corporativo, ruolo che il potere politico doveva riconoscere e garantire. Il corporativismo era inteso quindi come uno strumento di pianificazione economica.

Dal canto suo la rivista «Quadrante», luogo privilegiato dell’ortodossia razionalista, rivolge ben presto la sua attenzione alla formulazione di concetti ed enunciati per l’attuazione della città corporativa, traduzione urbanistica dei principi corporativi secondo cui ogni città sarebbe cresciuta inserendosi all’interno di un piano regionale e nazionale, secondo una precisa vocazione funzionale.

Il piano nazionale doveva individuare un ruolo specifico per ogni città e il suo territorio, favorendo così l’equilibrio tra immigrazione interna, ruralizzazione, riabilitazione morale e igienica. Allo stesso tempo, ogni centro urbano doveva perseguire la propria specifica specializzazione – produttiva, artistica, educativa o agricola – in stretto rapporto con la città storica.

L’idea di città corporativa strettamente legata alla pianificazione territoriale nazionale avrebbe dovuto correggere i macroscopici squilibri economici dell’Italia. L’anti-urbanesimo divenne dunque l’ideologia ufficiale del fascismo, sebbene le sue implicazioni non furono tali da mutare a fondo la struttura economica del paese, fondata sullo sviluppo industriale. Infatti, se nel 1935 circa il 50% del terreno agricolo fu classificato come area di bonifica, gli investimenti furono meno della metà di quelli impiegati in salvataggi industriali e i disoccupati impiegati nei lavori di bonifica non furono più del 3%. L’ambito territoriale in cui il regime ebbe un certo successo fu proprio quello dell’Agro Pontino.

La questione contadina, e più in generale lo sviluppo e l’adeguamento dell’economia agricola, facevano parte un retaggio storico più volte messo all’ordine del giorno da analisi sociali e politiche, senza che le classi dirigenti avessero saputo elaborare e realizzare una politica organica di interventi.

Il problema di una riforma agraria in Italia tende a farsi più preciso nella seconda metà dell’Ottocento (Castronovo 1975, p.30), con l’avvicinarsi dell’Unità e con il riconoscimento del forte divario tra Nord e Sud Italia. Perfino le ipotesi di una struttura agraria sono differenti: al nord Cattaneo prefigura una edificazione del sistema rurale in Lombardia, anche attraverso l’idea di un complesso insediativo che definisca un nuovo tipo di istituto agrario (Cattaneo 1847, p.65 e ss.).

Al sud invece prevarrà il conflitto sulla struttura economica dell’organizzazione fondiaria, tra latifondo arretrato e nuovo sviluppo imprenditoriale.

I Consorzi di bonifica, in questa idea estesa di azione integrale, svolgeranno un ruolo chiave nelle grandi iniziative idrauliche sul territorio, insieme alla riorganizzazione fondiaria, allo sviluppo delle infrastrutture e alla realizzazione di nuovi insediamenti che caratterizzano le nuove città del fascismo — nelle città e borghi delle Paludi Pontine, in Capitanata in Puglia, nelle paludi ferraresi, nel bacino minerario del Sulcis in Sardegna, ma anche nei territori montani[2].

L’azione dei Consorzi di bonifica proseguirà anche nel Secondo Dopoguerra con nuovi incentivi e rappresenterà una parte fondamentale del processo di Ricostruzione, secondo un rinnovato approccio alla politica e all’economia agraria.

Per quanto riguarda gli spostamenti di popolazione, fin dal 1906-08 vi erano stati provvedimenti e piani per l’immigrazione di famiglie di coloni in provincie meridionali e insulari.

In questa prospettiva viene costituita nel 1917 l’Opera Nazionale Combattenti (ONC) per favorire l’occupazione produttiva degli ex combattenti mediante provvedimenti di carattere finanziario e patrimoniale.

I primi atti legislativi importanti del regime fascista sono il testo unico del 1923, che raccoglie le precedenti leggi sulle bonifiche, e la legge per l’abolizione degli usi civici del 1924, per regolamentare migliaia di ettari di terreno, coinvolgendo il destino di centinaia di migliaia di persone.

La stagione della bonifica integrale si apre definitivamente con la legge Mussolini del 1928, che stabilisce un piano finanziario per il settore della durata di 14 anni, da mettere in atto a partire dal 1930[3].

