New Types/One Type. Edifici complessi e spazio pubblico nei nuovi insediamenti rurali dell’Agro Pontino.

Emanuela Margione



Introduzione

Oggi l’Agro Pontino è un paesaggio antropizzato esteso per circa mille chilometri quadrati. Questa condizione è il risultato dellla bonifica integrale delle Paludi Pontine messa a punto da Arrigo Serpieri nel 1923, la cui attuazione è stata possibile grazie alle nuove invenzioni tecnologiche nel campo della meccanica, dell’idraulica e dell’agronomia. Qui furono collaudate anche le innovazioni in tema di urbanistica e architettura; del resto, quando si parla di modernizzazione del paesaggio rurale dell’Agro Pontino, non si può fare a meno di citare le cinque città di fondazione, costruite in stretta correlazione con la fitta maglia degli oltre tremila poderi e sedici insediamenti minori, i cosiddetti borghi rurali. [Figg. 1, 2]

In questo processo di trasformazione il disegno urbano assume un ruolo centrale, non solo nella ridefinizione del rapporto tra città e campagna, ma anche nella caratterizzazione scenografica dei nuovi insediamenti, decisiva a definire i nuovi tratti identitari dei luoghi[1] dove avrebbero messo radici comunità eterogenee. L’Agro Pontino si rivela ben presto un terreno fertile anche per testare alcune tipologie architettoniche, emergenti a partire dall’inizio del Novecento, lavorando sul rapporto tra composizione architettonica e disegno urbano. Si tratta di edifici collettivi come il Dopolavoro e le cosiddette case: del Balilla, del Fascio, della Madre e del Bambino o del Contadino. In tutti questi casi, l’edificio pubblico assume un ruolo centrale nella definizione dello spazio urbano. Del resto, una peculiarità del caso studio è proprio la simultaneità tra la sperimentazione alla scala urbana-territoriale e quella alla scala architettonica.

Con la definizione di una nuova tipologia insediativa urbano-rurale emerge una matrice compositiva comune alle le strutture sopracitate. In stretta relazione con il disegno della città in costruzione, questa matrice è connotata da un certo livello di promiscuità tra spazi antitetici. Tutto ciò sembra anticipare la nozione stessa di edificio complesso (complex building) i cui caratteri distintivi lasciano ancora spazio a molti approfondimenti. I paragrafi successivi si soffermano sul ruolo dell’architettura nella definizione degli spazi delle città di fondazione dell’Agro Pontino, con particolare attenzione alle sperimentazioni tipologiche e architettoniche.

Architettura e spazio urbano scenografico

In Agro Pontino vengono costruite cinque città in rapida successione: Littoria (oggi Latina) in meno di sei mesi (1932), Sabaudia in otto mesi (1933-1934), Pontinia in dodici mesi (1934-1935), Aprilia (1936-1937) e Pomezia (1938-1939), entrambe realizzate in diciotto mesi. La triade podere-borgo-città[2] viene messa a punto anche attraverso la costruzione di sedici borghi rurali e circa tremila poderi, con i tipici casali lungo le strade sui rispettivi appezzamenti di terreno.

Questa serrata sequenza temporale è un aspetto fondamentale dell'esperienza pontina. Le città di fondazione e il paesaggio rurale modernista che le circondava sorsero in pochi anni[3], con l’obiettivo di mettere in pratica l’urbanistica ruralizzatrice teorizzata negli anni Venti[4]. Le cinque città non hanno conosciuto il processo di crescita lenta, a tratti spontanea, che caratterizza la maggior parte degli insediamenti urbani europei. La contrazione dei tempi nella costruzione ex novo di queste città ha reso necessario il coinvolgimento degli estensori del piano anche nella progettazione degli edifici principali, generando delle vere e proprie città d’autore (Muntoni, 2006) in cui il rapporto tra morfologia urbana e composizione architettonica risulta indissolubile. Ciononostante, questo rapporto viene declinato di volta in volta dando luogo a diverse soluzioni.

