Architetture del tuttotondo. Le torri dell’acqua nelle città di fondazione dell’Agro Pontino

Aleksa Korolija



Allora, è evidente che tutti quei temi che abbiamo escluso dall’architettura vera e propria – ponti, obelischi, fontane, archi di trionfo, gruppi di alberi, ecc. – e particolarmente le facciate degli edifici, tutti rientrano in giuoco nella formazione degli spazi urbanistici (Zevi 1948, p. 28).

Parlando del Portogallo, lo storico Tiago Saraiva (2009) sottolinea la convergenza tra i progetti di colonizzazione interna e il tema della frontiera. Nel XX secolo, secondo Saraiva, la modernizzazione dei paesaggi rurali accelerò le sinergie tra ingegneria, tecnica, pianificazione e sperimentazione architettonica per mettere a coltura nuove terre all’interno dei singoli stati-nazione. Le frontiere tra natura incontaminata e ambiente antropizzato erano un tratto comune di diversi paesi europei, ma anche costruzioni immaginarie, soprattutto nelle narrazioni politiche dei regimi totalitari, dove le innovazioni tecnologiche aprivano la strada alla realizzazione di nuovi insediamenti capaci di “portare in rappresentazione” la nuova società (Harvey 2005).

L’immaginario della frontiera evoca paesaggi rarefatti dove le strade coprono grandi distanze tra nuclei di civiltà che si alternano agli edifici isolati. La lunga avventura coloniale europea ha improntato un’idea di conquista attraverso la costruzione di nuove città, embrioni di un nuovo assetto sociale (Nicolini 2006). L’ordine urbano dettato dalla geometria, quasi sempre indifferente all’orografia (Culotta et alii 2007), compendia idealità, astrazione e ripetibilità, definendo i caposaldi di un sistema insediativo a vasta scala. Una possibile matrice comune tra la

colonizzazione vera e propria e i progetti di colonizzazione interna del Novecento sta nella compresenza di una matrice militare finalizzata al controllo del territorio e l’astrazione figurativa dell’impianto urbano, tra dislocazione dei centri e rarefazione dei luoghi della produzione e della residenza. Case coloniche, fattorie, stalle, depositi e capanni diventano così oggetto di sperimentazione costruttiva e di sistemi di assemblaggio, testando modalità di ripetizione e variazione del tipo.

Paesaggio tecnico

Non sorprende che la metafora militare sia così ricorrente nella propaganda fascista[1] (Mussolini 1932, p. 3) sulla bonifica delle Paludi Pontine. La conquista di quella «succursale dell’inferno» (Savinio 1936) fu come una guerra, dal reclutamento dei lavoratori alle grandi manovre per avanzare tra ostacoli e difficoltà (Cencelli 1935, p. 162). In questo modo però si posero le basi di un paesaggio tecnico (Selvafolta 2001) fatto di strade, linee elettrificate, canali e macchine idrovore. La zona delle paludi e della foresta di Terracina, omessa nelle mappe precedenti alla bonifica (Armiero et alii 2021), veniva restituita alla nazione, incardinando una nuova maglia cartesiana su quella preesistente, più fitta e parallela alla Via Appia. Strade, canali e fasce frangivento erano l’ossatura di una macchina territoriale che integrava elementi naturali e reti artificiali. Allo scopo di sedentarizzare la pianura braccianti provenienti dal nord rimpiazzarono la popolazione locale dedita a lavori stagionali, di fatto cancellando ogni traccia di pastoralismo. Paradossalmente, il ruralismo che il regime contrappose all’urbanesimo provocò un aumento della produzione industriale di sementi, fertilizzanti e macchine agricole (Caprotti 2007). La fornitura di luce elettrica e acqua corrente, le reti delle città moderne (Graham 2001, p. 10), assunse rilevanza anche nell’Agro pontino. Diversamente dall’attuale standardizzazione delle onnipresenti stazioni di servizio, o delle cabine telefoniche di qualche anno fa (Graham 2001, p. 181), i manufatti tecnici assunsero un ruolo iconico nelle nuove campagne degli anni Trenta[2]. Secondo Kaika e Swyngedow (2000) furono le trasformazioni urbane del XVIII secolo a segnare un nuovo approccio alle reti e ai relativi edifici. Stazioni di pompaggio, serbatoi, centrali idro-elettriche e torri dell'acqua, diventarono «santuari materiali del progresso» nel paesaggio urbano[3]. In molti casi, questi edifici a dispetto della scarsa accessibilità avevano, tuttavia, un grande qualità figurativa essendo concepiti per essere visti dall’ esterno e contribuire alla “magnificenza civile” degli spazi pubblici. L’architettura delle facciate enfatizzava la grandiosità dell’opera idraulica che non era possibile abbracciare con lo sguardo perché aveva origine altrove; d’altra parte, il contrappunto con la città storica esaltava la modernità dell’impianto che permetteva nuovi stili di vita. Ragionando senza pregiudizi su questi manufatti tecnici, che potremmo definire architetture di pubblica utilità, non si può non sorprendersi della varietà delle loro forme, che ci aiutano a ripercorrere l’evoluzione simbolica del concetto di modernità nel rapporto tra la città e territorio.