La politica agricola procede secondo un nuovo indirizzo; il concetto di bonifica integrale comporta il risanamento idraulico dei terreni, ma soprattutto, novità che interessa qui sottolineare, sancisce come obiettivi prevalenti la diversa distribuzione della proprietà agraria, l’assetto territoriale, l’organizzazione insediativa e la colonizzazione.

L’inquadramento teorico-programmatico e legislativo si deve ad Arrigo Serpieri autore, nella sua qualità di Sottosegretario alla Bonifica, unitamente ad altri tecnici, di un piano generale dei territori da bonificare (Serpieri 1919, 1930, 1938).

Le «radici» di Serpieri risalgono ai primi decenni del XX secolo, prima nella Milano della Società Umanitaria e della Società Agraria, poi nella Firenze dell’Accademia dei Georgofili. A Milano egli compie la propria formazione tecnica e professionale attraverso una intensa attività didattica e di ricerca, e stabilisce le prime relazioni con il mondo agrario, in una prospettiva riformista (Prampolini 1976).

Per la Società Agraria, Serpieri svolge importanti indagini relative ai pascoli alpini della Svizzera e della Lombardia, dove sottolinea i problemi della proprietà collettiva e le forme dell’intervento statale. In Toscana Serpieri forma e dirige, dal 1912 al 1923, l’Istituto superiore forestale nazionale, a contatto con una situazione agraria ben diversa da quella lombarda, contrassegnata dalla mezzadria e non dall’affitto e dall’azienda capitalistica. Così egli muta l’ottica sui problemi dell’agricoltura e inizia a sviluppare le prime tematiche ruraliste.

Serpieri, partendo dalle precedenti acquisizioni, con la bonifica integrale dà vita ad una operazione di un certo interesse, tentando di conciliare teoria economica, prassi governativa e opinioni corporative in un unicum ideologico-scientifico[4].

Paludi Pontine: la triade podere-borgo-città

Nella bonifica dell’Agro Pontino convergono le competenze di tecnici, in grado di affrontare problemi di natura idrogeologica, economico-agraria, demografica, sanitaria ecc. L’armatura territoriale, che nell’arco di dieci anni avrebbe portato alla costruzione ex-novo di una intera provincia, viene costruita per gradi in rapporto alla crescente esigenza di approvvigionamento di beni e servizi. Un reticolo gerarchizzato di insediamenti interconnette fra di loro le case sparse, i borghi e i capoluoghi; questi ultimi sono posti generalmente baricentrici rispetto al sistema borghi-poderi, all’incrocio delle direttrici principali di comunicazione regionale e in prossimità della ferrovia.

Un’organizzazione in diretta relazione con le tracce dei precedenti tentativi di bonifica – da quelli più antichi a quelli pontifici – e di fatto in continuità con gli interventi del Genio civile compiuti fra il 1918 e il 1921.

Durante e dopo i lavori vengono fatti affluire un po’ da tutte le regioni d’Italia, ma soprattutto dalle province del nord-est, migliaia di lavoratori, i quali diventano i principali attori, non solo dell’opera di bonifica, ma anche nel processo di riassetto territoriale.

La persistenza nel tempo degli esiti dell’intera operazione si deve soprattutto all’appoderamento secondo uno schema a centuriazione, che indusse, d’altra parte, la definitiva modificazione del paesaggio preesistente. La trasformazione fondiaria di buona parte dell’Agro Pontino fu affidata all’Opera Nazionale Combattenti che appoderò oltre 54.000 ettari (più altri 11.000 delle Università Agrarie e dei privati), li dotò di 25.000 capi di bestiame, di moderni impianti agricoli intensivi, di macchinari, ecc.

I poderi hanno una dimensione compresa fra i 5 e i 30 ettari; le case coloniche, dotate dei fabbricati di servizio, sono costruite lungo le strade interpoderali in base a chiari criteri di regolarità. Ogni gruppo di circa 100 famiglie fa capo ad un borgo, concepito come centro aziendale e sistemato all’incrocio della nuova rete stradale secondaria, spesso sugli stessi luoghi ove sorgevano i cantieri di bonifica.

