Atene 1933*. Un nuovo teatro nella scena urbana

Luisa Ferro



Ora abbiamo un teatro: un teatro all’aperto, completamente attrezzato, moderno e costruito su principi aggiornati e su concetti finora sconosciuti nel mondo teatrale greco. […] All’angolo fra via Heyden e via Mavromataion – che è la prima strada sull’angolo destro di via Patision dopo viale Alexandras e sull’angolo del Campo di Marte, un angolo fresco e silenzioso – in meno di un mese è stato creato un vero e proprio mondo nuovo (Kotopouli 1933).

La diposizione del teatro in quel luogo non è casuale, è una mossa ben assestata nell’Atene in costruzione. Del resto, i teatri sono da sempre una presenza significativa nelle città, sul piano simbolico e sul piano fisico. Il luogo (la posizione) è elemento costitutivo di identità del teatro. In più se si pensa che nella storia troviamo il teatro, non sempre figurato in un edificio, anche nelle fiere, nei mercati, nelle aie, negli spazi di raduno di una comunità. Dunque, insieme ai teatri come luoghi architettonici ben identificabili, è la stessa organizzazione dello spazio urbano a fungere molto spesso da territorio delle rappresentazioni. In altre parole, il rapporto tra lo spazio del teatro come luogo della messa in scena e l’ambiente che lo circonda è sempre dialettico e multiforme, e soprattutto non mai troppo neutrale. Soltanto di recente è stato coniato il termine di “Teatri environmentali”, costruiti in spazi poveri o di passaggio, spesso in quartieri fuori mano. Si tratta di teatro di ricerca (già iniziato con le avanguardie del primo Novecento) pensato in stretta relazione con il contesto circostante. (Brook 1968, Cruciani 2005)

 

Scena urbana

L’Atene moderna, quella di Nivasio Dolcemare, nei racconti Alberto Savinio, era un villaggio. Una città ridotta agli elementi essenziali, dove il tradizionale contrasto fra città e campagna era spogliato di significato: non c’era da sorprendersi nel vedere greggi di capre transumanti provenienti dal Pentelico spingersi nel centro. La data cruciale è senz’altro il 1922 (la catastrofe dell’Asia Minore, il genocidio contro la popolazione del Pontos e lo scambio forzato di popolazione), momento in cui le cose cambiano drasticamente: l’arrivo in massa dei rifugiati sovverte completamente la politica urbana messa in atto fino ad allora (Clogg 1996). Di fronte a questo enorme dramma non si sapeva quali valori esprimere per il paesaggio urbano. La città adotta l’idea di rottura con il passato più prossimo: il modernismo diventa segno di ottimismo e prosperità e lascerà un’eredità così ampia da non avere paragoni simili in Europa. L’orientamento del pensiero architettonico degrada in modo definitivo il ruolo dell’invenzione tipologica nella politica degli alloggi. Per la gente delle baracche (poveri e profughi) il prezzo per una vita più umana è il condominio, che si diffonde in maniera impressionante secondo la logica dell’economia di mercato, motore della prosperità promessa. Questo processo si autoalimenta e travalica ogni programma urbanistico. Non solo ma, al ruolo culturale e all’indirizzo architettonico dell’architettura del Movimento Moderno, si sostituisce uno stile corrente “modernista”, che diventa il più diffuso nella Grecia del dopoguerra, ancora di più di quanto lo fu quello neoclassico.

Mentre quest’ultimo, partendo dai modelli monumentali dell’architettura ufficiale, diventa nell’edilizia minore espressione di continuità con la tradizione tipologica popolare, con lo stile modernista non solo si crea uno scollamento con i principi del razionalismo colto e raffinato, che cercava mediazione con la storia, ma si cancella ogni riferimento culturale con il patrimonio della tradizione. L’edilizia corrente tende a uno stile internazionale e diventa modello per capimastri e costruttori, portando alla negazione completa del passato in nome della modernizzazione. A fianco di piani regolatori mai veramente realizzati avanza la vasta e non pianificata estensione della città (Christofellis 1987, Filippidis 1999, Giacoumacatos 1999, Ferro 2004a).

