Un condensatore sociale rurale. La fattoria collettiva di Nākotne come risorsa e come sfida

Yuliia Batkova, Laine Nameda Lazda



La collettivizzazione della Lettonia sovietica

Convenzionalmente, il periodo sovietico viene considerato come un tempo di riforme e di forte condizionamento ideologico. In questo contesto, emersero anche concezioni spaziali innovative e una varietà di architetture di grande originalità, come nel caso di alcuni kolchoz. Le aziende agricole collettive non furono il risultato di un’evoluzione graduale quanto piuttosto un’invenzione, la manifestazione fisica dell’ideologia dello Stato sovietico impressa nella struttura e nella forma dell’insediamento e del territorio.

Prima del periodo sovietico, il paesaggio della Lettonia era caratterizzato da una netta distinzione tra città e campagna: le periferie delle città principali erano trapuntate da fattorie isolate (Bell et. al. 2019). Per lo Stato sovietico, la trasformazione rurale della Lettonia attraverso la collettivizzazione avrebbe garantito un ritorno economico molto consistente. In questa logica, i kolchoz furono strumentali per l’affermazione del potere sovietico, dimostrandone al contempo i benefici effetti. Se, grazie alla standardizzazione, città e campagna potevano essere assimilate (Drėmaitė 2017), le aziende agricole collettive – insediamenti semi-urbani e semi-industriali – avrebbero formato una rete intorno ai grandi centri urbani modificando radicalmente il paesaggio rurale (Melluma 1994).

La standardizzazione ispirata ai principi del marxismo avrebbe dovuto incidere sulla società[1] (Meyer 1931); in questa prospettiva, l’architettura diventava una “scienza esatta” – non “l’arte di costruire” – finalizzata a ottimizzare l’organizzazione delle attività umane prefigurandone gli assetti spaziali. Non c’era alcun pathos artistico né alcuna enfasi espressiva nella progettazione di un edificio che doveva rispondere a un preciso programma funzionale e al conseguente dimensionamento. Sarebbe bastata la riduzione degli elementi standard a sollecitare soluzioni formali capaci di dare riconoscibilità e carattere alla socializzazione delle attività collettive di massa.

Le aziende agricole collettive erano progettate ad un tempo come impianti produttivi e come palcoscenici della collettivizzazione, dove rafforzare l’adesione alle dottrine socialiste. Gli agricoltori si radicarono nei rispettivi luoghi di lavoro e cominciarono a investire sulla qualità degli insediamenti, aprendo nuovi scenari. Da una parte, le crescenti pressioni fecero sì che le persone confluissero “volontariamente” nei kolchoz. Dall’altra, anche per attirare i piccoli proprietari, i kolchoz furono integrati da una varietà di servizi comparabili ai comfort della vita moderna delle grandi città (Kalm 2009).

In alcuni casi, questa ambiguità insita nei processi di formazione delle aziende agricole collettive produsse esiti inaspettati. Gli insediamenti semi-urbani che trapuntavano il paesaggio rurale avevano un carattere distintivo, ma difficile da decifrare perché si trattava di consolidare una nuova forma di società e di identità collettiva. Infatti, le aziende agricole collettive sono state considerate tanto come forme urbane quanto come modelli di vita collettiva ai quali corrispondeva una espressione architettonica distintiva. Ogni intervento radicale imposto dall’alto richiede una strategia (a monte) e spesso impone molti sacrifici ai soggetti coinvolti nel buon andamento dell’impresa. Trent’anni dopo il cambiamento del contesto geopolitico è più facile interrogarsi sulle trasformazioni attuate durante il periodo sovietico.

Lo Stato sovietico impose una saldatura tra il settore pubblico, il ciclo di produzione e la vita dei cittadini, continuamente esposti alla “formazione ideologica”. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, le strutture industriali e residenziali rimasero in funzione, mentre gli edifici pubblici destinati alle attività collettive andarono progressivamente in disuso. Nel 1991, dopo la proclamazione dell’indipendenza dei Paesi Baltici, gli insediamenti attraversarono una fase di stagnazione e i grandi edifici pubblici realizzati nei kolchoz rimasero lì a testimoniare le reciproche induzioni tra sfera sociale, assetti spaziali e forme costruite. 