Torri

Una torre dell’acqua non è altro che un serbatoio pensile, che funziona secondo la legge di gravità: l’acqua ad una quota superiore può essere distribuita con una pressione maggiore in più punti simultaneamente. Le torri piezometriche funzionano con lo stesso principio e permettono una distribuzione più capillare anche all’interno di edifici a più piani. Attraverso una stazione di pompaggio alla base della torre, l’acqua viene captata (da un pozzo nel sottosuolo oppure da un acquedotto) e poi convogliata nelle tubature che raggiungono il serbatoio superiore. Attraverso un sistema di condotte a pressione l’acqua accumulata raggiunge le case, anche quelle a più piani (il che spiega perché le torri piezometriche devono essere alte almeno quanto gli edifici che servono).

Le torri dell’acqua caratterizzavano le periferie delle città industriali, e sorsero inizialmente vicino alle stazioni e lungo i binari per garantire un rifornimento alle locomotive a vapore. Successivamente si diffusero anche nelle zone di colonizzazione rurale e simbolicamente incisero nell’immaginario come strutture in grado di liberare le acque nascoste nel sottosuolo. Nella propaganda fascista l’acqua era una metafora della redenzione del territorio: il regime aveva infuso il movimento al caos della palude (Cavallo 2016), l’acqua stagnante veniva pompata, convogliata verso il mare grazie a canali rettilinei, mentre l’acqua del sottosuolo veniva sollevata in serbatoi collocati all’interno degli insediamenti.

Che l’acqua abbondasse o scarseggiasse, i serbatoi offrirono un campo di sperimentazione per ingegneri e architetti, Gli ingegneri cercavano strutture di sollevamento sempre più leggere e ardite (Fasoli 2012) ridefinendo la forma dei serbatoi rispetto ai diversi sistemi di sollevamento e alle condizioni climatiche locali. Si arrovellarono per affinare la struttura del fusto e della forma del serbatoio, mentre l’architettura delle torri piezometriche diventava un mascheramento, fino ad essere inglobata all’interno di edifici storici: come nel caso dei torrioni del Castello Sforzesco di Milano progettati da Luca Beltrami per servire da serbatoi (Di Biase 2016).

Nel progetto di una torre piezometrica i vincoli tecnici sono decisivi non solo per definire la soluzione strutturale, ma anche per prefigurare l’esito formale. Se la legge di gravità detta lo schema di captazione, stoccaggio e distribuzione, la posizione e l’altezza dipendono da condizioni topologiche, come l’accesso all’acqua, la presenza di energia elettrica o di motori per attivare il sistema di pompaggio, nonché dalla capacità del serbatoio, il cui volume dipende dal numero di utenze e dal consumo stimato per unità abitativa. Questi parametri servono a definire un ordine di grandezza, ma lasciano campo aperto al progetto dell’involucro, dal coronamento al basamento. Le alternative sono molteplici e consentono di dare priorità al ruolo urbano e paesaggistico del manufatto. La metafora della carrozzeria[4] non è fuori luogo quando si pensa all’architettura delle torri idriche. Nel prendere le distanze dall’ingegneria e dagli standard dell’edilizia ferroviaria, le torri dell’acqua aprono un campo di sperimentazione espressiva e spaziale per gli architetti: l’involucro scolpito (Ippolito 2003, p. 41) si impone sulla scena urbana, attraverso riferimenti figurativi ai componenti meccanici, la grande cura nella scelta dei materiali e dei cromatismi risultanti, e un rinnovato senso civico del decoro (Theseider-Duprè 1929).