Ma andiamo con ordine. Cominciamo dai numeri che rivelano l’entità dell’ondata di rifugiati che arriva in un breve periodo e che si insedia nelle aree di Atene e del Pireo: la popolazione aumenta del 30,6%, secondo i dati del censimento del 1928. Ad Atene i rifugiati rappresentavano un quarto della popolazione, al Pireo un terzo. Così la crisi abitativa già esistente si incrementa enormemente. Nel 1928, nell’area metropolitana di Atene i rifugiati insediati sono 244.929; nuove espansioni richiedono la mobilitazione di molteplici istituzioni e fondi.

I principali attori incaricati di fornire soluzioni a questa colossale crisi umanitaria e di organizzarne l’impronta spaziale furono lo Stato greco e le organizzazioni caritatevoli straniere come la Croce Rossa e la Fondazione del Vicino Oriente. Inizialmente, la situazione era percepita come temporanea, per cui i rifugiati furono alloggiati in edifici pubblici o in edifici privati occupati o requisiti a tale scopo. La grande necessità di alloggi immediati portò alla creazione di strutture temporanee simili a baraccopoli in spazi aperti, all’interno e intorno al tessuto urbano. Successivamente, accettata la permanenza della situazione, una serie di misure legislative cercò di risolvere il problema degli alloggi creando insediamenti pianificati.

Vengono fondati allora molteplici organismi istituzionali: il Fondo per l’assistenza ai rifugiati (in greco TPP, nato nel 1922), poi sostituito dalla Commissione per l’insediamento dei rifugiati (in greco EAP, 1923-1930), finanziata dalla Società delle Nazioni sotto forma di prestito internazionale. L’EAP avrebbe dovuto agire in modo autonomo, senza il coinvolgimento del governo o di alcuna autorità amministrativa. Il Ministero del Welfare, già impegnato nella costruzione di insediamenti, si fece comunque carico del lavoro del PAE, dopo che i terreni di sua competenza erano stati utilizzati (Kairou e Kremos 1983-84, Mandouvalou 1988, Hirschon 1989).

In una prima fase TPP (poi PAE e Ministero del Welfare) costruisce nuovi insediamenti in aree periferiche, creando nuovi alloggi o restaurando proprietà esistenti, oppure cedendo terreni, permesso di costruzione, sovvenzione e assistenza tecnica. Ma si attua molto presto una seconda fase, quasi parallela alla prima: i proprietari terrieri lottizzano i loro terreni vendendoli ai rifugiati, per costruire quartieri nei pressi di insediamenti organizzati o ovunque trovassero spazio, creando nuovi insediamenti autocostruiti. Gli insediamenti hanno un carattere di investimento, non di beneficenza. I rifugiati hanno contratti per le case sotto forma di ipoteca, pagando i tassi e il resto con gli interessi.

L’ubicazione degli insediamenti di rifugiati in alcuni casi sfrutta la vicinanza a impianti industriali-manifatturieri. In altri casi, il processo si invertite. Comunque, obiettivo principale dichiarato è che gli insediamenti fossero il più possibile invisibili e socialmente isolati. La segregazione sociale si accentua nell’assetto spaziale della capitale con la creazione di comunità prettamente operaie e popolari: «non devono disturbare la vita normale di Atene»[1]

Con la crescita della città nei decenni successivi, questi insediamenti satellitari divennero parte della città, le aree precedentemente disabitate tra Atene e il Pireo sono completamente occupate e le due città, da sempre due entità autonome anche morfologicamente, formeranno un unico complesso urbano.

I piani urbanistici degli insediamenti riflettono un complicato e acceso dibattito architettonico, applicando a volte i principi e gli standard dell’architettura modernista (sistema a griglia di strade parallele e perpendicolari che formano blocchi di edifici della stessa dimensione) e a volte quelli delle città giardino (strade circolari e piazze simmetriche): le baracche sono organizzate in file e alcuni spazi vuoti sono lasciati per spazi comuni come bagni, servizi igienici, lavanderie.

