Dazhai, modernità e autosufficienza nei villaggi collettivizzati della Cina maoista

Anna-Paola Pola



La Cina viene spesso paragonata agli Stati Uniti in quanto entrambi hanno un’area di dimensioni quasi equivalenti – la Cina ha quasi 3,7 milioni di miglia quadrate e gli Stati Uniti poco più di 3,6 milioni – ed entrambi occupano le stesse latitudini. Le differenze, tuttavia, sono più importanti delle somiglianze e forse nessuna è più significativa dell’alta percentuale di territorio cinese non adatto ad agricoltura intensiva ed insediamenti. La maggior parte della Cina è costituita da colline, montagne e altipiani; solo il 12 per cento della superficie è pianeggiante e circa il 19 per cento sono bacini. La maggior parte dei bacini contiene deserti semi-aridi e aridi di scarsa utilità agricola. Solo l’11% del territorio è ora coltivato e poca terra aggiuntiva è fisicamente o economicamente adatta ad aumentare questo valore totale. (CIA 1971)

Apre con questa epigrafica descrizione l’Atlante della Repubblica Popolare Cinese preparato dalla US Central Intelligence Agency nel 1971. Eppure, quasi per smentire un’asserzione così netta e straniera, la Cina provò eroicamente ad estendere la propria superficie agricola moltiplicando su terrazzamenti funambolici le sue terre coltivabili (World Bank 2022). I pendii montuosi di intere province attorno alla pianura centrale – in Sichuan, Gansu, Shaanxi e Shanxi – furono ripartiti in migliaia di terrazze di pietra, costruite a mano e curate come un giardino. Oggi le guide turistiche le descrivono come paesaggi tradizionali. I visitatori urbani li fotografano nostalgici, abbagliati dall’immagine idealizzata di un mondo rurale ritenuto immutabile e atemporale, come se i processi storici che ne plasmarono il volto non fossero mai accaduti. Eppure non c’è nulla di tradizionale in questo paesaggio che, per un certo periodo di tempo, trovò nella vittoria dell’uomo sulla natura il proprio paradigma di modernità (Shapiro 2001). I terrazzamenti cinesi più arditi e precari sono infatti testimonianza degli anni della Rivoluzione Culturale e del maoismo. Mai nei secoli precedenti la campagna era stata lavorata con tale intensità e cura. Per quanto popoloso o motivato, il paese non aveva mai avuto la forza necessaria né la convenienza economica per spingere i campi così in alto. Fu solo tra gli anni Cinquanta e il 1979 che il totale isolamento economico aggravato dalla rottura con l’Unione Sovietica e una politica demografica ottimista, ma irresponsabile, indussero la Cina contadina a perseguire lo sforzo epico di raggiungere l’autosufficienza alimentare spingendo le coltivazioni fino ad altezze impossibili (Cammelli 2016). Al motto «In agricoltura, impara da Dazhai» interi boschi furono tagliati, i laghi interrati, l’acqua regimentata e anche i pendii più ripidi furono modellati per asservire alle colture agricole.

La piccola brigata di Dazhai, un villaggio di ottantadue famiglie ed 80 ettari di colline rocciose nella provincia settentrionale dello Shanxi, divenne il paradigma rurale di una intera nazione in cerca della propria versione di modernità.

Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, gli abitanti di Dazhai, organizzati prima in una cooperativa di produzione agricola, poi come brigata di produzione della comune popolare Bandiera Rossa, rimodellarono completamente le loro terre e ricostruirono il villaggio. A partire dal 1953, seguendo un proprio piano decennale di bonifica territoriale, la brigata trasformò gole e colline in terrazzamenti coltivabili attraverso un tenace lavoro di scavo e riporto prevalentemente manuale. Nel 1963, dopo una devastante inondazione, dovuta in parte proprio alle modificazioni antropiche apportate al terreno, gli abitanti di Dazhai ricostruirono da zero quanto distrutto, rifiutando gli aiuti offerti dallo stato. Nel febbraio del 1964 la loro vicenda raggiunse le pagine del Giornale del Popolo e da lì la fama del villaggio come modello di produzione agricola e autosufficienza rurale si diffuse in tutto il paese e oltre. Il secondo piano di lavoro incluse quindi una serie di opere idrauliche necessarie per scongiurare un secondo cataclisma: 11 pozzi, 290 metri di tunnel sotterraneo per la raccolta dell’acqua piovana, 7 km di acquedotto e un bacino idrico di 3150 metri cubi d’acqua. Unico supporto esterno fu una squadra dell’Armata Rossa che affiancò la brigata nelle realizzazioni idrauliche più complesse, secondo la prassi dell’epoca. Il ricavato del lavoro agricolo venne poi progressivamente investito per aumentare la produzione, acquistando trattori, macchinari e autocarri. Fu inoltre avviata un’attività di silvicoltura che incluse la piantumazione di 40 000 alberi da frutta e 80 000 pini (Hinton 1988; Zhao 2007). Oltre alle opere agricole, tra il 1964 e il 1974, venne anche ricostruito il villaggio. Le funzioni collettive furono raccolte in una serie di edifici in mattoni, ordinati in blocchi paralleli su un impianto geometrico rettangolare. Gli spazi residenziali – 770 stanze di dimensioni minime – seguirono invece le tipologie abitative della regione: case voltate scavate nel pendio e case in linea con doppio tetto a falda. Queste tipologie furono però accorpate in lunghissime schiere distribuite su più livelli, generando un impianto planimetrico completamente alieno alla distribuzione spaziale degli insediamenti rurali tradizionali, organicamente organizzati attorno a orti e piccoli bacini d’acqua. I vani residenziali si affacciavano su un ampio slargo rettilineo che fungeva alternativamente da strada, aia, campo di esercitazione o cortile. Inoltre, secondo i principi delle comuni popolari che prevedevano un’articolazione di spazi e servizi comuni mai contemplati prima nelle aree rurali, vennero progressivamente costruiti: asilo nido, scuola materna, scuola elementare e serale, clinica, biblioteca, centro giovanile, mensa, ufficio postale e auditorium. Infine, ad un estremo dell’abitato furono collocate le officine di riparazione, mentre la fattoria per l’allevamento venne costruita su una collina distante dalle case. Tutto venne completato con i risparmi e il lavoro collettivi dei membri della brigata (Gavinelli 1979; Knapp 1992; Zhao 2007).

Come Dazhai, furono centinaia i villaggi e i territori rurali che vennero radicalmente trasformati o ricostruiti ad opera dei propri abitanti, reinterpretando con i mezzi a disposizione le idee del partito e i modelli che questo proponeva. A partire dal 1952, la stampa nazionale iniziò a promuovere la diffusione di villaggi modello (mófàn cūn 模范村), seguendo una prassi chiamata «dal punto alla superficie» (yóu diǎn dào miàn 由点到面). L’espressione indica il processo metodologico secondo il quale piccole entità amministrative sono lasciate libere di sperimentare autonomamente pratiche o soluzioni in risposta ad un problema comune definito dal governo centrale che, a sua volta, trasforma le esperienze valutate positivamente in modelli e li applica su scala nazionale (Heilmann 2008). Tale meccanismo fu delineato proprio durante gli anni del maoismo e divenne una costante metodologica del processo decisionale della Repubblica Popolare, ancora oggi largamente utilizzato. Infatti, mentre le politiche si trasformarono anche radicalmente nel corso degli anni, il rapporto dinamico tra autorità centralizzata e sperimentazione decentralizzata è rimasto una costante nel modello operativo del partito (Chung 2016). All’epoca di Mao il territorio rurale era infatti amministrato localmente dalle comuni e dai villaggi collettivizzati che godevano di una totale autonomia nelle scelte riguardanti la propria organizzazione produttiva (bonifica del suolo, terrazzamenti), irrigua (canalizzazioni, bacini di riserva) ed insediativa. A questo livello locale si combinava una conduzione centralizzata che gestiva direttamente solo gli interventi infrastrutturali ad ampia scala mentre agiva indirettamente sulle istituzioni regionali dettando principi generali.

Le linee guida del governo maoista erano focalizzate su produzione agricola e organizzazione del lavoro, perseguendo quindi scopi dichiaratamente estranei alle forme dell’insediamento. Nonostante ciò, questi principi generali seppero imprimere una profonda trasformazione nell’uso del suolo e nell’organizzazione spaziale di villaggi e aree rurali, tanto che gli effetti di quel cambiamento perdurano fino ai giorni nostri.