Tra utilitarismo e istanze rappresentative

Alla fine degli anni Venti e nel corso degli anni Trenta le torri piezometriche sono un tema di progetto ricorrente per alcuni giovani architetti. Ad esempio, per Angiolo Mazzoni[5] sono “solidi metafisici” nei quali la complanarità tra fusto e serbatoio si riassume in semplici cilindri che si stagliano enigmatici dalla polifonia del contesto urbano. L’«aspirazione alla modernità» (Godoli 2003, p. 21) emerge nella collocazione esterna della scala d’ispezione, che oltre a snellire la sezione del cilindo consente una vista a 360 gradi del paesaggio circostante: «In questo modo, il legame duale che si stabilisce tra le parti […] ammette una nuova sequenza: edifico-uomo-paesaggio» (Dedda 2017, p. 110). Proprio per la posizione isolata, queste torri-serbatoio offrivano un riferimento dinamico, percepibile a grandi distanze e diverse velocità, come quelle dei moderni mezzi di locomozione. L’ibridazione tra serbatoio idrico e edificio pubblico[6] segnò l’“inurbamento del tipo”, chiamato a qualificare i nuovi spazi pubblici come contrappunto verticale. La composizione “per ambientamento” dei nuovi interventi e l’architettura delle torri-serbatoio spostò l’attenzione dall’edifico in sé al disegno urbano, valorizzando anche le relazioni a distanza[7]. L’architettura degli involucri scolpiti e le soluzioni adottate per gli spazi non prettamente tecnici sottassero questa categoria di edifici all’anonimato delle soluzioni da manuale. Nei ripetuti tentativi di affrontare la composizione della facciata evitando vuoti intenti decorativi (Gruppo 7 1927, p. 468) si può leggere la volontà di “ambientare” i manufatti tecnici nelle città di fondazione. D’altra parte la questione dell’ambientamento, dal punto di vista storico e formale, era al centro della formazione degli architetti che frequentavano la Regia Scuola Superiore di Architettura di Roma sotto la supervisione di Gustavo Giovannoni. Alcuni tra i progettisti delle nuove città in Italia e nelle colonie, come Luigi Piccinato[8], Angiolo Mazzoni e Concezio Petrucci, incarnavano la figura dell’”architetto integrale” e avevano fatto propria la lezione di Giovannoni circa l’importanza di controllare l’impatto dei singoli interventi non solo sui comparti monumentali, ma anche sugli edifici ordinari. Secondo Paolo Portoghesi (2019, p. 9) la cultura dell’ambientalismo segnò un importante avanzamento, poiché «l’architettura non è fatta solo di grandiosi monumenti, è qualcosa di molto diverso. Ha come sfondo la città, non solo come insieme di edifici ma anche come paesaggio».

Anche se l’influenza di Giovannoni sui progettisti delle nuove città non è incontrovertibilmente dimostrabile, emerge come l’impatto che il disegno urbano nei piani urbanistici di diradamento edilizio abbia caratterizzeranno anche i centri delle città di fondazione. Se osservati non solo planimetricamente ma anche dal punto di vista del pedone, i centri nelle città di fondazione, soprattutto in Agro Pontino e in Puglia, mostrano chiaramente come il problema della città rurale fascista si identificasse con il suo centro, nel quale la composizione urbana si risolveva in una grande architettura. Qui, per aprire scorci artistici non erano necessarie le demolizioni finalizzate al “diradamento”, erano gli assi stradali, disassati a baionetta o dilatati a formare piazze, che indirizzavano la percezione verso gli edifici in altezza (campanile, torre civica, torre littoria) e filtravano le prospettive verso il paesaggio tramite portici e portali[9]. La combinazione tra direttrici stradali e l’”effetto di accidentalità” degli edifici dato dalla composizione di volumi con altezze e facciate diversi, trova nelle torri un fulcro di rifermento, come fuoco prospettico centrale o come volume angolare[10]. Concezio Petrucci per esempio, concepisce le torri delle città di fondazione come fulcri di visuali lontane[11], confermando l’impatto territoriale delle torri-serbatoio di Mazzoni. Questa ipotesi sembra suffragata dal fatto che i principali edifici pubblici, come la Casa del Fascio, il Comune o la sede dell’ONC (Opera Nazional Combattenti), o quelli per i servizi ai cittadini, sono caratterizzati da un linguaggio architettonico che stempera elementi monumentali e altri tratti dall’architettura minore, non necessariamente locale, declinati e reinventati per ricreare un’«alterità remota e domestica» (Culotta et alii 2007, p. 37).

Nel caso di Pomezia[12], l’ultima città di fondazione nell’Agro, la convergenza tra le istanze tecniche e rappresentative culmina nella torre-serbatoio, che assolve il ruolo di torre-littoria e torre civica sulla pizza centrale. La torre è concepita come un volume autonomo, che si discosta dagli altri edifici per l’interposizione di un porticato basamentale sormontato da una terrazza-arengo affacciata verso la piazza e verso il grande viale diretto a Latina e Pratica di Mare.

La tripartizione della torre rispecchia quella dei serbatoi idrici: il portico dal quale si accede alla scala circolare, il fusto scandito dalle monofore e dalle fasce marcapiano, il coronamento che sembra celare un terrazzo panoramico. L’impressione prevalente è quella di un tutt’uno plasticamente declinato che lega anziché isolare edifici pubblici e funzionali.

Le torri-serbatoio nei villaggi e nelle città dell’Agro Pontino: un repertorio per immagini.

L’ufficio tecnico dell’ONC – un vero e proprio laboratorio (Cucciolla 2006, p. 213) dove si progettavano le città e si tracciavano le lottizzazioni dei terreni agricoli – produsse alcune originali ibridazioni tra edifico pubblico e manufatto tecnico. La pianura pontina può essere considerata una “seconda natura” fatta di canali di bonifica, rettilinei stradali, campi dalla geometria regolare, città di fondazione e fattorie per la residenza stabile dei contadini. Ne fanno parte anche le torri dell’acqua, perché testimoniavano la diffusione delle reti già disponibili in città e che ora si diffondevano anche nella campagna. Come per Pomezia, dove la torre-serbatoio coincideva con l’edificio principale della piazza, anche nei villaggi operai costruiti dal Consorzio di Bonifica la dotazione di servizi si basava su criteri di razionalità ed economicità.