Le unità abitative temporanee fornite dal TPP e dal PAE sono: case unifamiliari in legno, note come “Germanika”, a titolo di rimborso per la Prima guerra mondiale; case a uno o due piani, singole o doppie; abitazioni a due piani con scale esterne, disposte su lotti quadrati intorno a un’area comune; case a due piani che ospitavano ciascuna due famiglie; una casa a un piano con un’unica stanza e un angolo cottura (circa 32mq per famiglia) con un bagno in comune (Vassiliou 1936).

Ad Atene e al Pireo si formano 56 quartieri intorno alla città ottocentesca costituendo una cintura di nuove costruzioni. Nascono i primi quartieri “prototipo” come quelli di Nea Smirne, Nea Filadelfia, Nea Gallipoli. Ci sono poi sobborghi costruiti come città giardino per strati sociali medio-borghesi (Psichikò, Filothei…). Tuttavia, le case popolari sono pochissime rispetto al fabbisogno. Così una grossa percentuale dei profughi trova alloggio in baracche autocostruite in spazi concessi dallo Stato.

Tra il 1928 e il 1932 (governo Venizelos) viene impostata una politica di alloggi più organizzata. Negli anni Trenta si fa sempre più frequente il ricorso ad alloggi multipiano di cui l’alloggio tipo è di circa 40 mq., secondo gli standard modernisti sull’abitazione minima. Questi caseggiati sono costruiti per sostituire gli alloggi temporanei. Il tipo delle case monolocali, unificabili in condizioni favorevoli, segue nei dettagli l’ordinamento applicato nei programmi del comune di Francoforte, «per i più poveri dei poveri». Lo stesso standard è applicato per le case a due o quattro piani, progettate sempre secondo gli esempi tedeschi (celebri quelli di Ernst May e Walter Gropius).

Nonostante la legge riguardante gli insediamenti dello stato, spesso alcune norme anche molto innovative non vengono rispettate. In alcuni casi si tenta di allentare situazioni sociali critiche tramite la cessione a buon mercato di terreni edificabili. Così il tipo più diffuso resta comunque quello di abitazioni minime (una o due stanze) in legno, pietra o mattoni con pavimento in terra battuta, edificate su terreni espropriati e lottizzati in isolati quadrati delimitati da una rete viaria ortogonale (Kandilis e Maloutas 2017, Filippidis 1999).

In questo contesto il dibattito architettonico fra le due guerre nella capitale si fa complesso, contraddittorio e ricco di conflitti ideologici e trova episodicamente modo di svilupparsi, in particolare nella costruzione di luoghi architettonici chiave per i nuovi quartieri: spazi aperti e spazi collettivi, scuole. Emblematico è il caso dell’edilizia scolastica, che diventa importante campo di prova per l’architettura moderna in Grecia e che investe non soltanto il centro, ma soprattutto la periferia, i quartieri dei profughi e i vecchi sobborghi. La scuola spesso costruita in mezzo ai terreni agricoli non ancora edificati, si rivela l’unico riferimento per un uso diverso (culturale e urbanistico) della città e per un futuro sviluppo. Gli spazi aperti degli edifici scolastici diventeranno delle vere e proprie piazze pubbliche e luoghi per lo sport nei quartieri di nuova costruzione (Giacoumacatos 1985, 1999)[2].

Tema comune nel dibattito architettonico è la Continuità con la tradizione, la sua codificazione formale nella contemporaneità. Così nel momento in cui la cultura architettonica si sforza di assimilare le principali correnti internazionali, contemporaneamente, in Grecia, si sviluppa un movimento di resistenza alle importazioni culturali, dando vita a opere eccezionali che sono manifestazioni d’arte rivoluzionarie in grado di aprire un complesso dialogo con il regionalismo greco. In questo senso il moderno oltrepassa quei limiti che gli erano fino ad ora attribuiti per svilupparsi verso molteplici direzioni.