Nel corso degli anni Cinquanta con la riforma agraria il governo comunista istituì un sistema di mutuo soccorso stagionale che fu in seguito sostituito dalle cooperative agricole. Con il Secondo Piano Quinquennale (1958–1962) e l’avvio del Grande balzo in avanti della produttività agricola (1958), le allora 740.000 cooperative furono fuse in circa 26.000 comuni popolari, coinvolgendo più del 98 percento delle 122 milioni di famiglie rurali del paese (Knapp 1992). Il sistema delle comuni, basato sulla proprietà collettiva di terre e mezzi di produzione, era la struttura portante di uno stato in cerca di un modello di organizzazione territoriale che superasse la contrapposizione capitalista fra città e campagna. Il sistema si articolava su tre diversi livelli organizzativi, ciascuno responsabile di attività e servizi a scala crescente. La squadra di produzione contava 10-50 famiglie circa, ovvero la dimensione di un piccolo borgo tradizionale o del quartiere di un villaggio, ed era l’unità minima di lavoro che si occupava della ridistribuzione dei redditi. La brigata era costituita da diverse squadre di lavoratori, raggruppava 100-200 famiglie circa (le dimensioni di un villaggio tradizionale) ed era responsabile di organizzare il lavoro nei campi e in fabbrica. La comune popolare contava in media 20-30 brigate (5000 famiglie) e gestiva il settore costruttivo e infrastrutturale locale (Strong 1964; Unger 2015).

I primi interventi promossi dal partito interessarono principalmente le opere idrauliche per la gestione dell’acqua e la bonifica dei terreni. Solo in seguito, il nuovo modello di vita associata e la riorganizzazione del lavoro coinvolsero gli standard spaziali e gli insediamenti, definendo nuovi prototipi di concentrazione abitativa e industriale. Dal 1956, con il lancio della «Costruzione della nuova campagna socialista» (shèhuì zhǔyì de xīn nóngcūn 社会主义的新农村) venne incentivata la realizzazione di servizi nelle aree rurali: bagni pubblici, allevamenti moderni, asili, scuole, centri per anziani. Ad una organizzazione sociale sempre più di stampo militare seguì la costruzione di grandi mense comuni in grado di ospitare fino a 500 persone, dormitori, sale o teatri per riunioni e campi per l’esercizio fisico. «Largo di dimensione e collettivo in natura» (yī dà èr gōng 一大二公) era in realtà l’unico principio formale che dettava il progetto di queste strutture.

La rottura con l’Unione Sovietica all’inizio degli anni Sessanta modificò la politica sul territorio e i rapporti città-campagna furono riformulati secondo una strategia di decentramento industriale e autonomia regionale sintetizzabile con il principio maoista: «ruralizzare la città e urbanizzare la campagna» (Kao 1963). Nel 1963, un anno prima dell’inizio della ricostruzione di Dazhai, la conferenza annuale dell’associazione nazionale degli architetti affrontò per la prima volta la necessità di consolidare i terreni agricoli. Il principio mirava a migliorare l’efficienza della produzione e ridurre al minimo il consumo di suolo coltivabile prevedendo la demolizione e l’accorpamento di frazioni e villaggi sparsi e la configurazione di nuovi insediamenti il più possibile compatti. La pratica, che divenne un caposaldo della pianificazione rurale cinese, contribuì a spostare l’attenzione dalla produzione agricola all’organizzazione spaziale di insediamenti e terreni. Progressivamente, dunque, un numero sempre maggiore di villaggi abbandonò il proprio insediamento originale in favore di nuovi impianti tipicamente urbani. I complessi rurali che si andavano a realizzare erano composti da schiere regolari di edifici preferibilmente rivolti a sud, impostati su impianti geometrici, spesso simmetrici o assiali, del tutto affini ai «nuovi villaggi dei lavoratori» (gōngrén xīncūn 工人新), i quartieri operai costruiti in città. Su tutto il territorio nazionali dimensioni e tipologie edilizie si ripresentavano quindi con poche varianti; solo nelle aree rurali i materiali cambiavano a seconda della regione. Mentre in città i progetti erano redatti da architetti ad impiegavano cemento armato ed elementi prefabbricati, nelle campagne il principio di autosufficienza spingeva ad utilizzare le tecniche locali (terra battuta, adobe, o mattoni essiccati in forno per le pareti e struttura in muri portanti o intelaiatura di legno per sostenere il tetto). Non ci furono architetti a tracciare le nuove forme di Dazhai e degli altri villaggi collettivizzati, o per lo meno non è dato sapere se giovani istruiti con una formazione da architetto parteciparono ai lavori della brigata. In quel periodo, comunque, la figura professionale dell’architetto si configurava per lo più come tecnico al servizio del popolo al quale era richiesta la stesura di planimetrie e progetti precedentemente discussi e definiti collettivamente. I nuovi insediamenti rurali erano realizzati con le risorse ricavate dal lavoro agricolo, ripartendo forza-lavoro, spese e materiali all’interno della brigata. La modernità dei nuovi villaggi si esprimeva dunque nel progetto unitario dell’insediamento che era definito collettivamente dai suoi abitanti, superando i limiti imposti dalle gelosie del mondo contadino e dai legami dei clan familiari. L’avanguardia maoista si manifestava quindi nelle forme di un impianto ‘urbano’ compatto, nelle geometrie regolari che rettificavano le asperità del terreno e nella successione razionale di un programma funzionale che si dispiegava preciso come una catena di montaggio. Attorno agli insediamenti si apriva poi il nuovo paesaggio plasmato dall’uomo, posto a sfidare le avversità dalla natura.