Il villaggio di Capograssa[13], realizzato sul prolungamento della Migliara 43 (tracciata a fine del Settecento nel contesto della bonifica di Pio VI) serviva come centro logistico per gli addetti allo scavo del Collettore delle acque medie, all’ampliamento del fiume Sisto e, in generale, alla canalizzazione e alla costruzione di strade. Il cantiere è un campo di battaglia: baracche costruite in fretta ed in serie, edifici pubblici di fortuna con le attività[14] essenziali e una fitta rete di deucaville smontabili e componibili man mano che i lavori proseguivano.

Situato all’incrocio di strade di bonifica, il centro del villaggio era dominato dalla torre-serbatoio per l’acqua potabile con cabina elettrica, che appariva come il campanile della cappella adiacente. Un’antenna di 30 metri con un pallone era servita da riferimento visivo per il tracciamento della strada nella stagione in cui la vegetazione era particolarmente alta.

La costruzione della chiesa nel 1931 segnò l’inizio della metamorfosi del villaggio operaio in Borgo San Michele (1933), il cui edificio più iconico era proprio la torre-serbatoio. L’ibridazione funzionale diventò anche formale: un rivestimento in tufo con altezza di gronda di 13.80 m s.l.m, le cui modanature neo-quattrocentesche riprendevano la facciata della chiesa; al posto di un rosone, l’orologio rivolto verso la piazza completava la facciata.

L’ambientamento delle torri-serbatoio nel contesto di più vasta scala è chiaramente visibile nella torre che oggi domina l’incrocio tra la litoranea e la Migliara 45. Era il serbatoio idrico del villaggio operaio Casal dei Pini; dopo la sua trasformazione in borgo rurale (Borgo Grappa) l’involucro è stato trasformato con merlature, contrafforti e bugne angolari che lo apparentato a Torre Olevola, un’antica torre di avvistamento facente parte del sistema difensivo del litorale laziale.

La torre serbatoio di Borgo Montenero presso San Felice Circeo fu costruita dopo il 1933. Più che una di quelle «forme cubiche delle architetture di energie» (Marinetti, 1935, p. 136) celebrate dai futuristi, questa torre è un gigantesco fascio littorio di 21,2 m. Il fusto, alto 15 m, contiene una scala per accedere al serbatoio collocato in un volume aggettante di 3,00 m sulla piazza, che richiama la forma dell’ascia littoria. La struttura è costituita da uno slanciato telaio di travi e pilastri che ha un carattere quasi espressionista e ricorda molto quelle strutture pubblicitarie temporanee o i padiglioni espositivi, come l’ingresso del padiglione Italia di Libera e De Renzi per la Fiera di Chicago del 1933, dove ritroviamo il contrasto cromatico tra fusto e ascia.

Anche in questo caso, la torre-serbatoio, alta e isolata, ordina e complementa la struttura urbana: «[…] ha pianta quadrata, divisa in tre settori rettangolari aventi il lato minore sulla strada. Quello centrale, il più piccolo – un doppio decumano – E-O (una sorta di foro) che si incrocia con un cardo N-S – è l’asse verde, che nella metà superiore s’allarga in piazza giardinata. Sullo sfondo c’è la torre littoria a fascio (il Montenero è l’unico ad averne una così vistosa) che funziona anche da serbatoio idrico» (Pennacchi 2008, p. 233).

Che la forma del fascio facesse parte di una «politica del visibile» (Culotta et alii, 2007) è un fatto noto[15]. L’idea che la società e la politica potessero essere plasmate attraverso i caratteri dello spazio abitato aveva influito sulle scelte formali e le astrazioni più o meno riconoscibili del fascio littorio. In molti casi le torri venivano assimilate alla figura del fascio tanto da servirsi del fusto verticale per favorirne la visibilità da grandi distanze, perfino dal cielo, attraverso l’ombra proiettata sulle aree antistanti, oppure di scorcio da uno dei voli degli aeropittori[16] .

Le torri dell’acqua visibili da più punti circostanti ed in movimento materializzavano nei territori di frontiera e nell’immaginario quotidiano dei coloni rurali il senso della modernità come conquista e addomesticamento del territorio. L’effetto del tuttotondo è perciò un tratto distintivo dei manufatti tecnici dislocati alla scala del paesaggio tecnico.

Allo stesso tempo il progetto dell’edificio e della sua forma sanciscono l’interdipendenza tra natura e insediamento «attraverso l’ingegno del costruire» (Gregotti 1994, p. 5).