A rendere ancora più complesso il dibattito è Dimitris Pikionis, protagonista (a volte scomodo) sulla scena architettonica. La battaglia intellettuale (individuale e collettiva)[3] di Pikionis dà risposte concrete all’incolta ricostruzione in atto (ad Atene in particolare), alla distruzione selvaggia dell’architettura della tradizione. Il concetto di modernità si fa sempre più sottile ed elaborato, in quanto riflessione critica dell’eredità del passato (Ferlenga 1999, Ferro 2004a).

Pikionis assume un punto di vista critico adoperando il concetto di tradizione per evidenziare la disumanizzazione dell’ambiente contemporaneo. L’idioma greco è una voce tragica, lo spirito del dissenso, una sorta di “materia leggera” (Elitis 2005), vera e propria categoria dello spirito per interpretare la realtà. Questa “Grecità” affonda le radici vitali nel mondo antico, risale nel tempo (Yannopoulos 1909, Pikionis 1927, Psomopoulos 1993). E i profughi non sono “altro” rispetto ai Greci ne fanno parte. Figure, tipi, forme di case, di vita, di arte, tutto deve esprimere l’unica origine. Pikionis inverte la tendenza sulla figurazione della casa, identifica i caratteri di quella materia leggera, quel “filo rosso”, che dà continuità all’architettura della tradizione greca (compresa quella dell’Asia Minore) a partire dalle tipologie dell’antichità fino alle forme di abitazioni spontanee contemporanee (Pikionis 1927). I Greci erano fino all’Asia minore ora sono nei sobborghi di Atene nelle baracche.

Il concetto di tradizione ha una portata molto vasta. La tradizione non è un patrimonio che si può tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene la deve conquistare con grande fatica. L’arte non migliora, ma è in continuo movimento. I luoghi vanno studiati nei loro valori formali, nella configurazione, nella topografia, in quanto valore spirituale per le associazioni mentali che può evocare: immagini mitiche e arcaiche che danno significato alle cose.

«Il lavoro dell’architetto non è inventare forme effimere, ma rivedere le eterne figure della tradizione nella forma determinata dalle condizioni del presente» (Pikionis 1925, 1927, 1950-51).

L’obiettivo era da una parte preservare l’arte popolare che stava finendo nella dimenticanza e dall’altra tramandare la memoria nel progetto contemporaneo. «Dobbiamo non abbassarci in direzione dell’arte vernacolare, alla ricerca del pittoresco o del fascino di genere, ma al fine di ricercare lievito per far crescere il nostro lavoro» (Pikionis 1927, 1950-51).

Ignorare il ritmo del paesaggio, scrive spesso Pikionis, le richieste della vita in nome di slogan funzionalisti significa diventare importatori acritici di una cultura che richiede, al contrario, di essere utilizzata e trasformata con l’immaginazione.

Agli slogan sullo standard propone principi formali che sanciscono a poeticità negli spazi minimi, che non è una questione di metratura ma di variazione del tipo, di lavoro sull’autonomia dei pezzi della composizione, sui volumi e sui livelli che modellano il terreno[4].

Allo standard oppone il tema della diversificazione del tipo universale:

Infinite sono le varianti che così si possono applicare alla forma di base. E la linea ti porta misteriosamente ora verso l’antico, ora verso il medievale, ora verso il primitivo, ora verso un neoclassicismo popolare. E dipende da te, se conosci la misteriosa lingua della forma, esprimere quella forma particolare che sarebbe il simbolo sia dell’essenza più profonda della tua tradizione sia del tempo in cui vivi (Pikionis 1925, 1927, 1950-51, Psomopoulos 1993, Ferro 2002a, 2004a).

Così il concetto di modernità si fa sempre più sottile ed elaborato, in quanto riflessione critica dell’eredità del passato. Trasmettere il significato vero degli spazi della casa è il compito dell’architettura, cioè quello di esprimere «la poesia della vita di tutti i giorni» e aiutare i Greci a ricordare quella sorta di identità di pensiero nella quale anche i profughi possono riconoscersi.

