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Espegel

L’altra metà del cielo: architettura al femminile

Il libro di Carmen Espegel Donne architetto nel Movimento Moderno mette subito in chiaro, a partire dall’immagine di copertina, quale sia il carattere prorompente di questo lavoro, in cui l’autrice affronta un tema di grande complessità – fino a oggi forse non sufficientemente indagato – come quello del ruolo delle donne architetto nell’architettura moderna, che affonda le proprie radici nel periodo dei «pazzi anni ‘20», come l’autrice stessa li definisce. Il titolo in lingua originale Heroínas del espacio chiarifica, senza il bisogno di ulteriori aggiunte, il significato di questo primo assunto.

L’obiettivo di questa ricerca, «in parte archeologica», viene precisato fin dall’inizio: indagare la contraddizione esistente tra l’idea di «architettura diafana, trasparente, dinamica e moderna» e «l’esigenza di abitabilità, di intimità e di spiritualità dell’essere umano», che emerge come questione sostanziale all’interno delle ricerche teoriche e delle verifiche progettuali del Movimento Moderno, su cui si interrogano principalmente le donne architetto degli anni Venti e Trenta.

Il lavoro si presenta come una ricerca di carattere teorico-critico, oltre che come un’esplorazione monografica delle diverse figure protagoniste di questo periodo storico, inserendosi a buon diritto all’interno della collana Il pensiero dell’architettura, edita da Christian Marinotti e curata da Orsina Simona Pierini, che negli anni ha pubblicato importanti scritti di architetti italiani e internazionali.

Il libro si struttura secondo due macro sezioni, a loro volta suddivise in capitoli e sottocapitoli via via più specifici: una prima parte Donna e società dedicata a un’indagine critica rispetto all’evoluzione della figura della donna da un punto di vista sociologico e il suo ruolo all’interno dello sviluppo architettonico e urbano; una seconda parte Quattro cronistorie dedicata all’approfondimento di quattro «eccezionali pioniere» selezionate «sulla base di criteri personali dovuti a certe affinità e sintonie», come dichiara l’autrice.

La parte prima, che si pone come base di studio per rispondere all’interrogativo sulla ricerca di abitabiltà dell’architettura moderna che le donne architetto portano avanti all’inizio del secolo XX, si sviluppa a partire dall’indagine dell’«idea primordiale di casa, la donna-costruttrice, l’habitat umano, gli archetipi ereditati e la vita quotidiana nella sfera privata». Carmen Espegel individua subito il tema attorno al quale si concentra la ricerca in architettura durante gli anni Venti e Trenta e cioè quello dell’abitare, argomento che l’autrice padroneggia in maniera eccellente come si può notare scorrendo le sue numerose pubblicazioni, delle quali è sicuramente utile ricordare le più recenti Textos crítcos e Amaneceres domésticos, dove si può riscontrare un’ampia trattazione di questi temi.

Questa prima sezione risulta essere di fondamentale importanza per comprendere la portata di questo lavoro e fornisce un approccio più ampio, rispetto alla sola sfera architettonica, per inquadrare in maniera più esaustiva il tema. L’autrice adotta infatti un metodo d’indagine sincretico, che si muove attraverso diverse discipline quali antropologia, sociologia, psicologia, filosofia e arte, senza rinunciare ad uno sguardo politico sulle diverse questioni.

Le riflessioni hanno origine da una visione della casa, a cui è attribuito un «carattere uterino» da un punto di vista formale-spaziale, come architettura archetipica della donna, arrivando ad un’analisi generale dell’habitat umano secondo un’ottica antropologica.

Non mancano le sperimentazioni fatte con un gruppo di studenti della Scuola di Architettura di Madrid, in cui vengono effettuate delle analisi tipologiche di alcuni modelli di insediamento di origine antica per arrivare a sostenere l’esistenza di una corrispondenza tra i modelli di abitazione di carattere matrilineare con i modelli di abitazione moderna. A questi seguono ulteriori studi di carattere tipologico che dimostrano la centralità delle donne rispetto all’evoluzione spaziale degli ambienti domestici nel corso della storia, a partire dall’epoca preistorica fino ai primi decenni del Novecento.

Con l’avvento del nuovo secolo, la casa rappresenta quindi il luogo primario per lo sviluppo della vita dell’uomo moderno, un luogo che, soprattutto in seguito ai tragici avvenimenti della Prima Guerra Mondiale, necessita di una sua ridefinizione all’interno di una più ampia riorganizzazione del sistema dei valori sociali e morali del periodo postbellico. La casa costituisce dunque il riflesso ideologico dell’individuo che la abita, la cui organizzazione e significazione spaziale rappresenta l’immagine speculare del proprio impegno intellettuale.

Esaminando la seconda sezione del libro si può comprendere quale sia stato il contributo sostanziale che le donne architetto del Movimento Moderno hanno portato alla ridefinizione dello spazio dell’abitare, sul piano sia teorico sia operativo.

Vengono analizzate quattro figure: Eileen Gray, Lilly Reich, Margarete Schütte-Lihotzky e Charlotte Perriand; personaggi che, pur avendo storie personali dalle diverse sfaccettature, mostrano una serie di aspetti in comune.

Queste pioniere, assieme ad altre colleghe coetanee che vengono qui semplicemente citate, si sono introdotte in punta di piedi nella scena artistica e architettonica degli anni ‘20, intrattenendo rapporti molto stretti con diversi maestri del Movimento Moderno e, tramite un approccio iniziale comprensibilmente cauto, sono riuscite ad esprimere coraggiosamente la propria opera, sempre attraverso scelte guidate da forti principi etici, riscattando la figura della donna da un punto vista sociale, intellettuale e professionale.