Nelle prime tre città, Latina (1932), Sabaudia (1933) e Pontinia (1934) le torri-serbatoio vennero collocate al confine dell’insediamento, in prossimità delle aree agricole e delle principali strade di accesso. Come per i villaggi operai diventati borghi agricoli, anche nelle città di fondazione questi edifici rappresentavano occasioni di ibridazione funzionale e di sperimentazione architettonica. Ad esempio, in tutti e tre i casi la tripartizione funzionale della macchina idrica veniva variamente reinterpretata nell’involucro, prevedendo aree di aggregazione o punti di osservazione in quota. Il progetto delle torri-serbatoio fu affidato all’architetto Oriolo Frezzotti (1888-1965), autore o consulente ‘artistico’ dei piani regolatori di Latina e Pontinia e dei progetti degli edifici pubblici.

Nel caso di Latina, l’edificio appariva in origine come un’astrazione del fascio littorio. La base e il fusto della torre erano due cilindri di altezze diverse; un terzo volume parallelepipedo conteneva la scala che collegava il piano di campagna alla sommità della torre. Il cilindro di base, un monoptero molto schiacciato con dieci colonne circolari, era parzialmente tamponato in corrispondenza alle sezioni circolari, definendo stanze-magazzino affacciate a semicerchio su un’area porticata. La terrazza circolare di copertura era una affacciata sulla campagna e sullo stadio, permettendo una visione simultanea della città e della pianura frazionata a campi. Il fusto, alto 12 m, aveva una struttura a pilastri perimetrali in calcestruzzo armato semi incassati nelle murature di tamponamento. La sezione circolare del fusto ospitava un silos per il grano raggiungibile a varie altezze dalla scala. La struttura dell’involucro alludeva alle verghe del fascio littorio. Collocata in asse con la linea mediana del campo da calcio, la torre risultava isolata dal tessuto urbano ed era visibile sia per chi veniva dalla strada litoranea che dagli assi urbani.

Anche la torre di Sabaudia è un esempio di ibridazione funzionale: includeva un silos e un serbatoio d’acqua all’interno di un involucro complesso. In questo caso l’edificio è costituito da uno cilindro di 5m di diametro. Al piano terra era collocato un locale macchine, sormontato da tre piani di silos e da un serbatoio della capacità di 360 mc. Nell’intercapedine tra il nucleo funzionale e il muro perimetrale c'era un anello di circa 70 cm all’interno del quale si sviluppava la scala fungeva da irrigidimento per la struttura e consentiva l’accesso ai vari livelli del silo fino alla terrazza circolare a quota +20,40 m s.l.m (utilizzata per la manutenzione del serbatoio). L’involucro, dal locale macchine all’imposta del serbatoio, era scolpito con scanalature a spigolo piatto di un’altezza di 15 m a segnare il fusto. Il contrasto tra le parti piene e l’effetto del chiaroscuro delle scanalature rendeva leggibile la tripartizione e alludeva alle verghe del fascio littorio.

Nel caso di Sabaudia l’origine utilitaria delle torri-serbatoio viene reinterpretata. L’area alla base della torre è risolta in chiave monumentale: la grande vasca d’acqua rettangolare (21 m x 13,50m) è parte del basamento e sembra alludere all’uso civico che i lavatoi o le fontane avevano nel mondo antico e nei contesti rurali; dal piede della torre rivestito in travertino tre bocchettoni alimentavano la vasca, il cui fondo in tessere blu contrastava con l’intonaco bianco.

Seppur decentrata dal nucleo di fondazione, la torre dominava la prospettiva per chi arrivava da est lungo la Migliara 53, il grande rettifilo in asse con la torre littoria e ortogonale al sistema delle piazze, definendo la soglia tra la zona produttiva e la città.

La torre-serbatoio di Pontinia è un ulteriore variazione sul tema dell’involucro scolpito e con la sua facciata cieca visibile da diversi punti della città, rappresenta al meglio l’effetto del “tuttotondo”. La torre, a differenza delle precedenti, è un parallelepipedo (14m x 8,50m) alto 28,50 m collocato sulle sponde del fiume Sisto. Leggendo la relazione tecnica, si comprende come questa soluzione dipendesse dalla forma del serbatoio[17] e dalla struttura necessaria a sorreggerlo, un’intelaiatura di 12 pilastri in cemento armato collegati da 8 ordini di travi. La facciata è un tamponamento in pietrame misto alternato ad un doppio corso di mattoni a cui corrispondono sui quattro lati, rispettivamente, un rivestimento in mattoni da 15 cm e fasce da 70 cm in travertino.