La triade gerarchica podere-borgo-città, secondo un’articolazione variegata di tipologie di insediamento, riflette l’intento di creare una stabile struttura sociale e produttiva contadina, legata alla terra dal contratto di conduzione mezzadrile e all’apparato istituzionale da una serie di luoghi collettivi tali, nel loro complesso, da neutralizzare l’attrazione della grande città.

Le città, dimensionate per una popolazione compresa tra i 3.000 e i 5.000 abitanti – salvo il caso del capoluogo di provincia Littoria – sono gli epicentri del nuovo sistema insediativo dell’intero comprensorio e assolvono la funzione preminente di centri amministrativi, tecnici e rappresentativi; Pomezia, Aprilia, Latina e Pontinia sono allineate al centro della bonifica, mentre Sabaudia è in un angolo, al di là del Parco nazionale del Circeo, lungo il Lago di Paola, in una zona che avrà notevole sviluppo turistico.

L’organizzazione del territorio, che nel caso in esame raggiungerà una solidità altrove sconosciuta, vuole essere un’alternativa ai modelli di vita urbana. Le misure del reticolo agrario e le distanze relative fra le città sono l’espressione della duplice compresenza del carattere urbano e di quello rurale, ancora più evidente nella precisione architettonica degli edifici del luogo pubblico e collettivo per eccellenza, la piazza, cui fanno da contraltare le tipologie abitative elementari ed economiche collocate nei poderi.

L’apparente contraddizione del termine urbanistica rurale, richiamata da Bottai all’inaugurazione del Primo Congresso di Urbanistica del 1937, chiaramente finalizzata al disurbanesimo, cela la ricerca di nuovi equilibri tra la vita della città e il ruolo da assegnare alla campagna.

Quindi, si può affermare che, una volta liberata dalle ipoteche ideologiche del regime, la colonizzazione della pianura pontina, nel corso di un processo poco meno che secolare, si rivela come un vero e proprio laboratorio di sperimentazione delle politiche agrarie nazionali.

Tentativi di composizione urbana e nuova figurazione

I concorsi per le “nuove città” (Sabaudia, Aprilia e Pomezia) e le realizzazioni sono un importante laboratorio sia per la sperimentazione architettonica e figurativa, sia per la messa a punto di un metodo tecnico-scientifico relativo alla progettazione urbanistica; sono luoghi dove si manifesta in tutta la sua complessità ed articolazione il confronto tra antico e nuovo, fra monumentalismo e razionalismo, fra linguaggio tradizionale e linguaggio moderno. Cancellotti, Frezzotti, Libera, Montuori, Muratori, Piccinato e tanti altri conducono la loro ricerca sui fondamenti dell’architettura e dell’urbanistica moderna italiana, contribuendo, attraverso la sperimentazione sul campo, alla definizione della prima legge urbanistica emanata in Italia nel 1942.

La prima città, Littoria, progettata da Oriolo Frezzotti per incarico diretto da parte del Commissario per la bonifica Orsolino Cencelli, nasce contro il parere di Mussolini che si premura a sottolinearne il carattere di borgo agricolo antiurbano; la crescente attenzione verso le nuove città, soprattutto in termini mediatici, induce però a bandire per il piano di Sabaudia un concorso di grande rilievo nazionale.

Il progetto per il nuovo Piano Regolatore per la città di fondazione di Sabaudia, bandito attraverso un concorso nazionale dell’Opera Nazionale Combattenti (ONC) nel 1933, vide come vincitori il gruppo di architetti formato da Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli.

Per comprendere la natura di Sabaudia è indispensabile concepirne il ruolo all’interno del territorio rurale dal quale dipende: nel diagramma che lo stesso Piccinato pubblica insieme al progetto (Piccinato 1934), emerge come questo centro politico e amministrativo, che fa capo ad un grande quartier generale, sia il fulcro di una serie di relazioni radiali tra funzioni: podere – borgo – città di Sabaudia – ONC Roma.