Così studia i villaggi dei profughi con le case autocostruite, traendone una sorta di forma sostanziale dell’abitazione umana, che in fondo ci racconta di come le città nacquero. Tenendo anche conto che molti di loro erano sì diventati poveri, ma erano persone di cultura, istruite benestanti. «Anche nelle case più povere fatte di vecchie assi e pezzi di latta e carta catramata, ritrovava la sezione aurea di Pitagora. […] Acquisimmo allora eccezionali esperienze dal nostro contatto con lo spazio, uno spazio che ci confondeva, che non era né interno né esterno» (Hatzikyriakos-Ghykas 1934).

 

Il teatro

Come si è detto in apertura, la posizione del nuovo teatro di Pikionis nella città ha un significato molto specifico. Si trova all’incrocio di un importante crocevia, matrice della città futura. Gli assi perpendicolari avrebbero potuto costituire a loro volta itinerari costellati di importanti fatti urbani della modernità, luoghi specializzati, spazi collettivi per la città.

Via Mavromataion, corre parallela al Patision (Viale 28 ottobre, la via del Politecnico di Atene, del Museo archeologico e dell’Accademia d’Arte) e con esso definisce una stretta fascia di isolati che si attestano sul Campo di Marte, grande area verde del piano regolatore degli anni 20. Patission nasce dalla geometria del Piano neoclassico della nuova città capitale, l’opera di ingegneria genetica, che rimodella la forma urbis e si compatta nella maglia del triangolo Sintagma, Omonia, Ceramico (Mandouvalou 1988). È matrice di uno sviluppo ortogonale (quasi ippodameo) che collega la città antica verso i quartieri periferici a nord. Il disegno ha inizio con le prime espansioni (1864- 1909). Il piano regolatore (1920-25 Kalligas, Hébrard) disegna, seguendo la figura della scacchiera ortogonale, il viale Alexandras (a nord del Monte Licabetto). L’asse collega Patission con i nuovi quartieri verso est, cioè Ambelokipi. il disegno pianificato del crocevia è in contrasto con il resto della città che procede a caso e senza coordinamento (Biris 1966, Filippidis 1999).

Lungo questi assi alcuni importanti caposaldi architettonici: fra questi i blocchi di case in linea, le case per i «più poveri dei poveri», brandelli di città razionalista disposti perpendicolarmente su viale Alexandras e rivolti verso l’area verde del Campo di Marte, la scuola di Mitzakis ad Ambelokipi immersa nella scena urbana delle baracche autocostruite dei profughi. E così, al centro di questo importante carrobbio, nel giugno del 1933 viene insediato il nuovo teatro, per dare nuove prospettive di svago ai quartieri in costruzione, schiudendo possibili campi visuali, anche drammatici, nella città.

Una sorta di anticipazione del piano regolatore di Biris 1946 (mai del tutto realizzato): Patision e Alexandras come nuovo crocevia della città contemporanea. Alexandras connette Kolonos (accademia) con Ambelokipi, Patision la grande area archeologica, il disegno della città capitale con i quartieri a nord. Nuovi luoghi urbani, disegno della città e quartieri dei profughi entro un disegno urbano definito, geometrico  (Mandouvalou 1988, Filippidis 1999).

In Grecia la sperimentazione sui teatri all’aperto ha avuto particolari importanti contributi.