La fattoria collettiva di Nākotne e il suo presidente

Fondata nel novembre 1946 a 65 km da Riga, Nākotne fu la azienda agricola collettiva realizzata nella Repubblica Socialista Sovietica della Lettonia (Būmane 1986). [Fig. 1] Nākotne è una testimonianza tangibile della collettivizzazione, non solo per il suo impianto urbanistico ma anche per la sua architettura. In questo caso infatti, anche grazie alla leadership locale, la standardizzazione non prevalse.

Lo sviluppo urbano ed economico di Nākotne cominciò nel 1966, quando Arturs Čikste assunse la carica di presidente. Con altre undici famiglie, i Čikste avevano fondato Nākotne e presto il giovane Arturs prese parte alla politica: leader della Lega della Gioventù Comunista nel 1947, nel 1949 ricevette il titolo di Eroe Socialista del Lavoro. Nel 1950, diventato membro del Consiglio Supremo della RSS Lettone e del Soviet Supremo dell’URSS, aderì al Partito Comunista (Būmane 1986). Questi ruoli gli garantirono una relativa libertà nella gestione dell’azienda agricola collettiva, e la possibilità di intervenire sull’assetto dell’intero complesso. Diventato presidente di Nākotne, Arturs Čikste non fu mai neutrale: faceva tesoro delle esperienze personali e professionali che lo stimolavano a innovare. In primo luogo, reindirizzò l’organizzazione dell’azienda, cercando di andare oltre la produzione agricola, che dal 1946 al 1966 era stata l’unica attività produttiva. Si assunse il rischio di ampliare la varietà dei prodotti, una scelta che generò una significativa crescita economica. L’idea era quella di diversificare la produzione per trasformare Nākotne in un’azienda agricola capitalista (Marsden et al. 1986). Dal punto di vista dell’organizzazione sociale, si discostò dal sistema tipico dello Stato sovietico, evitando le limitazioni alla libertà personale e culturale. A Nākotne si poteva accedere a un salario dignitoso e alla proprietà privata, una condizione che generò una forte domanda insediativa. Pienamente consapevole delle regole dello sviluppo strategico, Arturs Čikste selezionò per Nākotne i candidati più qualificati e contribuì al rinnovamento delle strutture locali, realizzate secondo principi di funzionalità senza rinunciare a una visione estetica moderna.

Nel 1967, alla ricerca di idee per lo sviluppo di Nākotne, Arturs Čikste si recò a Vilnius per visitare una mostra di giovani architetti lituani e, colpito dal giovane Henrikas Kęstutis Šilgalis (1944-2007), lo chiamò a Nākotne come architetto capo (1968-1979) [Fig. 2]. Il progetto di un’azienda agricola collettiva era un fatto politico prima ancora che una realtà fisica, e il presidente incarnava il potere esecutivo dello Stato sovietico. Il suo compito era quello di gestire l’architettura e l’assetto urbano in conformità con gli obiettivi economici, sociali e rappresentativi. Nel caso di Nākotne, l’azienda agricola collettiva diventò una manifestazione fisica della collaborazione tra il presidente e l’architetto capo.

L’architetto dissidente

Henrikas Šilgalis ebbe l’opportunità di realizzare i suoi primi progetti con l’aiuto di Algimantas Mačiulis (1931), capo dell’Istituto di Progettazione di Pubblica Utilità a Vilnius (Mačiulis 2009). Algimantas Mačiulis ebbe un ruolo importante nella formazione di Šilgalis, fortemente influenzato dall’architettura moderna e in particolare dall’espressività scultorea di Le Corbusier. Henrikas Šilgalis rifuggiva dal minimalismo tecnico e dallo spirito modernista, largamente prevalente nei paesi baltici sotto il dominio sovietico negli anni Sessanta (Dremaite 2017). Šilgalis riteneva che questo minimalismo non permettesse di riportare a un unico impianto architettonico i programmi funzionali specifici, ai quali corrispondeva una diversa espressione formale architettonica. Leonardas Vaitys, collega di Henrikas Šilgalis riteneva che gli edifici pubblici non potessero limitarsi a risolvere le esigenze funzionali, ma dovessero anche assumere un ruolo rappresentativo e simbolico che rispecchiasse la comunità locale (Vaytis 2003).