Le lunghe strade rettilinee di accesso la mettono in comunicazione con la via Appia e i vicini centri, attraversando la complessa e suggestiva morfologia che si sussegue nel territorio circostante, tra entroterra boschivo, linea e laghi costieri, rilievi, canali e strade di bonifica. Intorno all’intersezione di questi assi si sviluppa un sistema ortogonale di piazze, sapientemente disimpegnate al perimetro, e sulle quali prospettano le principali istituzioni politiche e civili della città nuova: il Palazzo del Comune, la Casa del Fascio, la caserma dell’esercito, le sedi delle Associazioni, il cinematografo, l’albergo e gli uffici pubblici.

Casa del Fascio e Palazzo del Comune risultano volumi isolati rispetto al circostante tessuto urbano: il primo, posto al simbolico incrocio dei quattro principali assi viari, si pone come ideale collegamento tra il centro civico e l’adiacente centro religioso (chiesa, battistero, convento e asilo); il secondo, munito di torre con l’Arengo, altrettanto simbolicamente centrata rispetto alla direttrice verso la Via Appia. Le prospettive mutevoli del nucleo centrale caratterizzano fortemente la città, metafisicamente sospesa in una configurazione urbana che poco ha a che vedere con i pittoreschi scorci tipici dei borghi medievali italiani — indicati come i supposti riferimenti[5] — quanto piuttosto debitrice degli schemi planimetrici della tradizione romana antica con griglia ortogonale e piazza centrale con edifici porticati.

Durante il IV Congresso CIAM del 1933, lo schema urbanistico di Sabaudia, profondamente in controtendenza rispetto all’urbanistica europea di quegli anni, venne presentato come esempio di città funzionalista e ricevette l’ammirazione internazionale. Velatamente scettico si dimostrò invece Le Corbusier, quando in riferimento a Sabaudia parlò di «un doux poème, quelque peu romantique, plein de goût, signe évident d’amour» (Le Corbusier 1935, p.329), in contrapposizione all’idea dei suoi «‘Village Radieux’ [sont] préparées pour s’offrir à l’industrialisation à grande échelle», a proposito della sua proposta per la futura città di Pontinia (Le Corbusier 1935, p.330)[6].

L’architettura di Sabaudia sembra dunque contenere quel conflitto già espresso da Tafuri:

quella che si vorrà poi riconoscere come l’unico esempio positivo di città «razionalista» realizzata in Italia non differiva molto, infine, nella sua impostazione cardodecumanica, nella retorica delle prospettive centrali o quasi-centrali, nella sua stessa qualificazione edilizia, dai canoni compositivi accademici, innestati in un organismo, al contrario, nuovo ed intelligente come organizzazione fra le varie parti e nei suoi rapporti con il territorio (Tafuri 1964, pp.35-36).

Come osservare quindi lo schema volumetrico e spaziale del progetto di Sabaudia?

Da un lato dobbiamo guardare alle metafisiche prospettive schizzate dallo stesso Piccinato per i volumi stereometrici che compongono il nucleo civico, i cui edifici sono rappresentati cinematicamente in un susseguirsi di viste spaziali mutevoli. Dall’altro il dibattito di quegli anni ci invita a spostare lo sguardo alla composizione spaziale che caratterizza l’insediamento di Sabaudia rispetto al territorio circostante, prendendo in prestito il punto di vista dalle famose fotografie aeree pubblicate in «Sabaudia dall’aeroplano», nel 1935[7], o dalle rappresentazioni dei pittori del Futurismo che ne fisseranno la sua immagine iconica più significativa.

Proprio analizzando la gerarchica addizione di volumi del centro civico emerge la sapienza compositiva dell’architetto, la cui volontà di far prevalere gli elementi centrali rispetto al resto del tessuto della città non ancora costruito, è rintracciabile nel disegno a terra del sedime stradale, i cui lotti risultanti sono in un continuum con la campagna, a premessa di uno schema che di fatto non si completerà mai in quei termini[8].

Da un punto di vista generale, tra il paesaggio naturale di laghi, dune, frammenti di selve, e il paesaggio tecnico di canali, ferrovie, idrovore, le nuove città riflettono un’idea di composizione urbana capace di conquistare il nuovo spazio territoriale prodotto dalla bonifica, innervare un ambiente antropico rarefatto, esprimere fisicamente il rapporto città-campagna.