I progetti dei nuovi insediamenti rurali, o talvolta i loro piani, circolarono rapidamente su pubblicazioni di varia natura. A partire dal 1954, la rivista ufficiale dell’associazione nazionale degli architetti, il Jiànzhú Xuébào (建筑学报 – Giornale di architettura), dedicò moltissime pagine ai progetti di ammodernamento rurale: fattorie statali e allevamenti alla fine anni Cinquanta, alloggi rurali per le diverse regioni del paese, dormitori e mense nei primi anni Sessanta, fino ad occuparsi quasi esclusivamente di insediamenti, nuovi villaggi e brigate rurali nel corso degli anni Settanta. Oltre a questo contributo, moltissime esperienze modello, corredate di foto, disegni e piante, furono divulgate da pubblicazioni propagandistiche generosamente distribuite al di fuori dell’ambito professionale, sia in Cina che all’estero. Il Partito Comunista Cinese fu, infatti, da sempre molto sensibile a curare la propria immagine internazionale (De Giorgi 2018) e la Foreign Languages Press di Pechino realizzò in inglese un gran numero di pubblicazioni sulle esperienze delle comuni popolari. Le piante dei nuovi villaggi, corredate da precise note funzionali, erano spesso incluse nelle prime pagine di brochure, report, inchieste e libri, a ribadire quanto l’impianto dell’insediamento fissasse simbolicamente, entro specifici ambiti architettonico-urbani, una serie di spazi e funzioni sociali direttamente riferite alle scelte strutturali e alle esigenze della nuova nazione.

Dopo il 1979, con la morte di Mao e l’avvio della riforma economica, il paese si preparava di nuovo a drastici cambiamenti. La struttura amministrativa rurale tornò ai modelli precedenti il 1958. Le comuni popolari furono sostituite dai comuni amministrativi e l’agricoltura ritornò al sistema di responsabilità basato sulla produzione domestica (1983). Eppure, molti sono i meccanismi, i dispositivi, i principi e perfino le parole che oggi portano traccia della profonda trasformazione che gli anni di Mao impressero nelle aree rurali del paese. Questa eredità è ancora più evidente da quando, a partire dai primi anni 2000, il partito è tornato ad affrontare i problemi delle aree interne, dopo decenni di crescita e inurbamento delle coste. I villaggi modello sono quindi tornati a innescare processi emulativi virtuosi e le «Tre concentrazioni» (sān gè jízhōng 三个集中) ripropongono il consolidamento dei terreni agricoli accorpando villaggi sparsi, riunendo fabbriche rurali e unificando terreni agricoli. Dal 2006, cinquant’anni dopo la «Costruzione della nuova campagna socialista» di Mao, lo slogan risuona nuovamente nei programmi delle amministrazioni locali promettendo di razionalizzare spazi aperti e terreni, ampliare strade e parcheggi, migliorare i servizi, l’illuminazione e il verde pubblico e costruire nuove comunità rurali dove ancora una volta vige l’estetica dei moderni distretti suburbani.

Bibliografia

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