Catastrofe, migrazione e modernità: gli insediamenti della Farm Security Administration in Arizona e California

Filippo De Dominicis



In The Grapes of Wrath, Steinbeck (1939) racconta in modo esemplare il rapporto fra i rurali del sud degli Stati Uniti e la loro terra. Un rapporto che essi stessi avevano stabilito attraverso generazioni di lavoro e di raccolti; e che nel volgere di un decennio avrebbero inconsapevolmente incrinato. La natura, e altri uomini, avrebbero fatto il resto.

In seguito al disastroso fenomeno noto come Dust Bowl – una serie di tempeste di sabbia che colpì gli stati del sud degli Stati Uniti nella metà degli anni Trenta e che ebbe il suo culmine nel Black Sunday del 14 aprile 1935 – più di duecentocinquantamila coltivatori di Oklahoma, Texas e Kansas furono privati del loro impiego e costretti a spostarsi verso ovest.

Negli anni che avevano preceduto la catastrofe, quelle famiglie erano già state espropriate dei loro possedimenti dalle società di investimento cui si erano rivolte all’inizio dei Dirty Thirties per far fronte alle perdite dettate da un’incipiente siccità. Fu l’inizio di un corto circuito di fatti che avrebbe condotto al disastro. Il regime di mezzadria imposto dall’ingresso degli istituti di credito, unito alla necessità di incrementare il profitto, portò a una significativa intensificazione delle coltivazioni e a una sostanziale riduzione della copertura vegetale. Lo strato più superficiale dei suoli iniziò a impoverirsi. Degradato, perdeva in coesione, polverizzandosi. Ai fattori di carattere antropico si associarono poi gli eventi climatici, con il crollo delle precipitazioni associato a fenomeni ciclonici che avrebbero moltiplicato i processi di erosione. Quando i venti rinforzarono, la polvere iniziò a sollevarsi e ad accumularsi con sempre maggiore frequenza, compromettendo il fragile equilibrio ecologico che governava le grandi pianure del sud (Lee e Gill 2015). La distruzione operata dalle tempeste indusse gli istituti proprietari del terreno a sfrattare le famiglie di coltivatori, sancendo la definitiva meccanizzazione dei processi di coltivazione. L’uomo sul trattore sostituì tutti quei nuclei familiari che si erano presi cura ciascuno del proprio pezzo di terra, lottando contro una natura ostile e costruendo una comunità a dispetto della distanza che li separava gli uni dagli altri. Fu detto loro di andarsene. Le case di quelli che resistevano, leggere abitazioni in legno appoggiate sulle lunghe ondulazioni del terreno, furono distrutte o rese inagibili. Senza alternative, un gran numero di americani fu costretto dallo stesso sistema che li governava a fare ciò che aveva sempre fatto: guardare verso ovest e migrare.

Quella che ha luogo nella seconda metà degli anni Trenta fra gli stati del sud e la California è una delle più incredibili storie di reinsediamento di cui la modernità abbia mai avuto esperienza. È una vicenda che ha origine da una catastrofe – in buona parte dettata da cause di natura antropica – e che assume tratti specifici e peculiari proprio in ragione della completa assenza dell’elemento urbano. La grande migrazione che segue il Dust Bowl, infatti, muove dalle sconfinate lande del sud e si conclude nelle fertili valli della Central Valley californiana. È l’ambiente rurale, quindi, a determinarne gli aspetti cruciali: primo fra tutti, la temporaneità dettata dalla stagionalità della coltivazione e dalla rotazione dei lavoratori, un aspetto che informerà in maniera decisiva la configurazione dei nuovi insediamenti predisposti nell’entroterra dello stato dell’ovest. Qui, rivelerà Vernon DeMars, si sarebbe realizzata quella modernità che Catherine Bauer (1933) aveva osservato soltanto in Europa. Agli occhi dell’attivista americana, infatti, gli Stati Uniti non avevano ancora conosciuto un vero progetto di residenza moderna. L’esperienza di Vernon DeMars, Garrett Eckbo e Fran Violich – solo per citare i più noti fra i progettisti coinvolti nei progetti di reinsediamento – era destinata a colmare questa lacuna, combinando i tratti tipici del dibattito americano con i principi della nuova architettura già affermati da Le Corbusier, e aprendo la strada a quelle riflessioni globali sul community planning che caratterizzeranno gran parte del discorso postbellico[1].