Per comprendere la natura del laboratorio pontino bisogna mettere a confronto Littoria e Sabaudia. A Littoria, progettata dall'architetto Oriolo Frezzotti, il ruolo dell'architettura è duplice. Da un lato, attraverso la teatralizzazione del tradizionale insediamento rurale italiano, essa diviene la scena fissa per un nuovo stile di vita rurale; dall’altro conferisce le necessarie volumetrie alla forma urbis, studiata per adattare lo schema radiale generato dai tracciati stradali preesistenti alle teorie urbanistiche di Gustavo Giovannoni. La strategia adottata da Oriolo Frezzotti emerge chiaramente nel disegno del centro, che si configura come un’unica grande piazza rettangolare. Osservando con attenzione la relazione tra l’invaso e le architetture pubbliche che lo circoscrivono, si riconoscono due distinti sistemi geometrici che integrano i tracciati stradali preesistenti in un’unica scenografia urbana. Per rafforzare tali geometrie, Oriolo Frezzotti progetta le attrezzature pubbliche a partire dall’estrusione del perimetro dell’isolato, ricavando una sorta di architettura bidimensionale, nella quale la facciata corrisponde solo in parte all’organizzazione planimetrica. Si potrebbe addirittura affermare che la necessità di mettere in evidenza i tratti specifici dell’urbanistica rurale abbia avuto la meglio sulla definizione tipologica degli edifici pubblici. Gli esempi più eclatanti sono quelli del Municipio, dell’Albergo e del Palazzo della Finanza. I primi due assecondano la geometria delle strade con una pianta molto simile, specchiata sulla mediana della piazza. La torre del Municipio però non corrisponde al centro geometrico della facciata principale, ma viene leggermente disassata per evidenziare la struttura del sistema urbano. Il Palazzo della Finanza viene invece progettato nel secondo sistema urbano in cui gli assi stradali preesistenti disegnano uno schema ortogonale. Per tale ragione, Oriolo Frezzotti progetta un edificio costituito da un corpo maggiore atto a concludere la scenografia della piazza principale, e due bracci laterali perpendicolari tra loro. [Fig. 3]

Anche Sabaudia, realizzata nel 1934 su progetto di Luigi Piccinato, Gino Cancellotti, Eugenio Muntuori e Alfredo Scalpelli, è un esempio del ruolo «dell’architettura nella definizione dello spazio urbano e del paesaggio rurale modernista». Qui, più che a Littoria, l’architettura diventa lo strumento per sperimentare un nuovo rapporto tra impianto urbano, emergenze geografiche e paesaggio rurale.

Sabaudia ha il merito di rispecchiare in pieno uno dei caratteri più tipici e significativi della formazione architettonica moderna, che è quello di voler scendere alle radici dell’arte del costruire, considerando, prima della tipologia degli edifici, la connessione di essi con l’ambiente; di pensare cioè l’ambiente come ente unitario, in cui si esprimano con la maggior intensità e naturalità i caratteri della vita sociale [e] l’edificio singolo [come] una parte inscindibile del tutto. (Piacentini, 1934)

Le parole di Marcello Piacentini ci aiutano a comprendere Sabaudia come un’opera di orchestrazione nella quale il paesaggio, il disegno urbano e l'architettura, strettamente interdipendenti, collaborano alla definizione di una spazialità articolata:

l’insieme edilizio è inserito nella natura circostante: le masse non rinserrano mai spazi ermetici, a mo’ di quinte esse sono abilmente composte, come che per le ampie fratture penetri ovunque il paesaggio, specialmente nelle sue visuali più importanti, come quella del Circeo e del Lago di Paola. (Piacentini 1934)

A Sabaudia l'architettura individua una nuova dimensione nel rapporto visivo che instaura con gli elementi del paesaggio circostante. Lo spazio scenografico non si limita più alle facciate bidimensionali perché entrano in campo i volumi, dimensionati per essere visti anche da lontano, alla scala del territorio. Non sorprende che il progetto sia stato studiato attraverso molte vedute prospettiche all’altezza dell’occhio umano, disegni in cui la sequenza tra pieni e vuoti viene ritmicamente calibrata perché l’architettura si misuri con gli elementi orizzontali e verticali del paesaggio in-naturale, definendo al contempo gli invasi per le attività pubbliche.