Dall’esterno la struttura a telaio non è visibile perché i muri di tamponamento, con l’alternanza delle fasce orizzontali, veicolano l’immagine di un muro portante continuo, quasi fosse il frammento di una struttura fortificata più estesa. Anche la facciata principale, rivolta verso la piazza centrale a nord-ovest, allude allo scavo all’interno di una massa muraria: le tre nicchie di ordine gigante definiscono il fusto del serbatoio sopra; le nicchie accolgono tre zampilli in prossimità del basamento che alimentano la vasca antistante. Vista di scorcio, l’interazione tra la gittata dello zampillo e la verticalità della nicchia richiama la forma del fascio littorio rovesciato.

La torre-serbatoio di Pontinia, pur essendo un elemento estraneo alla perentorietà della piazza centrale, materializza attraverso la sua posizione e la leggera rotazione rispetto all’asse stradale, le diverse giaciture del contesto. La combinazione tra la geometria del piano e la qualità prospettica sottolineata dall’altezza si combinano con l’andamento del fiume Sisto in una composizione trapezoidale con la facciata della torre come base minore e l’asse centrale della piazza come base maggiore. L’effetto finale di questa rotazione – senza precedenti nelle altre città di fondazione – è la visione d’angolo, simultaneamente di due facciate della torre sia dall’interno della città che attraversando la campagna lungo le Migliare. Il progetto incompiuto della passeggiata pittoresca[18] lungo il fiume Sisto, avrebbe arricchito la sequenza spaziale tra il fiume e la città rendendo la torre-serbatoio visibile da tutti i lati, soluzione che rafforza non solo l’ipotesi dell’ambientazione degli edifici tecnici all’interno delle città di fondazione ma anche della frontiera come costruzione simbolica.

Ancora oggi, salendo sul terrazzo sopra il coronamento in travertino, l’esperienza della soglia permane nella dialettica tra la scala territoriale del progetto di bonifica con la pianura a perdita d’occhio, la linearità di strade e canali e il contrappunto offerto dai grandi fatti geografici come il Circeo e la linea della costa ad Ovest, La Via Appia e i Monti Ausoni-Lepini ad Est.

Note conclusive

Nonostante le perplessità di Giuseppe Pagano rispetto all’occasione mancata di Pontinia[19], non si può ignorare la qualità architettonica e urbana delle torri-serbatoio considerando il grado di sperimentazione tipologica e l’ibridazione funzionale che avrebbe potuto piegare le scelte formali all’innovazione tecnologica. Il risultato – talvolta goffo e magniloquente – è l’affermazione di un principio: il progetto di architettura non dovrebbe esimersi dall’esprimere scelte figurative nemmeno quando dimensioni, localizzazione ed uso sono puramente utilitaristiche.

Allargare lo spettro di analisi sulla modernizzazione dei paesaggi rurali e delle città di fondazione significa anche confrontarsi con l’idea che «l’agricoltura è un’industria che ancora non sa di esserlo» (Studiati, 1930, p. 783) ed includere nello studio gli edifici necessari al mantenimento della produzione o legati al funzionamento delle infrastrutture di bonifica.

Una lettura meno legata alla questione storiografica permetterebbe forse di superare la vulgata comune che vede contrapposti razionalismo e architettura novecentista e di riportare il discorso sul presente dove le sfide poste alla coerenza tra il progetto di architettura e gli aspetti di funzionamento tecnologico sono spesso elusi dall’arroccamento su sponde disciplinari opposte. Gli edifici a servizio della tecnologia, della logistica e della produzione energetica sono oggi drammaticamente banalizzati dalla ripetizione, dalla standardizzazione dei sistemi costruttivi che quasi del tutto rinunciano all’ibridazione funzionale, alla sperimentazione dell’involucro come linguaggio espressivo e alla complessità formale e spaziale.

Nonostante l’obsolescenza (Abramson 2016) degli impianti tecnologici e del sistema di approvvigionamento e la sostituzione del sistema di distribuzione idrica nelle città dell’Agro Pontino, le torri-serbatoio non demolite restituiscono quel complesso sistema compositivo fatto di prospettive e viste dei progetti di fondazione.

Resta il dubbio che gli edifici utilitari d’oggi, drammaticamente esposti a innovazioni tecnologiche più veloci, fasi di obsolescenza più brevi e con frontiere sempre più risicate dove sperimentare, diventeranno architetture dello scarto, estranee ai contesti e precarie rispetto a sedimentazioni identitarie.

Ipotizzando di darsi come compito progettuale la progettazione di edifici produttivi o utilitari, ci si può chiedere come possa il progetto di architettura esprimere ancora la propria capacità di orchestrare l’organismo spaziale senza essere solo contenitore?

Lo studio del modernismo rurale italiano e dello sforzo di ‘ambientamento’ delle torri dell’acqua dimostra come alla formazione dell’ambiente costruito contribuiscano in egual misura gli edifici pubblici, le architetture minori e perfino quelle strutture di supporto alle innovazioni tecnologiche.