Nel 1937 la questione dei migranti del sud fu presa in carico da un nuovo ente federale in seno al Dipartimento dell’Agricoltura, la Farm Security Administration (FSA). Con la costituzione della FSA si poneva fine a quella moltitudine di iniziative sporadiche che aveva caratterizzato l’emergenza dei tre anni precedenti. Allo stesso tempo, si riconosceva per la prima volta su scala nazionale l’esistenza di una domanda abitativa fino ad allora sostanzialmente invisibile. Una domanda che il predecessore della FSA, la Division of Subsistence Homesteads della Resettlement Administration, aveva iniziato a intercettare (Ghirardo 1989) e a rivelare grazie alla diffusione della dettagliatissima documentazione fotografica prodotta dal gruppo di Roy Stryker, Arthur Rothstein e Dorothea Lange[2]. L’indirizzo dell’FSA fu chiaro sin dal principio – al netto di qualche iniziale, comprensibile tentennamento. Al progetto degli insediamenti fu immediatamente destinato un programma specifico. Il primo obiettivo, in termini temporali, era stato quello di fornire assistenza materiale, realizzando per ciascuna famiglia un supporto infrastrutturale dove poter trovare riparo immediato. Allo stesso tempo, tuttavia, appariva sempre più urgente porre in essere alcune condizioni minime necessarie all’organizzazione di spazi che ristabilissero i tempi e i modi della vita comunitaria (Ghirardo 1989). Quest’ultimo obiettivo – che emergeva in corrispondenza con le sempre più numerose forme di aggregazione spontanea e di protesta messe in atto dai rural migrants – avrebbe segnato in modo indelebile l’evoluzione delle operazioni della FSA, orientando le politiche insediative dell’ente verso modelli nuovi, ugualmente distanti sia dai primi campi di transito sia dall’eredità delle greenbelts dell’est. Un contributo decisivo all’elaborazione di questa strategia sarebbe giunto dal gruppo di giovani progettisti ingaggiati dalla cosiddetta IX Region del programma. La maggior parte di essi aveva da poco ottenuto il diploma: per Vernon DeMars, Fran Violich e Garrett Eckbo si trattava, in sostanza, del primo vero impegno professionale. Era stata richiesta loro una soluzione immediata a un problema i cui contorni erano ancora piuttosto vaghi. Quel che era certo della gente che arrivava da Oklahoma, Arkansas e stati limitrofi era la loro condizione: individui estromessi dalla società, privati della loro terra e di ogni mezzo di sussistenza necessario per sopravvivere. Messi alla porta da una meccanizzazione che li aveva resi invisibili, giungevano nell’ovest alla ricerca di una seconda vita. Avevano portato con sé quel che non erano riusciti a vendere a bordo di veicoli fatiscenti che per mesi avevano trasformato nella loro casa. Ad attenderli non vi era la stabilità, l’assegnazione di un acro di terra, ma un futuro incerto da raccoglitori salariati esposti alle logiche del libero mercato e all’imprevedibilità della rotazione stagionale. Per questa ragione, almeno inizialmente, il loro mezzo di trasporto avrebbe continuato a funzionare come dimora. Pur eradicati dal suolo che aveva dato loro la nascita, pur privati dell’utopia di broadacre, gli esuli rurali delle pianure del sud sarebbero riusciti nell’impresa della sopravvivenza grazie a quella stessa meccanizzazione che li aveva estromessi dalla società. Grazie, cioè, alla disponibilità di un gizmo, un dispositivo fuoribordo che applicato allo spazio ne consentiva l’attivazione e, in definitiva, il funzionamento (Banham 1965a). Nel caso dei labor migrants, la situazione era talmente drammatica che lo stesso gizmo si sarebbe fatto casa, home, secondo una tendenza che Reyner Banham (1965b) avrebbe poi eletto a emblema di quegli anni. In questo senso, la loro vicenda apparteneva in pieno alla modernità americana, e come tale sarebbe stata trattata nelle prime esplorazioni progettuali della IX Region.