Quello che preme sottolineare è il permanere di una radicata cultura insediativa italiana che rimanda alla città, qui interpretata come insediamento diffuso per punti nel territorio, dove l’effetto città non sta tanto nel singolo centro civico quanto nel sistema dei nuclei insediati. Si potrebbe riscontrare una analogia con il metodo di analisi del territorio e degli insediamenti rurali, affrontata sia a scala di comprensorio che a livello urbano da Amos Edallo nel secondo Dopoguerra in ambito padano (Edallo 1946). L’assetto orografico, il sistema delle strade, la rete dei canali, la distribuzione e la densità degli insediamenti collaborano alla modernizzazione dell’attività produttiva agricola secondo una progettazione nuova dei paesi rurali.

Nel caso dell’Agro Pontino, dunque, ci pare di ravvisare una concomitanza di fatti che riescono a sedimentare una duratura intelaiatura insediativa basata su dimensioni territoriali (scala) e poli rurali (luoghi urbani) originali e integrati.

Da Sabaudia a Matera

Nell’arco di un decennio, tra il 1950 e il 1960, si era svolta a Matera una tra le più nobili esperienze dell’architettura italiana del Dopoguerra, di cui fin da subito un’ampia letteratura storico-critica ne aveva rivelato il ruolo chiave e di premessa per un nuovo impegno nella ricostruzione e sviluppo della vita civile. Questo episodio aveva infatti trasformato fin dalla sua nascita il concetto stesso di ricostruzione, inteso come riparazione postbellica, prolungandolo verso un impegno più integrale, consegnando forma fisica e sostanza di paesaggio alla città e al territorio nello sviluppo economico e sociale in Italia.

I Sassi, la città rupestre antichissima che forma il nucleo originario della città di Matera, iniziava a rappresentare anche all’estero un caso studio sociologico sul quale riflettere.

La prima definizione di una strategia operativa nasce su ispirazione della missione statunitense ECA (Economic Cooperation Administration) che incarica il Consorzio di Bonifica della media valle del Bradano, diretto da Nallo Mazzocchi Alemanni, di svolgere una relazione, pubblicata nel 1950, nella quale vengono poste le basi delle tre azioni edilizie per la popolazione dei Sassi a Matera da svolgere in contemporanea: costruzione di borghi residenziali rurali; costruzione di rioni periferici; risanamento edilizio dei Sassi.

Nel caso dei borghi rurali esterni furono stabiliti nuovi insediamenti: La Martella, Borgo Venusio, Torre Spagnola, Salati e i centri di servizio di Picciano e Timmari.

Su questa ipotesi convergeranno fin dall’inizio le iniziative coordinate da Adriano Olivetti nell’ambito della Commissione di studio della città e dell’agro di Matera, formato da INU e UNRRA-Casas. Questo gruppo di lavoro interdisciplinare definirà l’ipotesi del borgo rurale La Martella, direttamente ispirato alle concezioni sociali della comunità da sempre teorizzata da Olivetti in studi, pubblicazioni e azioni culturali e politiche.

Il contesto di questo paesaggio agrario era formato da grandi latifondi e rappresentava certamente una struttura produttiva arretrata e assolutamente immobile, ma d’altra parte poteva costituire la base di partenza per la trasformazione verso una moderna imprenditorialità agroindustriale. Era pertanto importante, in questo contesto, che fosse preservata l’unità territoriale dei grandi fondi agrari e dei nuovi insediamenti rurali, immersi in un paesaggio di rara bellezza dai larghi orizzonti ondulati e dai sorprendenti piccoli centri compatti.

Questa sensibilità per una estetica del paesaggio dell’economia agraria, non sfuggirà infatti a Manlio Rossi Doria:

Quando — uscendo dai borghi ove si affollava la miseria contadina — passavo a considerare le vaste distese di terre senza strade, senza investimenti, senza mezzi tecnici, non mi pareva di sbagliare valutando quelle risorse come suscettibili di consentire se non una prospera, per lo meno una civile vita agricola per quelle popolazioni, per le quali non vedevo allora altra alternativa (Rossi Doria 1961, p.81).

Tra le azioni dei due Consorzi di bonifica allora coinvolti — il Consorzio della media valle del Bradano diretto da Mazzocchi Alemanni e quello di Metaponto diretto da Rossi Doria — proseguendo il ruolo intrapreso prima della guerra, vi erano le sistemazioni idrauliche destinate all’irrigazione delle grandi proprietà fondiarie per l’agricoltura, con la realizzazione delle dighe dei grandi bacini artificiali di riserva irrigua, quale quello appena a sud di Matera, sul Bradano, inaugurato nel 1952.