Note

[1] Anche Corrado Alvaro (1934, p. 47) ricorse alla metafora bellica: «Non dev’essere mai accaduto di vedere in così breve tempo, e da giorno a giorno, una così vasta e completa trasformazione della terra […] forse nel fenomeno della guerra, quando un prato in brev’ora mutava fisionomia, e i due o tremila uomini che l’occupavano, ognuno per sé e per tutti, lo trasformavano in un accampamento con tende, canali di scolo per le acque, cucina, spiazzi, uffici; o meglio, sul campo di battaglia, quando all’opera dell’uomo si univano gli elementi di distruzione, la terra mutava aspetto fin nei suoi dislivelli e ne veniva fuori una gigantesca città di abitatori delle caverne con la rapidità del lavoro dei termitai».

[2] L’espero di geografia culturale Maoz Azaryahu (2019) analizza il ruolo delle torri piezometriche negli insediamenti rurali sionisti, osservando la loro evoluzione da edifici-icona del progresso a veri e propri memoriali della guerra di indipendenza israeliana.

[3] Tra gli esempi italiani ricordiamo il Cisternone (1829-1842) di Livorno progettato da Pasquale Poccianti alla testata dell’acquedotto derivato dalle sorgenti di Monte Colognole. La facciata è caratterizzata da un colonnato tuscanico sovrastato da una grande sezione sferica (svincolata dalla sezione). una serie di padiglioni minori, i casotti, servivano a regolare la portata dell’acqua. Un altro esempio è l’acquedotto di Lucca progettato da Lorenzo Nottolini, le cui arcate si concludono con due tempietti monopteri sormontati da tamburo e cupola: uno alle fonti di Guamo e l’atro appena fuori dalle mura urbane. Secondo Matteoni (2001, p. 83) questa forma esplicitava la destinazione pubblica dell’edificio e può essere riferita ai progetti di Boullèe e di Ledoux. In alcuni casi, come l’impianto fognario di Londra (1864-1874), assunsero un carattere monumentale anche le stazioni di filtraggio delle acque reflue; si trattava di due edifici in ferro e mattoni destinati a sollevare le acque nere per favorirne il deflusso. L’idrovora di Crossness richiamava elementi dell’architettura romanica mentre Abbey Mills era ispirata all’architettura neobizantina.

[4] Biagini e Nuti (2003) individuano una fase di transizione per lo sviluppo dell’architettura ferroviaria nel passaggio tra l’uso delle locomotive a carbone all’elettrificazione della rete nazionale, che rese obsoleti molti edifici e mentre ne sorgevano di nuovi come le cabine apparati centrali, i depositi per trazione elettrica e le officine. 

[5] Angiolo Mazzoni del Grande (1894-1979) lavorò presso l’Ufficio Tecnico delle Ferrovie dello Stato dove progettò molte stazioni, oltre ai numerosi edifici postali. Dopo la caduta del fascismo Mazzoni si trasferì in Colombia (1947-1963) e poi tornò in Italia definitivamente. Nell’Agro pontino progettò la stazione di Latina Scalo (1932) gli edifici postali di Latina (1932) e di Sabaudia (1932-1934).

[6] Vedi Maltoni (2013) e Ciccarelli (2014). La torre piezometrica di Forlimpopoli è un esempio emblematico di tipologia ibrida. Il basamento fu concepito come cappella e poi come Sacrario ai Caduti. Nel caso di Osimo, la torre serbatoio progettata nel 1933 in sostituzione di quella preesistente diede avvio alla riconfigurazione della piazza-sagrato antistante. In contiguità con la chiesa romanica di San Leopardo, la torre fu assimilata a un campanile. Molte torri piezometriche costruite durante il Fascismo sono state immaginate come torri littorie, l’edificio monumentale fascista par excellence.

[7] A questo proposito, nel descrivere il piano di Aprilia, Concezio Petrucci (1902-1946) ne sottolineò l’effetto paesaggistico: «Il piano si estende su di una amena collinetta, dalla quale si osserva il meraviglioso panorama dei Colli Albani a nord, la catena dei Monti Lepini a nord-est e a sud-est la caratteristica sagoma del Promontorio del Circeo, che si disegna netto sull’orizzonte, come un gigantesco baluardo che pare protegga la meravigliosa bonifica che solo gli uomini di Mussolini hanno potuto realizzare» (Petrucci, 1937, p. 19). La piazza di Pomezia viene invece descritta come «chiusa su tre lati, essa aprirà il quarto come un’ampia terrazza, a fronteggiare l’orizzonte limpido delle campagne circostanti che hanno come sfondo l’ombra cerulea dei monti Albani» (Patti 1938, p. 96).

[8] Pur non essendo allievo di Giovannoni, Luigi Piccinato fece suoi alcuni dei concetti più innovativi; in particolare l’idea di città come organismo nel quale si giocava il rapporto con l’”edilizia nuova” (Pane 2015).