L’azienda agricola di Nākotne diventò per Šilgalis un banco di prova, dove sperimentare le sue idee di architettura, grazie alla libertà artistica che gli veniva accordata [Fig. 3a, 3b].

Il masterplan del centro

Alla fine degli anni Sessanta, dopo vent’anni dalla fondazione di Nākotne, Šilgalis progettò il piano generale per il centro. In questo contesto, l’architettura fu chiamata a dare espressione alla prosperità sociale ed economica dell’azienda [Fig. 4].

Negli anni Quaranta, prima dell'occupazione sovietica, la zona di Nākotne era caratterizzata da una rete di singole fattorie nel contesto di sistemi urbani e naturali, come il fiume Auce e le foreste [Fig. 5]. Il modello di collettivizzazione sovietica stabilito nel 1946 non era focalizzato sull’organizzazione interna del singolo insediamento (Dremaite 2017) e la pianificazione non prefigurava un sistema unitario. La collettivizzazione era basata su un modello urbano disperso e, col tempo, produsse una stagnazione dello sviluppo. Nel 1960, prendendo le mosse dalla configurazione naturale del sito, Šilgalis proposte una nuova zona residenziale e un nucleo pubblico dell’insediamento. La sua idea di un’organizzazione spaziale circolare [Fig. 6] avrebbe favorito come nuova centralità, unificando gli edifici preesistenti. L’introduzione di un unico punto focale contribuì a strutturare l’insediamento con una trama di relazioni, nella quale i singoli elementi potevano cambiare pur rimanendo collegati, sia funzionalmente che simbolicamente.

Il piano di Šilgalis per il nucleo centrale di Nākotne era ispirato dal pensiero strutturalista (Söderqvist 2010). I cluster di edifici pubblici e residenziali dialogavano tra loro, immersi nel paesaggio. I blocchi abitativi erano situati in una zona separata, offrendo ampio spazio privato. In questo modo, Nākotne integrato i luoghi collettivi e lo spazio più privato della residenza. Ogni edificio era progettato come un elemento indipendente collocato nel paesaggio. La zona della vita collettiva era una parte significativa della composizione spaziale.

Il Centro per lo Sport e la Cultura

Nell’ambito del piano generale di Šilgalis, Centro per lo Sport e la Cultura assumeva un ruolo da protagonista (1967) [Fig. 7]. Piuttosto che adattarsi mimeticamente all’ambiente circostante, il complesso emergeva per la sua dimensione e la sua monumentalità; era costituito da unità polivalenti autosufficienti, definendo due ambienti distinti: l'interno funzionale e l’esterno rappresentativo. La compresenza di diversi nuclei funzionali destinati alla comunità faceva dell'edificio un “condensatore sociale”.

Il tema del “condensatore sociale” può essere riportato al dibattito teorico e all’opera dei costruttivisti russi degli anni Venti (Meriggi 2014). In questo solco, l’organizzazione spaziale avrebbe catalizzato gli aspetti positivi e negativi della collettività e dell'individualità. Ritroviamo questa nozione nell’opera di Guido Canella, riferita alla progettazione di edifici pubblici che sperimentano la compatibilità tra funzioni apparentemente antitetiche. Questi impianti caratterizzati da un alto grado di sperimentalità miravano a favorire un senso di comunità, lasciando spazio agli incontri inaspettati (Chizzoniti 2020).

Nel caso Centro per lo Sport e la Cultura di Nākotne la compresenza di diverse funzioni fu affrontata come problema di composizione architettonica. I diversi nuclei di attività - sociali, culturali e amministrative - non erano semplicemente raggruppati e messi in relazione. La funzionalità e l’accessibilità erano generate dalla combinazione di diverse unità all’interno della singola struttura [Fig. 8]. Il grande edificio caratterizzato da un alto livello di complessità era chiamato non solo a rispondeva a bisogni essenziali della comunità, ma anche a plasmarne l’identità collettiva. L’impianto era incentrato su una pianta quadrata ruotata di 45 gradi con due assi di distribuzione principali [Fig. 9]. Tutti i nuclei di attività erano collegati da un efficiente impianto distributivo che orientava i flussi degli utenti. All'asse principale, chiaramente delineato, facevano da contrappunto le singole unità accessibili da ingressi dedicati. Considerando la dimensione inedita del complesso, che prevedeva una realizzazione in fasi successive, ogni singola unità era stata progettata per essere autonoma.