Il Piano Regolatore Generale di Matera di Luigi Piccinato, del 1953 (Piccinato 1955), nasce come azione di coordinamento dei diversi interventi sotto un unico disegno, in modo da prevedere l’azione di risanamento (della città dei Sassi e dell’Agro di Matera) sotto forma di disegno urbanistico e dunque architettonico.

In questo sistema articolato per poli esterni alla città, persino la struttura interna di Matera si scompone, mantenendo compatto solo il tessuto della città amministrativa sorto tra Ottocento e Novecento sul bordo che si snoda e si affaccia sul ripido pendio della Gravina con la città rupestre. E alle sue spalle, sull’altipiano, altri colli la circondano, e oltre i quartieri che in questa seconda fase si realizzano: Spine Bianche, Serra Venerdì (Luigi Piccinato, Luisa Anversa, 1955-1957), Lanera (Mario Coppa, Marcello Fabbri, 1955-1959).

Il disegno di Piccinato per il Piano regolatore di Matera incorpora lo schema elaborato con UNRRA-Casas e Consorzio di Bonifica Valle del Bradano, quasi a distendere in un diverso contesto il diagramma già disegnato nel 1934 per l’Agro di Sabaudia. Da una parte un sistema ramificato nella campagna, formato dai quattro borghi rurali e dai due centri di servizio. Dall’altra, in città, il sistema dei nuovi quartieri, veri e proprie parti di città formalmente compiute (per usare le parole di Aymonino), in addizione a una città innervata da un sistema stradale antico e di lunga proiezione territoriale.

I due esempi emblematici di questa architettura, veri e propri casi studio, saranno dunque il borgo La Martella (Luigi Quaroni, Luigi Agati, Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori, 1949-1954) e il quartiere Spine Bianche (Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Giancarlo De Carlo, Mario Fiorentino, Marcello Girelli, Federico Gorio, Sergio Lenci, Marinella Ottolenghi, Vito Sangirardi, Hilda Selem, Michele Valori, 1955-1959).

Due architetture da riguardare oggi, al di là delle trasformazioni più o meno sofferte, ancora per un possibile ruolo (e un possibile recupero nelle forme costruite) da ritrovarsi tra le funzioni di una attuale economia agraria.

Dal punto di vista del disegno dell’architettura, il rapporto con le esperienze passate sembrerebbe non essere più così chiaro, e a un confronto con le architetture di Sabaudia di Piccinato, per esempio, questi antecedenti appaiono troppo definiti stereometricamente, troppo equilibrati e proporzionati.

Il punto di svolta tra le esperienze prima e dopo la seconda guerra mondiale, all’interno del dibattito architettonico del Razionalismo italiano, è rappresentato dalla mostra «Architettura rurale italiana» curata da Giuseppe Pagano alla Triennale di Milano nel 1936 (Pagano e Daniel 1936, Bilò 2019). Un sofisticato equilibrio tra tradizione rurale e moralità razionalista, verità funzionale tracciata lungo le linee essenziali della pura geometria e nella materialità della costruzione (in legno, pietra o intonaco), stagliate in una nuova dimensione del paesaggio.

Le foto scattate da Pagano stesso in cittadine, paesi e campagne di tutta Italia rappresentano una documentazione ricchissima, allora praticamente inedita, che avvierà un confronto fra i diversi caratteri dell’architettura regionale, senza alcuna nostalgia vernacolare.

Le esperienze del Dopoguerra, invece, procedono per frammenti e perfino da spunti di tecnica costruttiva, anche a partire dal Manuale dell’architetto del 1946, di Mario Ridolfi, che è stato riconosciuto come il punto di inizio espressivo della nuova architettura italiana (Ridolfi 1946, Muratore 1974, pp.82-90). Tra questi frammenti vanno ricordati gli schemi di aggregazione di case rurali che Ridolfi stesso studia per il CNR e l’UNRRA-Casas nel 1949, e che hanno un importante antecedente in un progetto per un insediamento rurale tipo, nell’Agro Pontino del 1940.