La sperimentazione avviata in Agro Pontino non coinvolge solo di livello urbanistico-territoriale, ma anche gli aspetti tipologici dell’architettura. Nei piani delle città di fondazione è possibile identificare alcuni edifici isolati che si stagliano dalla cortina edilizia: si tratta quasi sempre dei nuovi temi tipologici per i servizi, l’assistenza e il tempo libero, temi da mettere a punto per gli aspetti compositivi e da collaudare in rapporto alla città.

Genealogia degli edifici complessi dell’Agro Pontino.

Con l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore – regolamentata in Italia con il R.D.L del 15 marzo del 1923 – emerge la necessità di nuove polarità urbane e nuovi edifici per il tempo libero. Una serie di manuali e di concorsi di progettazione contribuiscono alla definizione di tipologie ad hoc, in cui il ruolo dell’architettura come strumento educativo si fa esplicito. In questa fase, le città di fondazione offrono l’opportunità di verificare la sinergia tra spazi pubblici, comportamenti collettivi e le nuove tipologie architettoniche, come la Casa del Balilla, la Casa del Fascio e il Dopolavoro. Questi edifici avrebbero fornito ai futuri coloni alcuni servizi essenziali e gli spazi per il tempo libero. La Casa della Madre e del Bambino, la Casa dei Mutilati e Invalidi o la Casa del Contadino avrebbero provveduto ai servizi sociosanitari e assistenziali di quartiere.

A un’attenta osservazione, queste tipologie sperimentali rivelano una matrice spaziale comune – una sorta di genotipo architettonico – costituita essenzialmente da tre elementi: una grande sala polivalente, le aule di ordine maggiore e quelle più piccole, equivalenti alla metà o a un quarto della sala principale.

La Casa del Balilla di Littoria progettata da Oriolo Frezzotti nel 1932 sotto la direzione di Renato Ricci[5] corrisponde a questi canoni. L’edificio segue infatti il Prototipo di Casa del Balilla con Palestra n. VIII pubblicato da Enrico del Debbio nel manuale Opera Nazionale Balilla: Progetti di Costruzioni. Case del Balilla, palestre, campi sportivi, piscine ecc. [Fig. 4]. Frezzotti progetta un organismo simmetrico con al centro la grande sala polifunzionale per le attività ginniche e le assemblee. Il salone, affiancato da due aule per gli spogliatoi e la palestra di scherma, determina la massima estensione e l’altezza dell’edificio. Le aule piccole, per i servizi secondari e i collegamenti verticali, sono collocate intorno all’atrio semicircolare, commensurabile al salone anche dal punto di vista compositivo e distributivo. Dall’atrio, infatti, si può raggiungere la galleria al primo piano che, conferisce al tutto l’edificio un carattere teatrale, come una sorta di Teatro dello Sport. [Fig.5]

I Progetti di Tre Prototipi di Casa del Fascio per i Borghi dell’Agro Pontino[6] elaborati da Alfredo Pappalardo in occasione del Concorso Nazionale per la Progettazione del Prototipo di Casa del Fascio per i centri rurali e dell’entroterra e della frontiera del 1932 sono altrettanto interessanti. Risalgono al 1935 e declinano la matrice spaziale in modo da accogliere i servizi pubblici ritenuti essenziali per i nuovi insediamenti rurali: gli spazi di rappresentanza del partito e dei sindacati, l’ambulatorio medico con il pronto soccorso, gli spazi per le attività educative e ricreative con la biblioteca, una piccola ludoteca, la sala da ballo e una palestra. [Figg. 6, 7, 8] Questi progetti prendono spunto dalla Casa del Fascio di Littoria, non solo per l’impianto, ma anche dal punto di vista figurativo, alla ricerca di un rapporto scenografico con lo spazio circostante.