Eileen Gray, donna di origini irlandesi dal carattere fortemente indipendente, fu artista e architetto strettamente legata all’ambiente parigino e in particolar modo alle figure di Jean Badovici, architetto e critico dell’architettura, fondatore della rivista L’Architecture Vivante, e Le Corbusier. Della sua opera è importante ricordare le ville E. 1027 e Tempe à Pailla, in cui emerge il carattere innovativo del suo lavoro, supportato sempre da un forte costrutto ideologico per cui Gray «considera le “dure leggi del meccanicismo moderno” come una transizione necessaria, anche se eccessivamente teorica, intellettualista e fredda. Auspica il ritorno all’emozione, al pathos, ai sentimenti e all’emotività in architettura, ma purificati attraverso la conoscenza; si dichiara contraria alla semplicità e alla semplificazione grossolana; suggerisce di aggiungere alle formule razionaliste del Movimento moderno, per arricchirle, la vita, ciò che è vitale (spirito e cuore), “facendo penetrare il reale nell’astrazione”, rifiutando il rigido dogmatismo della corrente principale del Movimento Moderno».

Lilly Reich, berlinese di nascita, dedicò la propria carriera principalmente alla progettazione di interni e soprattutto all’architettura degli allestimenti, campo in cui il suo contributo fu di fondamentale importanza anche per gli sviluppi futuri. Sono note la sua partecipazione attiva all’interno Werkbund e la collaborazione con il Bauhaus. La sua figura è da sempre legata a quella di Mies van der Rohe, maestro di grande rilievo per la sua formazione professionale e intellettuale da cui Lilly Reich cercherà tuttavia di mantenere sempre una propria dimensione indipendente. Tra le sue maggiori opere, in particolare quelle di carattere allestitivo, è utile ricordare Dalla Fibra al Tessuto, Sala del Vetro, Caffè di seta e velluto, Popolo tedesco, lavoro tedesco, realizzazioni in cui si può riscontrare come «Lilly Reich ha elevato la progettazione di esposizioni a forma d’arte e ha trasformato la disciplina mettendo in mostra in modo drammatico gli elementi essenziali di un’esposizione, facendo di materiali e contenuti il tema principale del progetto espositivo in sé stesso».

Margarete Schütte-Lihotzky, donna architetto originaria di Vienna, ebbe una carriera connotata principalmente da un profondo impegno sociale e politico che pose alla base della propria opera. Formatasi con Tessenow e Hoffmann, ha collaborato nei primi anni ‘20 con Adolf Loos, ma di fondamentale importanza fu la collaborazione con Ernst May per la progettazione della Neue Frankfurt, come membro del Hochbauamt (Dipartimento di Costruzioni), all’interno del quale progettò la celebre Frankfurter Küche, rivoluzionando la concezione della cucina come nucleo e polo generatore dello spazio domestico: «La sua opera fu strettamente relazionata con l’idea di Modernità, con le grandi riforme sociali e con l’aspirazione ad un nuovo ordine socio-economico. Dedicò l’esercizio della professione e l’investigazione teorica alla progettazione di case per le classi sociali meno fortunate».

Charlotte Perriand, parigina, il suo nome è strettamente legato a quello di Le Corbusier e di Pierre Jeanneret con cui collaborò per molti anni, durante i quali difese sempre la sua autonomia professionale ed ebbe modo di misurarsi con il progetto architettonico alle diverse scale, da quella dell’arredo a quella della città. Si fece riconoscere per uno spiccato talento progettuale, soprattutto per l’arredo, e una fede incondizionata verso la nascente società meccanicista tanto da rifiutare tutto ciò che aveva un carattere tradizionale, materiali compresi. Queste posizioni verranno riviste negli anni più maturi, a partire dalla fine degli anni ‘30 ma soprattutto negli anni del Secondo dopoguerra, periodo in cui, anche attraverso il consolidamento della collaborazione con Jean Prouvé, nel suo lavoro convergono tutte le precedenti indagini su architettura, prefabbricazione, standardizzazione, industrializzazione e materiali. Delle sue opere sono di grande importanza il Bar sous le toit, gli interni del Pavillon Suisse, il prototipo di cucina per l’Unité d’Habitation, il complesso montano Les Arcs, oltre ai numerosi arredi: «Perriand riteneva che fossimo stati sorpassati dall’evoluzione della macchina e che le questioni architettoniche fossero spesso poste “in termini di forma e non di necessità”. I suoi interni riflettono, usando le parole con cui Hegel descrive la pittura olandese, la “domenica della vita”. Le sue opere ci rivelano “lo spettacolo di tutto ciò che esiste nell’uomo, nello spirito e nel carattere umano”. Attraverso di esse possiamo imparare a conoscere la natura morale dell’uomo».

Il libro di Carmen Espegel, lontano da qualsiasi tipo di retorica oggi facilmente spendibile, si configura come un importante lavoro di ricerca dall’alto contributo scientifico nel campo dell’architettura: «oggi, insistiamo, rivolgere lo sguardo verso le conquiste di alcune donne del passato non è una nostalgia passatista, né una forma di femminismo radicale rivendicativo, ma una vera necessità storica di ricerca di modelli altri che servano a dare più dignità a tutto il genere umano».

Andrea Valvason

Scheda libro

Autore: Carmen Espegel
Traduzione italiana di: Bruno Melotto
Titolo: Donne architetto nel Movimento Moderno
Lingua del testo: Italiana
Editore: Christian Marinotti
Collana: Il pensiero dell’architettura (a cura di orsina Simona Pierini)
Caratteristiche: formato 15x21 cm, 224 pagine, brossura, bianco e nero.
ISBN: 978-88-8273-183-0
Anno: 2021