In questo senso inizia a scomporsi e a dissolversi l’integrità stereometrica dei solidi volumi di Piccinato, alla ricerca di unità minime, formali e funzionali, corrispondenti alla frammentazione degli appoderamenti che l’economia agraria ancora sosteneva prima della guerra. La Martella infatti sarà il primo insediamento così aggregato, e la sua architettura procederà infatti nella ricomposizione dei frammenti che poco alla volta si erano studiati e analizzati in modo combinatorio e che ne avevano fornito le premesse.

Morfologicamente, oltre al lungo patrimonio di studi e esperienze realizzate, La Martella si configura a partire da una conoscenza tipologica sulla tradizione insediativa degli antichi borghi in Lucania, quale Grassano, formati da volumi sotto la luce, una città bianca, densa di vita, come la fotografia in bianco e nero delle più raffinate campagne fotografiche di allora era in grado di rappresentare. Le immagini pubblicate sul n.200 di Casabella-Continuità nel 1954, sono rimaste impresse nella nostra memoria come una splendida possibilità, linea per linea, superficie per superfice, in un quadro che oggi non esiste più, quasi ci si trovasse sui bordi di una rovina perduta.

Dal punto di vista dell’architettura questa visione rappresenta la vera sostanza del segreto de La Martella. Un sofisticato equilibrio tra tradizione rurale e nuove dimensioni del paesaggio, in attesa di una nuova agricoltura.

Dal punto di vista urbanistico, le presupposte nuove relazioni fra podere e centro abitato, destinato ad accogliere i contadini residenti nei Sassi di Matera, rimasero sostanzialmente sulla carta poiché in contraddizione con l’armatura insediativa dei centri urbani della Puglia e della Basilicata, vere e proprie agrocittà dove gli occupati sui fondi ritornavano dopo la giornata di lavoro.

Conclusioni

A proposito del rapporto fra città e campagna, è utile ricordare come siano cambiati nel tempo i punti di vista sul paesaggio. Negli ultimi anni, la difficile distinzione tra paesaggio rurale e paesaggio urbano nei territori densamente urbanizzati ha indotto i geografi a coniare termini come «rurbano», «continuum rurale-urbano», «periurbano», «campagna urbanizzata». Termini a volte dai significati assai diversi, coniati in contesti di ricerca prevalentemente sociologici e geografici.

Dal punto di vista teorico le concezioni economico-politiche dell’economia corporativa e della bonifica integrale hanno avuto un forte impatto sul rinnovamento della cultura architettonica e urbanistica italiana, nel senso migliore e più autentico, verso temi e funzioni che costruivano nuovi rapporti tra città e territorio, fuori e in alternativa agli interventi sulle grandi e medie città.

Questi episodi esemplari, Sabaudia, le Paludi Pontine e Matera, testimoniano un rapporto di forte continuità tra queste esperienze, che vanno ben oltre alle diverse condizioni politiche-ideologiche e difficoltà dell’architettura italiana, basandosi sulla continuità delle principali istituzioni di sostegno (tecnico ed economico) al settore rurale, quali i Consorzi di bonifica, ancora attivi e operanti su più del 50% del territorio Italiano.

Queste esperienze sono state considerate per alcuni aspetti fallimentari, nel senso della incapacità dei nuovi insediamenti di corrispondere a uno sviluppo sociale e rurale rivelatosi imperfetto rispetto alle sue premesse. Tuttavia l’architettura ha saputo dimostrare importanti capacità di sperimentazione, applicando tipi diversi e una singolare e moderna concezione estetica del paesaggio rurale. Punti fermi che ancora restano, disponibili a una rinnovata ruralità.

Per quanto riguarda il caso di Sabaudia, rimasta allo stato di fondazione originario fino a dopo la Seconda Guerra, lo stesso Luigi Piccinato, in occasione del disegno del nuovo piano regolatore del 1971, ne riconsiderava le virtù e i fallimenti (Piccinato 1971, pp.369-378). Secondo Piccinato, alla luce dell’incontrollata urbanizzazione di case singole e piccole industrie per tutto il sistema degli interventi dell’Agro Pontino, sarebbe stato necessario un maggiore grado di vincolo delle attività rurali e dei centri, conquistati nelle bonifiche con fondi pubblici, lasciando l’industria più nell’entroterra e rendendola maggiormente compatibile con il paesaggio e il turismo. In questo senso Sabaudia ha rappresentato fin da subito una eccezione rispetto alle altre città di fondazione vicine. Anche se il tessuto residenziale in linea e compatto previsto in origine è stato realizzato solo in minima parte, oggi la città appare meno compromessa e più integra nel rapporto col territorio.