Con il progredire della sperimentazione sul tema della città rurale, si precisa anche la fisionomia dei nuovi edifici per i servizi e il tempo libero, protesi tra la scala architettonica e quella urbana. Le singole parti della matrice spaziale vengono aggregate in un unico edificio concepito come una vera e propria macchina urbana costituita da spazi adattabili, in grado di ospitare strutture per l’assistenza e il tempo libero, con il ruolo di condensatore sociale per i nuovi insediamenti.

Nel caso di Sabaudia, il Dopolavoro, i Sindacati, la Casa del Fascio e il cinema-teatro con ristorane vengono aggregati all’interno di volumi interdipendenti che formano una sequenza lineare di spazi commerciali e residenziali porticati, distribuiti in due corpi ortogonali tra loro. L’articolazione planimetrica collabora alla costruzione di una scenografia urbana che si apre sul panorama del Circeo e del Lago di Paola nonché sul nuovo paesaggio rurale. L’edificio complesso di Sabaudia collabora alla costruzione prospettica rompendo l’ortogonalità dell’isolato e ampliando il campo visivo verso la torre comunale, che funge da testata monumentale per la Migliara[7] 53. [Fig. 9] Questo complesso di edifici sembra modellato per forza di levare in una massa solida, le cui proporzioni si confrontano con la scala territoriale. I vuoti hanno lo stesso ruolo compositivo dei pieni e danno vita a una sorta di cittadella eterotopica sulle cui mura, divenute abitabili, si innestano il Dopolavoro, il cinema-teatro e la piazza: una palestra all’aperto per il tempo libero in estensione dell’edificio. [Figg. 10, 11]

Un altro caso emblematico è quello della piazza di Pontinia, la terza città di fondazione[8]. Qui il complesso edilizio, sempre riconducibile a un sistema di scala maggiore, si costruisce sulla diagonale di un quadrato il cui lato è dedotto dalla facciata del Municipio. [Figg. 12, 13] All’interno di questo quadrato due corpi pressoché simmetrici accolgono il cinema-teatro e gli spazi del Dopolavoro, due ambienti collegati in cui è possibile riconoscere la matrice spaziale originaria.

Le sperimentazioni sulle nuove tipologie per il tempo libero coinvolgono anche i borghi rurali, dove il condensatore sociale risulta ancora più necessario. Da questo punto di vista, gli edifici gemelli realizzati a Littoria Scalo e a Borgo S. Donato e quello progettato per Borgo Hermada possono essere considerati dimostrativi. L’edificio progettato per Littoria Scalo e per Borgo San Donato è definito da un impianto rigorosamente simmetrico formato da tre blocchi autonomi. Il corpo centrale preceduto da un portico accoglie la grande sala polifunzionale dove trovano collocazione le tipiche attività del Dopolavoro: il cinema-teatro, il ballo, la palestra e le assemblee. Nei due corpi laterali si trovano le aule maggiori: una riservata all’Ufficio Postale, l’altra alla Casa del Fascio. Le aule minori che mettono in comunicazione i due volumi sono utilizzate per gli spazi di servizio. [Fig. 14]

Il secondo esempio è quello di Borgo Hermada[9]. [Figg. 15, 16] L’edificio, oggi profondamente trasformato e quasi del tutto irriconoscibile, era definito da tre volumi autonomi contigui. Una testata corrispondeva alla grande sala polivalente del Dopolavoro, l’altra aggregava le aule di ordine maggiore che accoglievano le Poste e gli uffici del Sindacato. Il corpo lineare di collegamento ospitava una sequenza di tre piccole aule riservate all’Opera Nazionale Balilla e agli uffici assistenziali per i reduci di guerra.