Sikelianos, Eva Palmer, i pittori Tsarouchis, Steris, Papalukas, Hatzikyriakos-Ghykas hanno contribuito, in un certo senso influenzato, nonostante la posizione marginale delle Grecia nel mondo teatrale, ai cambiamenti e alla sperimentazione sull’architettura del teatro dell’inizio del Novecento (Fessas-Hemmanouil 1999, Ferro 2004a). Era una specie di ritorno alla tradizione teatrale della cultura greca antica e a certe tradizioni di spettacolo popolare, una sorta di trasmettitore del pensare greco, fattore di identità anche per chi proveniva dai territori lontani dell’Asia minore. Evocando a quando il teatro non è in un teatro, ma su carri palchi mobili, pedane rialzate; spettatori in piedi o seduti ai tavoli, davanti a un bicchiere, che partecipano all’azione, che rimbeccano gli attori; un teatro fatto nei retrobottega, nelle soffitte, nei granai; soste di una sola sera, un lenzuolo lacero appuntato alle due estremità della sala, pannelli malconci che nascondono cambiamenti rapidi. Il problema non è se un edificio è bello o brutto quale codice formale usa: la costruzione teatrale deve diventare uno straordinario luogo di incontro o resta insoluta, fredda, vuota. È il mistero del teatro e l’architettura del piccolo teatro di Pikionis comprende questo mistero. Può trattarsi di un teatro di marionette, di uno spettacolo d’ombre o, come in questo caso, di spettacoli classici e d’avanguardia (Brook 1968).

Il teatro è costituito dall’architettura di un palco scenico (pensato come prototipo) compreso in un recinto che, come l’antico teatro dionisiaco, è aperto nella città:

Tutto intorno c’è un alto muro con una passeggiata panoramica con una ringhiera decorativa in ferro. Una cabina accanto all’ingresso ospita la biglietteria, mentre un piccolo edificio di fronte a noi che varchiamo la soglia contiene un ampio e confortevole bar. Ma non c’è altro all’interno del nuovo teatro, e anche queste poche strutture sono semplici, senza particolari decorazioni. Eppure, la semplicità è intrisa di grazia e di un concetto estetico. (Kotopouli 1933)

Non ci sono posti a sedere. Le sedie (vecchie sedie del Cinema Attico) sono accatastate in un angolo e disponibili. Oppure si possono portare da casa. «Ci saranno 995 posti di questo tipo nella platea, con circa duecento posti in fondo, come una sorta di galleria, e sarà possibile posizionarne altri 150 intorno al palcoscenico a ogni spettacolo serale» (Kotopouli 1933).

La parte importante del nuovo teatro (l’unica) è il suo palcoscenico. Ed è questa dimensione che conferisce il suo carattere, che lo rende diverso, che lo rende un’acquisizione davvero preziosa per l’Atene di allora.

L’edificio scenico

è insolito, soprattutto per il fatto di essere diviso in tre parti, ed è abbastanza dissimile da quanto abbiamo finora chiamato con questo nome nel teatro greco. Lo spazio scenico ateniese trae origine da modelli importati che, a loro volta, si collegavano a un concetto di fondo preso a prestito dalla pittura: la possibilità cioè di creare un’impressione sospendendo fondali scenici e cercando di ottenere il massimo di prospettiva. Questo concetto ignorava interamente la struttura dell’edificio nel quale cercava di riprodurre l’impressione desiderata. Tuttavia i moderni sviluppi del teatro (Kandinskji per esempio: luce e colore anzichè scene, oppure Gropius con il suo teatro) hanno introdotto la predominanza di un concetto architettonico, vale a dire si curano esteticamente dell’involucro e della scena tentando di ottenere l’atmosfera ricercata dall’autore con semplici e chiari dettagli, senza fare uso di effetti pittorici, ma piuttosto usando lo spazio e un idoneo adattamento del colore, della forma, delle masse. (Pikionis 1958)

Il nuovo teatro avrà pareti su entrambi i lati, come muri, che chiuderanno il palcoscenico e gli daranno veramente la forma di una stanza, in cui gli attori potranno entrare o uscire solo da vere porte. Grazie allo speciale meccanismo possono aprirsi al centro e ruotare in modo da fungere da quinte. Ma oltre al palcoscenico principale, vi sono due palchi minori, ai lati, dove possono essere rappresentate scene di secondaria importanza. … Quando i sipari che chiudono il palco centrale sono aperti, il palcoscenico in tre parti costituirà un’unica unità, con solo due pilastri a ricordarci le partizioni. (Kotopouli 1933)