[9] Nelle città di fondazione i portali e i portici collegavano i singoli edifici pubblici delimitando lo spazio della piazza. Nel progetto di diradamento di Bari vecchia (1932), Concezio Petrucci «continua ad appuntare elementi architettonici propria dell’edilizia di sostituzione che è, in larga misura, necessaria per suturare le ferite provocate dai diradamenti» (Cucciolla 2006, p. 127)

[10] In modo del tutto affine agli esempi delle città storiche italiane e in particolare nella lettura che ne facevano Giovannoni e i suoi allievi nei progetti di diradamento edilizio. Il progetto di Petrucci per Bari vecchia, in questo senso, è il più «compiuto e organico esempio di applicazione della teoria del diradamento edilizio» (Cucciolla 2006, p.135) dal momento che identificava nei campanili normanni l’elemento visivo catalizzatore dell’intervento, ovvero punti di concentrazione monumentale rispetto ad un tessuto edilizio minore. (Moschini 2019).

Nel piano di diradamento per Bari vecchia, la demolizione di edifici o parti di esse per liberare gli assi di attraversamento ha anche uno scopo ‘artistico’ è il campanile della cattedrale ad essere traguardo e sfondo visivo di tutte le strade progettate.

[11] Scrive Cucciolla (2006, p. 245): «La torre civica svolge, insieme al campanile, lo scontato ruolo più volte richiamato di perno compositivo dell’intero progetto ed emergenza visuale primaria; la torre è risolta come un volume compatto, privo di aperture e costituito da un muro di tufo di Marino, elegantemente suddiviso in moduli da un incisione sottile […]» Inoltre: « Petrucci utilizza il campanile della cattedrale, che costituisce l’emergenza architettonica più alta di Bari Vecchia, come il principale traguardo visivo per il fruitore e come perno della riconfigurazione urbana, secondo criteri scenografici che possono perfino far pensare a suggestioni barocche o a citazioni haussmaniane» (ivi, 126)

[12] Progettata dagli architetti Concezio Petrucci, Mosè (Mario) Tufaroli Luciano e dagli ingegneri Filiberto Paolini e Riccardo Silenzi. Il gruppo realizzerà per conto dell’ONC tre città nuove: Aprilia (1936), Pomezia (1937), Fertilia (1937-1943); Petrucci progetterà Segezia (1939-1941) mentre Paolini e Tuffaroli progetteranno nel 1939 Borgo Appio e Borgo Domitio in Campania.

[13] Il quinto in ordine di tempo ad essere costruito dal Consorzio di Bonifica di Piscinara dopo Sessano, Passo Genovese, Casal dei Pini e Doganella (Vittori e Fedeli, 2002).

[14] I servizi collettivi comprendevano una scuola con abitazione per gli insegnanti; un presidio sanitario con abitazione del medico; un cinema e dopolavoro; un fabbricato per il capo dell’Azienda Agraria provvisoriamente utilizzato come ufficio tecnico; la chiesa, la stazione dei carabinieri, tre caseggiati per gli operai trasformabili in case coloniche, una dispensa alimentare, un forno collettivo, tre fontanelle con abbeveratoio e lavatoio.

[15] Il simbolo del fascio littorio non rappresentava soltanto il partito. Costituiva la rappresentazione dei nuovi valori propugnati dall’Italia fascista. Dal 1927, il fascio littorio diventa lo stemma dello Stato. Dal 1929 due fasci affiancano lo stemma della famiglia Savoia. Il fascio littorio diventa anche il simbolo utilizzato sui francobolli da 1 e da 5 lire (Falasca-Zamponi, 1997, p. 99)

[16] Nella ricerca di Paradiso e Vittori (2019) gli aspetti artistici abbracciano anche musica e teatro.

[17] Nella relazione tecnica si legge: «Prevedendo una popolazione stabile di 5000 persone ed un uso procapite di 100 litri di acqua, si ottiene il consumo medio giornaliero previsto di 500.000 litri da soddisfarsi, nel periodo di massimo consumo, con il riempimento di 3 volte al giorno del serbatoio. Il serbatoio, a sezione pressocchè quadrata, di 4.5 m per 4 m. e per una lunghezza di 10 m ha una capacità di 180 mc».

[18] Pagano (1935, p. 6) scrive: Pontinia non mancherà neppure di qualche vago svolazzo nella sua cornice, di qualche elemento pittoresco e seducente. Basta affacciarsi all’alveo in cui scorre il fiume tracciato da Ascanio Fenizi per comandamento di Sisto V e sistemato e corretto dalla bonifica fascista per prevedere l’utilizzazione urbanistica che si potrà fare di quel corso d’acqua. Il Sisto, nelle sue sponde regolari, ha esso pure l’ampiezza e la silenziosità grave dei canali della Padania. Una strada alberata correrà, nel senso del fiume, e sarà il Lungosisto di Pontinia. Nelle notti tiepide le comitive andranno alla passeggiata all’argine, proprio come i paesi del Po della Bassa.

[19] Ovvero il tema della città rurale come campo di applicazione del razionalismo

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