Due caratteristiche fondamentali accomunano gli esempi citati: la compenetrazione di spazi antitetici come interno ed esterno, pubblico e privato, servito e servente e la sovrapposizione, anche temporale, del programma di attività. A Sabaudia, per esempio, la piazza pubblica viene progettata come vera e propria estensione dell’edificio, mentre a Pontinia la promiscuità degli spazi in pianta e sezione rende impercettibile – se non del tutto dissolta – la distinzione gerarchica tra il cinema-teatro e il Dopolavoro.

New Types, One Type

Il tema degli edifici complessi (complex buildings) è tornato al centro del dibattito grazie a tre numeri dell’A+T Journal pubblicati tra il 2017 e il 2018. In questi volumi, Aurora Fernández Per introduce il tema partendo dalla nozione di condensatore sociale, ovvero una soluzione spaziale alle necessità dello Stato di organizzare in ambienti controllati le attività ludico-culturali e socioassistenziali che emergono all’inizio del Novecento. Secondo gli autori dei diversi contributi, la genesi di questa particolare tipologia può essere ritracciata nell'esperienza sovietica degli anni Venti, come pure nella contemporanea stagione americana degli hybrid buildings. Questi edifici, aprendosi alla città senza soluzione di continuità, favorivano un nuovo uso dello spazio pubblico capace di densificare le relazioni tra membri eterogenei di una comunità (Fernández Per 2017).

A partire dalle questioni descritte nei paragrafi precedenti, sembrerebbe possibile stabilire un parallelismo tra la vicenda dell’Agro Pontino e le esperienze sovietiche e americane. Non si tratta solo di una corrispondenza cronologica ma anche – soprattutto – di una serie di analogie riconducibili all’organizzazione dello spazio finalizzata a sancire un determinato ruolo sociale degli edifici. Di fatto, anche gli edifici complessi dell’Agro Pontino vengono sperimentati a partire dalla volontà di controllare e organizzare il tempo libero dei coloni. Inoltre, essa presenta una spazialità architettonica che irrompe nella scala urbana trasformando la piazza pubblica – definita dagli stessi edifici – in una stanza a cielo aperto.

Considerando la letteratura più recente, il parallelismo tipologico si rafforza. Per Kerstin Sailer, i complex buildings sono sistemi complessi all’interno dei quali possono coesistere attività molteplici in grado di generare una serie di nuovi comportamenti collettivi spontanei. Non sorprende quindi che tale tipologia, seppur non ancora etichettata, sia stata sperimentata in Agro Pontino con l’obiettivo di attivare la sfera pubblica in contesti di nuovo insediamento.

Nonostante queste recenti pubblicazioni, il tema – oggi prevalentemente riferito ai progetti di rigenerazione urbana – è stato investigato solo parzialmente sia dal punto di vista genealogico, sia dal punto di vista spaziale e compositivo. Pertanto, una rilettura critica dei casi meno citati all’interno della manualistica architettonica – come quello delle città di fondazione dell’Agro Pontino – potrebbe risultare utile alla comprensione fenomenologica dei complex buildings e alla definizione di loro possibili future applicazioni.

Il confronto tra le realizzazioni attuate nei nuovi insediamenti dell’Agro Pontino e le esperienze più recenti relative a questo tema è stato determinante per riconoscere il carattere sperimentale del rapporto tra architettura e disegno urbano. In questo modo è stato possibile superare i molti fraintendimenti che ancora gravano su un caso studio così carico di connotati politici come quello dell’Agro Pontino.

Note

[1] Per approfondire si veda l’editoriale di Kenneth Frampton (1974).

[2] A dare una definizione teorica del sistema territoriale pontino è Luigi Piccinato (1934.); il suo testo rappresenta una delle pietre miliari all’interno della letteratura su questo caso studio.