I primi esperimenti del gruppo furono caratterizzati da soluzioni episodiche, talora distanti, quasi a voler saggiare la natura di un terreno di cui non si conosceva la reale consistenza. Ciononostante, per quanto dissimili potessero apparire, questi tentativi condividevano tutti una medesima consapevolezza di fondo: dover fornire, nel minor tempo possibile, risposte adatte al luogo, agli uomini e al tipo di lavoro che avrebbero svolto. A sollecitazioni tipiche di una condizione moderna, il gruppo avrebbe risposto attraverso l’impiego di strumenti e materiali altrettanto tipici: razionalità distributiva, rispetto del dato climatico e attenzione alla dimensione produttiva, tre aspetti riuniti nell’azione congiunta di design, planning e landscape. Sarà questo, in prima istanza, il vero elemento innovatore. È proprio DeMars (1992) a parlarne, in uno straordinario racconto di quegli anni, individuando con chiarezza tutti i passaggi chiave della vicenda.

Il primo, in ordine temporale, è quello che porta alla progettazione del centro di Chandler, Arizona, e che riguarda la scala più propriamente architettonica degli interventi. A Chandler, uno dei primi interventi dell’FSA, il gruppo aveva elaborato una soluzione a carattere stabile. L’obiettivo era quello di costruire uno spazio in grado di stimolare azioni cooperative, con luoghi di discussione pubblica, residenze collettive e una quota parte di terreno coltivabile per il sostentamento familiare: un assetto neppure paragonabile al primo progetto in cui DeMars aveva lavorato, il campo di transito di Weedpatch nei pressi di Arvin, in California. Weedpatch è il luogo descritto da Steinbeck (1939) in The Grapes of Wrath; una intelaiatura di pochi servizi essenziali che consentiva a ciascuna famiglia di parcheggiare il proprio mezzo e installarvi il proprio tendone. Nella sua essenzialità, la soluzione proposta a Weedpatch – e poi a Shafter – rivelava tutte le contraddizioni del rapporto fra i rurali statunitensi e la propria dimora. Per quanto attaccati alla terra e ai suoi elementi – fossi, alberi, rilievi – la loro casa restava sempre un involucro leggero pronto a essere spostato attraverso lo spazio aperto, il vero teatro dell’epopea americana. Gli stessi Toad, i protagonisti di Steinbeck, erano stati protagonisti di un episodio simile, quando rubarono metà della casa abbandonata di un vicino, tagliandola e trascinandola per un paio di miglia su e giù per le colline fino ad attaccarla alla propria. Nel corso degli anni questa tendenza progredì al punto tale che il gizmo, l’aggeggio che attivava lo spazio domestico, divenne anche il dispositivo in grado di spostarlo. L’indigenza e la necessità di farvi fronte condussero il trend a conseguenze estreme: adeguatamente attrezzato, il mezzo meccanico si sarebbe temporaneamente trasformato in home[3], e l’insediamento in un tessuto di stalli per la sosta (Banham 1965a, 1965b). A Chandler, il gruppo di progettisti combinerà le istanze di Weedpatch con un secondo tema, altrettanto determinante e ancora sostanzialmente inesplorato[4]. La porzione dedicata al transito, infatti, sarà associata a servizi cooperativi e blocchi residenziali, questi ultimi fortemente caratterizzati sotto il profilo distributivo e costruttivo. Una scelta in controtendenza che trovava fondamento nella marcata attitudine comunitaria dei labor migrants. Il riconoscimento di questa dimensione rappresentò un passaggio chiave nell’evoluzione delle strategie dell’FSA, che alle prime politiche di assistenza cominciò ad accostare sempre più frequenti operazioni di community planning. In questa prospettiva, non sorprende dunque che gli insediamenti di Chandler, Casa Grande o Glendale – tutti in Arizona – presentino tutti i caratteri di una colonia moderna; una siedlung in cui all’evoluzione del modo di fare architettura corrisponde una reale ambizione di avanzamento sociale: nelle parole di Robert Tugwell, una rinnovata alleanza fra farmer e worker (Carlebach 1988). Dall’ossatura portante in adobe alla distribuzione degli ambienti, dalla presenza dei giardini privati all’estrema cura per i dettagli, tutto racconta di una riflessione profonda intorno all’economia e alla funzionalità delle soluzioni adottate, specifiche e al tempo stesso adattabili al variare del programma e delle circostanze produttive e ambientali. Ma Chandler parla anche del tentativo di fornire qualcosa di più di un semplice riparo. All’indomani del viaggio in Europa che lo avrebbe portato alla scoperta delle architetture di Gropius e Le Corbusier, DeMars (1992) affermerà di voler rifare Chandler, questa volta a San Joaquin, adattando le soluzioni già elaborate in Arizona alla manodopera e al clima delle calde ma fertili valli californiane. Dal 1938, infatti, il cuore dell’attività progettuale si era di nuovo spostato in California, lo stato dove l’FSA avrebbe realizzato il maggior numero di interventi. I progetti per Tulane e Yuba City – già iniziati da Fran Violich e completati al ritorno dall’Europa dallo stesso DeMars – tradurranno questa intenzione di adattamento in principio, con le massicce costruzioni in adobe che avrebbero lasciato il posto a esili corpi di fabbrica poggiati su pilotis. Al contrario, resteranno invariati gran parte degli ingegnosi dispositivi di distribuzione e di ventilazione già messi a punto in Arizona, a testimonianza di una razionalità rigorosa e al tempo stesso flessibile, comunque priva di pregiudizi linguistici. Né l’emergere di nuove configurazioni aggregate, né le possibilità adattive che queste configurazioni offrivano, tuttavia, avrebbero esaurito la riflessione intorno alle ipotesi di evoluzione sociale. Con il consolidarsi delle istanze di community planning, infatti, il ruolo della configurazione degli insediamenti crebbe fino a diventare l’elemento centrale del ragionamento del gruppo, non senza contraddizioni. 