Diverso è il caso di Matera. Subito dopo l’apertura del Borgo La Martella, nel 1953, iniziò una delle più profonde fasi di migrazione (interna e esterna) che attraversò l’Italia, dal Sud verso il Nord e altri paesi in via di industrializzazione. Questo ha determinato il repentino fallimento di tutte le prospettive di ricostruzione di una economia agraria nel Sud Italia. Una situazione rimasta fino alle più recenti fasi di immigrazione di ritorno. Il Borgo La Martella, svuotato del suo significato e fortemente manomesso nella sua consistenza edilizia, è diventato un sobborgo periferico accanto a un contesto industriale in espansione.

Recenti ricerche condotte sui diversi quartieri della stagione olivettiana di Matera (Mininni 2017) hanno proposto ipotesi di recupero urbano, a partire da micro interventi sugli spazi aperti e con ipotesi di restauro, senza tuttavia interagire con l’assetto di una nuova economia agraria effettivamente rinnovata nel Mezzogiorno d’Italia.

L’assegnazione alla Città di Matera del titolo di «Capitale Europea della Cultura 2019», sancisce di fatto la sua attuale crescita in termini di consapevolezza storica, economia e cultura. Tuttavia il borgo rupestre dei Sassi, in parte restaurato e abitabile, diventa lo splendido monumento di se stesso, non più in grado di corrispondere a un possibile rinnovato rapporto tra città e campagna rurale produttiva.


Note

[1]. Nel 1927 la «Carta del lavoro» stabilisce i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato e i criteri direttivi per l’interpretazione e per l’applicazione della legge. Nel 1929 Bottai diviene Ministro delle Corporazioni e conclude il lungo e faticoso iter della legge 20 marzo 1930, n. 206 sul Consiglio nazionale delle corporazioni. Nel 1930 Bottai fonda la rivista «Archivio di studi corporativi», nella quale numerosi articoli sono dedicati alla pianificazione e all’economia sovietica, al nazionalsocialismo, all’economia mista, al diritto collettivo, ai rapporti politica-economia, all’intervento statale in USA, Germania e Italia.

 [2]. In generale sui rapporti tra bonifiche e architettura si veda la prefazione di De Seta (1976) agli scritti di Pagano.

[3].Nel 1933 il Testo unico n. 215 riordina organicamente tutta la materia; le zone interessate alla bonifica integrale, quasi 5 milioni di ettari, vengono suddivise in comprensori regionali.

[4]. Arrigo Serpieri fu sottosegretario del Ministero dell’Agricoltura dal 1929 al 1935. In tale ruolo varò il Testo Unico sulla bonifica integrale (Legge n. 215 del 13 febbraio 1933), dove definì il tipo di intervento statale nelle opere di bonifica, stabilì diverse norme di finanziamento e definì un piano integrato di opere edili e di servizi necessari allo sviluppo del paese.

 [5]. Dopo Sabaudia, Piccinato ha pubblicato studi che possono essere riferiti alle prime esperienze, tra la tradizione di villaggi e città nel paesaggio italiano e lo spazialismo volumetrico razionalista. Altri studi collegano la tradizione medievale della piazza e del villaggio dell’Italia centrale all’architettura delle città nuove del fascismo, quale l’importante saggio di Ghirardo e Forster (1985).

 [6]. Si veda anche Mariani (1993), p.470; G. Ciucci (2012), pp.269, 272.

 [7]. “Sabaudia dall’aeroplano” (1935). Architettura, fasc. XI, pp.643-645.

 [8]. Sull’interrotto destino della città di Sabaudia lo stesso Piccinato ne aveva scritto in una acuta analisi, ancora attuale, in occasione del suo reincarico negli anni Settanta per la revisione del Piano (Piccinato, 1971).

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