Pikionis, cita come esempio il teatro giapponese, inteso non come sorta di permanenza di una forma originaria universale. L’architettura dello spazio scenico è un ritorno al teatro antico, anche a quello delle Mansiones, le stanze smontabili del teatro medievale. Ma soprattutto è un richiamo del Teatro popolare, al telo bianco del capanno dove si muove l’animatore del Teatro delle ombre: «Le ombre del teatro Karaghiosis discendono dal misterioso cinema antico, dal gioco di ombre proiettato sul muro di una caverna, alle quali Platone paragonava i nostri ricordi» (Yourcenair 1989). Il teatro verrà demolito per fare spazio a nuovi lotti costruiti.

 

IV CIAM

Il primo di agosto il piroscafo “Patris II” della compagnia Neptòs, dopo tre giorni di navigazione, con i cento congressisti a bordo, arriva al Pireo. Il grande spettacolo del IV Congresso internazionale di architettura moderna ha inizio e i partecipanti sono del tutto inconsapevoli del contesto greco e del dibattito architettonico in corso (Bottoni 1933; Ferro 2002a, 2004a,c). È vero in questa occasione viene stilata la carta della città razionale, ma sembrerà quasi un argomento fuori posto: Atene stava già andando oltre, in negativo e in positivo.

[…] Difficilmente è possibile immaginare una città contemporanea tanto degradata quanto Atene. Forse in nessun altro campo si nota così tanto la mancanza di uno spirito creativo capace e sapiente, di una volontà in grado di contrastare le forze negative.

È giusto dire che la consapevolezza di questa situazione costituisce un fatto di coscienza e di responsabilità individuali: è naturale e umano – ma forse anche necessario – sentirsi sminuiti, almeno i più sensibili di noi, di fronte al confronto tra lo stato della nostra città e le soluzioni ideali, e gli sforzi dell’urbanistica contemporanea. […] Questa terra non è una terra qualsiasi. La sua spiritualità è un modello supremo, che chiede insistentemente di essere applicato dominando ed integrando tutte le altre esigenze dell’architettura e dell’urbanistica funzionalista. Naturalmente non parlo soltanto di un luogo fisico, ma anche di un luogo spirituale.

Così trovo duplice l’operazione che ogni artista deve fare:

  1. riportare la sua opera al ritmo del paesaggio; 2. sottometterla alle esigenze sacre della vita.

La prima operazione richiede un’armonizzazione delle potenzialità degli spazi, dei volumi, delle forme e dei temi dell’opera in relazione alla dinamica della luce, al ritmo del paesaggio, alla natura del clima. […] La seconda operazione presuppone un’acuta osservazione psicologica, una sensibilità in grado di registrare e poi dare forma alle virtualità nascoste della nostra vita. […]

Questa duplice operazione non ha delle regole. È, come dice El Greco per la pittura: azione, ispirazione puramente personale. A giudicare dalla forma che il nuovo movimento sta prendendo nel nostro paese, devo dire che questa è l’operazione che tutti abbiamo bisogno di compiere, insieme a tutte le altre, se vogliamo essere operatori colti anziché importatori di civiltà.

Questa sola ci renderà capaci di leggere criticamente i motti transitori dell’arte, che per motivi di polemica e per il bisogno di definire un movimento artistico (razionalismo) lo limitano, escludendo la potenzialità di una moltitudine di virtù, limitando così il concetto di Arte.

È necessario riflettere meglio sulle soluzioni che l’Occidente ci offre, per evitare ciò che si sta avverando velocemente: la cristallizzazione di una nuova banalità, l’istituzione di un nuovo accademismo. (Pikioins 1933)

La vicenda del Congresso è cosa nota, ma quello che è importante sottolineare, invece, è una sorta di dibattito “nascosto” riguardante la Grecia e il concetto di tradizione. Il discorso di Anastasios Orlandos durante la cerimonia del 3 agosto svoltasi presso il Politecnico e lo scritto di Pikionis daranno una svolta inaspettata ai lavori[5].