Dopo Chandler, quasi tutti gli insediamenti furono pianificati come strutture miste. Di queste, una metà era destinata a lavoratori stabili, sistemati nei blocchi in linea opportunamente riadattati sul modello di Chandler; nell’altra metà trovava invece posto la manodopera stagionale, per la quale erano state predisposte prima cabine in metallo fornite dalla Tennessee Coal and Iron Company, poi piccoli garden cottages disegnati in occasione del primo retrofit del campo di Weedpatch, nel 1938 (Hise 1995). Mentre i blocchi in linea erano disposti parallelamente gli uni agli altri, orientati secondo le brezze di stagione, le unità per gli stagionali erano attestate sui due lati di un doppio anello stradale di forma esagonale. Al centro dell’esagono trovavano posto i servizi principali e la casa del gestore del campo. Gli edifici comunitari, strutture ampie e flessibili destinate a ospitare le assemblee dei residenti, occupavano alternativamente il centro ovvero il lato dell’esagono rivolto verso l’area dei corpi in linea, più defilati. Sulle ragioni della figura esagonale, De Mars (1992) si sarebbe espresso in termini piuttosto semplici: se la pianta centrale era comunque preferibile per questioni tecniche legate alla fornitura e allo smaltimento dell’acqua, l’esagono era stato scelto in alternativa al cerchio perché più semplice da tracciare a terra[5]. Le motivazioni addotte da DeMars, tuttavia, non esaurivano le ragioni di una figura il cui impiego era dettato anche da logiche di ordine sociale. L’esagono di Tulane e Yuba City, infatti, altro non era che un dispositivo di sorveglianza, un panottico che avrebbe consentito al sovrintendente – o all’assemblea, quando posizionata nel centro – un monitoraggio costante su tutti i settori del campo (Ghirardo 1989). La struttura concentrica, poi, contribuiva a realizzare un sistema di relazioni ulteriormente gerarchizzato. Il grado di transitorietà delle unità abitative – sostanzialmente corrispondente alle diverse modalità di accesso al mercato del lavoro – era infatti tanto più elevato quanto maggiore era la loro distanza dal centro dell’insediamento, secondo una stratificazione che avrebbe influenzato anche il livello di integrazione comunitaria dei singoli occupanti (Hise 1995). In questo senso, e nonostante le ripetute accuse di corporativismo che l’ente avrebbe subito (Carlbach 1988), l’ordine spaziale imposto dall’FSA rifletteva un modello comunitario ambiguo, tutt’altro che egualitario, ben distante dalle modalità aggregative che i labor migrants avevano posto in essere sia durante il loro viaggio verso ovest, sia nel corso della loro vita precedente nelle grandi pianure del sud (Steinbeck 1939).