[3] Fanno eccezione le città di Aprilia e Pomezia costruite nel periodo dell’Autarchia, quando l’Italia stava già facendo fronte alle sanzioni arrivate a causa della Guerra d’Etiopia.

[4] Per approfondire questo tema si vedano Mariani 1976 e Mioni 1980.

[5] L’Opera Nazionale Balilla nasce il 3 aprile 1926 secondo un progetto di Renato Ricci con l’obiettivo di promuovere l’esercizio fisico nei programmi educativi delle scuole di primo e secondo grado. Proprio in quegli anni che lo sport diventa lo strumento attraverso il quale il regime fascista tentava di modellare la gioventù italiana. Il primo progetto per una Casa del Balilla fu affidato da Ricci a Del Debbio nel 1927 per la realizzazione dell’Accademia in cui formare i docenti di educazione fisica. Dopo solo un anno, Ricci incarica Del Debbio di realizzare un prontuario in cui mettere in luce «[quell’] identità tipologica e formale in grado di restituire compositivamente i valori dell’Opera Nazionale Balilla» (Ricci, 1928). Fu così che Del Debbio realizzò il primo manuale su una delle nuove tipologie architettoniche fornendo al lettore una serie di prototipi adattabili alle esigenze più diverse.

[6] I progetti sono conservati all’Archivio Centrale dello Stato, Fondo Progetti dell’Opera Nazionale Combattenti, busta 54 all. 111.

[7] Le Migliare fanno parte della maglia infrastrutturale dell’Agro Pontino e suddividono verticalmente l’area rurale. Tracciate perpendicolarmente alla Via Appia, collegavano le pendici dei Monti Lepini al mare.

[8] La vicenda legata alla terza città di fondazione è singolare. Data la grande risonanza dell’esperienza di Sabaudia, alcuni protagonisti del mondo accademico e professionali dell’epoca auspicarono un nuovo concorso di progettazione per il piano di Pontinia. Anche Le Corbusier cercò un contatto diretto con Mussolini sperando di avere l’occasione per sperimentare le proprie idee sulla ferme radieuse. Queste pressioni resero necessario l’affidamento del progetto in via riservata e personale all’Ing. Alfredo Pappalardo, richiesto di mantenere segreta la località di Pontinia (Mariani 1976). Quando il progetto di Pontinia venne pubblicato è un vero e proprio scandalo. Bontempelli e Bardi scrivono «Sulle speranze suscitate dall’architettura di Sabaudia, arriva fresca fresca la delusione dell’architettura di Pontinia, che riproduciamo in alcuni non brillanti saggi» (Bontempelli e Bardi 1934). Giuseppe Pagano commenta (1935): «È necessario ricordare che le premesse del comune di Pontinia […] sono quanto mai chiare: comune rurale pensato e organizzato per una comunità di agricoltori. […] Con queste premesse chiarissime la sensibilità di un architetto anche mediocremente allenato al proprio mestiere non poteva fallire. […] Si trattava [almeno] di comprendere i tracciati stradali preesistenti con quella ingenua scaltrezza urbanistica che i borghi italiani offrono in migliaia di esempi, di evitare come la peste e il tradimento le retoriche decorative, le bizzarrie, le volgarità. […] Chiamo a testimonianza le illustrazioni dei progetti e credo di fare opera ingrata ma giustissima accusando di incapacità artistica e tecnica quei funzionari che li hanno allestiti. Reato tanto più grave dopo la creazione di Sabaudia, viva moderna e bella».

[9] Una ricerca approfondita sul materiale conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, nella sezione documenti dell’Opera Nazionale Combattenti, ha permesso di dimostrare che la paternità del progetto, finora erroneamente attribuita solo ad Alfredo Pappalardo, appartiene anche a Luigi Piccinato (Boccini e Ciccozzi 2007).

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