 

 

*Atene 1933 è titolo del testo di P. Bottoni sul IV CIAM pubblicato in “Rassegna” (vedi bibliografia).

 

Note

[1] Sono stati pubblicati di recente degli studi aggiornati, con una bibliografia molto estesa: MYOFA e STAVRIANAKIS 2019, KLIMI 2022.

[2] Nel 1930, il Ministro Papandreu riforma l’Ufficio Tecnico del Ministero dell’istruzione costituendo una «direzione del servizio architettonico». A capo di tale ufficio è chiamato Nikos Mitzàkis (1899-1941), la cui presenza diventerà fondamentale nella scelta dell’indirizzo architettonico e nel ruolo culturale dell’edilizia scolastica nella città. Tra il personale per la progettazione è, l’architetto Patroclo Karantinòs (1903-1976, allievo di Pikionis), uno dei principali sostenitori e difensore di un’architettura moderna in Grecia legata alle esperienze del razionalismo europeo e di una nuova strategia che manifesta consapevolezza critica nei confronti della storia, ma che trova radici nella tradizione costruttiva delle isole greche.

[3] «E poi c’erano gli altri: Kòndoglu, Papalukàs, e l’architetto Mitsàkis, Stratìs Doukas e Velmos; e poi la generazione più giovane: Ghikas, Tsarouchis, Engonopoulos, Diamantopoulos. Quanti fecondi insegnamenti si ricavavano dal contesto fra questi diversi spiriti, dalle antitesi che ciascuno di loro rappresentava! Sinceramente ignoro cosa abbia potuto dar loro io in cambio. Ma sono consapevole di ciò che da ciascuno di loro ho avuto». (Pikionis, Autobiografia)

Pikionis è protagonista di vere e proprie battaglie intellettuali. I principi guida di tali battaglie diventavano parte viva anche della didattica. Ad esse ci lavora un folto gruppo di artisti e architetti, che si faceva chiamare Omada Filon (gruppo di amici). Con la rivista “To Trito mati” (Il terzo occhio, 1935-37) ed altri eventi ad essa connessi (ad esempio la mostra del 1938 sull’Arte popolare greca) faceva chiarezza sull’indirizzo di ricerca che intendeva affrontare rispetto al Movimento moderno.

[4] Nei primi anni Cinquanta con il progetto di Exonì e con la rivista omonima, Pikionis mette a punto il suo modo di pensare il tema dell’abitare, attraverso una rinnovata idea di città. Exonì era un manifesto attraverso il quale didattica, sperimentazione, teoria della composizione diventano motivo di riflessione, ma anche filosofia di vita. Ogni parte di questo piccolo insediamento era pensato per profughi e senzatetto. A questo proposito si veda FERRO 2014.

[5] Lo stesso Le Corbusier, dopo il congresso manifesta una nuova linea di ricerca: spirito moderno e arcaismo, scala umana e paesaggio diventano i nuovi temi della sua architettura. L’architetto francese rimane fortemente influenzato da questo suo secondo ed ultimo viaggio in Grecia. Nel 1934 Christian Zervos, direttore della rivista “Cahier d’art”, scrive un libro sull’arte primitiva in Grecia e pubblica l’articolo di Panos Tzelepis sulle case dell’arcipelago greco. È del 1935 l’articolo di Le Corbusier La ville radieuse: «Nel 1933, il Congresso di Architettura moderna si svolge in Grecia: noi percorriamo le isole, le Cicladi. La vita millenaria, profonda, rimane intatta. Scopriamo delle case eterne, delle case vive, di oggi, che risalgono dalla storia ed hanno una sezione ed una pianta, che sono precisamente quello che noi abbiamo immaginato da dieci anni. In questo luogo della misura umana, in Grecia, in queste terre aperte alla semplicità, all’intimità, al ben-essere, al razionale ancora oggi guidati dalla gioia di vivere, le misure della scala umana sono presenti...». Il viaggio nelle isole è documentato anche in  HATZIKYRIAKOS-GHYKAS 1987.

Bibliografia

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