L’ulteriore evoluzione nel disegno degli insediamenti, con l’abbandono della matrice esagonale e l’uso estensivo del zeilenbau di ascendenza europea, rappresentò un’ultima, significativa virata verso una struttura dal carattere urbano, solo apparentemente aliena da propositi di controllo. Firebaugh e Woodville furono i primi campi disegnati come piccole new towns. Il doppio registro di Tulane e Yuba City fu rimpiazzato da un impianto ortogonale più variato, con terreni coltivabili, case a schiera e garden cottages integrati in una trama di servizi che avrebbe attratto anche i non residenti[6]. Il progetto del landscape, studiato da un giovane Garrett Eckbo, agiva da ulteriore sovrascrittura, sovrapponendosi al disegno di impianto e definendo quegli spazi che gli edifici, da soli, non erano in grado di connotare: una proposta che al pari dell’architettura intercettava sia gli aspetti funzionali, sia i temi relativi alla costruzione della dimensione comunitaria (Treib e Imbert 1997; Metta 2021). Eckbo collaborava con i colleghi architetti e ingegneri sin dall’avvio del progetto. Con le sue proposte di planting, non solo offriva protezione dal sole e dal vento, ma racchiudeva spazi e suggeriva continuità visuali, mitigando quel senso di provvisorietà e controllo che ogni campo, per quanto rifugio, era destinato a trasmettere[7]. Nel 1942, quel tentativo di mitigazione si trasformò in un atto definitivo di isolamento, a dimostrazione dell’ambiguità di un’operazione che la pubblicistica di settore avrebbe sempre taciuto, e che neppure lo sforzo e il riconosciuto talento dei progettisti era riuscito a sciogliere[8]. Chiamati a occuparsi del disegno dei campi di internamento per i prigionieri giapponesi, sempre per conto dell’FSA, DeMars e Eckbo riproporranno con poche varianti le soluzioni già elaborate per gli ultimi insediamenti di Firebaugh e Woodville (Treib e Imbert 1997; Horiuchi 2015; Pieris 2016). Se è lecito pensare che abbiano tentato di perseguire un modello comunitario accogliente e diversificato anche in un’occasione simile, è altrettanto necessario chiedersi, tuttavia, in che misura questo stesso modello cercasse davvero di stabilire quelle nuove forme di egualitarismo democratico cui la modernità architettonica aveva promesso di dare volto, e sui cui tanto avrebbe investito, stavolta su scala globale, nelle prime development decades del Secondo dopoguerra. Su questi interrogativi non si sarebbero mai soffermati né Talbot Hamlin (1941) – docente di lungo corso a Columbia e fra i primi divulgatori dell’esperienza dell’FSA – né il gruppo di fotografi guidati da Roy Stryker, i cui propositi di denuncia avevano lasciato il campo, all’indomani della costituzione dell’FSA, a rappresentazioni di benessere dallo spiccato accento propagandistico (Carlebach 1988). Ai reporter del tempo, al contrario, l’aporia del tentativo dell’ente era parsa evidente sin da subito. Salvati dall’automobile – che aveva funzionato da casa itinerante, portandoli fino in California –, i Toad raccontati di Steinbeck avrebbero conosciuto il disfacimento proprio all’indomani del loro arrivo. A dispetto delle prospettive di aggregazione offerte dagli insediamenti dell’FSA, molti dei labor migrants sarebbero rimasti soli; o avrebbero fatto ritorno a casa, non prima di aver perso contatto anche con il tessuto di relazioni più strette che li aveva accompagnati fin laggiù.


Note

[1] Francis Violich (1911-2005) si era laureato nel 1934 a Berkeley e aveva ottenuto il Master in City Planning a Harvard e al MIT nel 1937, grazie a una borsa di studio. Subito dopo la laurea aveva viaggiato in Europa e Yugoslavia. Vernon DeMars (1908-2005), laureato a Berkeley nel 1931, aveva iniziato a collaborare con le agenzie federali nel 1934. Dopo aver lavorato per la National Housing Agency nel 1943, nel 1947 diventa professore al MIT, e poi, dal 1953, al College of Environmental Design di Berkeley. Garret Eckbo (1910-2000) si era laureato a Berkeley nel 1935. Nel 1938 conseguì il master a Harvard, e dallo stesso anno avrebbe iniziato a lavorare per Norman Bel Geddes, autore del padiglione della General Motors alla World Fair del 1939. Del gruppo era originariamente responsabile Burton Cairns (1909-1939), prematuramente scomparso in un incidente d’auto.

[2] L’attività fotografica, lanciata dalla Resettlement Administration sotto la guida di Roy Stryker, nasceva con un duplice obiettivo politico: da un lato sensibilizzare la popolazione sul tema delle riforme lanciate dal New Deal, dall’altra rassicurarla sul loro buon esito.

[3] Probabilmente, l’entusiasmo manifestato di Al Toad nell’atto di scoprire un suo vicino mentre realizzava una casa su ruote derivava proprio da questa vocazione.

[4] Istanze di gestione comunitaria dei campi erano già emerse nei primi campi di transito – come a Weedpatch – senza che vi fossero, tuttavia, edifici o strutture progettati per questo scopo.

[5] Secondo DeMars, il primo insediamento su pianta esagonale è il campo di Wesley, in California, l’ultimo ancora privo di una rete fognaria.

[6] I garden cottages erano unità singole costituite da un doppio ambiente: una zona comune chiusa e una zona notte attigua, aperta sulla veranda. Prima che su «Pencil Points», i disegni furono pubblicati su un redazionale edito da «Architectural Forum» nel gennaio del 1941.

[7] A differenza dei colleghi Fran Violich e Vernon DeMars, Garrett Eckbo entrò a far parte del gruppo di progetto solo nel 1939.

[8] Oltre che pubblicati su «Pencil Points» e «Architectural Forum», editi entrambi nel 1941, i lavori dell’FSA furono esposti due volte al MoMA. La prima, in occasione della mostra Wartime Housing, del 1942, la seconda all’interno di Built in USA 1932-1944, nel 1944. In entrambe queste circostanze, molte delle immagini pubblicate o esposte, incluse le fotografie aeree, provenivano dal reportage di Dorothea Lange, appositamente commissionato dall’FSA per scopi di propaganda.

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