Il blocco centrale ospitava l’amministrazione, il centro culturale, il palazzetto dello sport, la piscina e la mensa. La scuola superiore, l’asilo, l’ufficio postale e l’ambulatorio erano collocati in unità separate. Questa organizzazione trasmetteva un’idea di unità compatibile con la presenza di utenze specifiche. L'asse principale culminava si conclude con lo stadio tribune semicircolari affacciate verso i terreni coltivati retrostanti. Nel suo complesso, questa megastruttura non aveva un “retro”, ma nemmeno una piazza centrale. Una serie di cortili aperti erano ricavati “per sottrazione” dal quadrato iniziale. In questo modo, lo spazio esterno permeava l’edificio.

Nākotne dopo il periodo sovietico

Con il crollo dell'Unione sovietica, l’utopia diventò un’eterotopia collettiva. Nākotne si era sviluppata nella Lettonia sovietica, dove l’insediamento e le attività produttive erano saldati in un unico organismo autosufficiente. Con il cambio di regime e la dissoluzione delle aziende agricole collettive, strutture come il Centro per lo Sport e la Cultura persero la loro ragion d’essere.

La tendenza attuale di concentrare i servizi pubblici nei grandi centri urbani pone un duplice problema: la dipendenza dei nuclei rurali dalle città e, d’altra parte, il progressivo degrado dei grandi complessi architettonici rurali, isolati e difficili da gestire (Hatherley 2015).

Mentre le aziende agricole collettive sono state viste come un fenomeno relegato alla storia del periodo sovietico, alcuni esempi testimoniano preziose lezioni. Nel caso di Nākotne emerge il rapporto virtuoso tra architetto e committente, capace di incidere sulla qualità della vita e sul destino dei suoi abitanti. Il progetto di Henrikas Šilgis nacque da una profonda comprensione della visione di Arturs Čikste, basata non solo sulla conoscenza del contesto sociale e politico, ma anche sulla reale disponibilità finanziaria. In questa collaborazione, in cui i ruoli erano chiaramente definiti, le idee di architettura andarono oltre il pensiero collettivista, anticipandone il superamento.

Prendendo le debite distanze dalle dottrine architettoniche del tempo, Henrikas Šilgalis adottò un approccio anticonformista orientandosi verso una ricerca progettuale basata su un percorso individuale (Vaytis 2003). Il caso di "Nākotne" dimostra che la questione dello “stile” è importante quanto le esigenze funzionali. La combinazione dei due aspetti portò alla creazione di un complesso di grande originalità che ha plasmato l’identità del luogo e della comunità di Nākotne.

La recente crisi sanitaria ha evidenziato la necessità di inclusività sociale, mentre la crescente privatizzazione dello spazio pubblico ha portato a pratiche di esclusione selettiva. È emersa la necessità di un dibattito allargato sull’accessibilità degli spazi collettivi, tra integrazione e diversificazione (Landman 2020). Nel frattempo, la società permeata dagli stili di vita urbani ha sempre più bisogno della vicinanza alla natura per mantenere l’equilibrio mentale e fisico (Nigrelli 2021). In questo contesto, la vicenda di Nākotne assume nuova rilevanza, proprio per la compresenza tra ambiente costruito e paesaggio naturale. Nākotne pone ancora molte domande e, dal punto di vista di un progettista, può essere vista come una sfida e una risorsa.

Note

[1] L’architettura non era considerata «l’arte di costruire e nemmeno un atto di composizione dettato dal sentimento», ma piuttosto una scienza, «un atto di organizzazione premeditata». «L’edificio in sé non è un'opera d’arte. La sua dimensione è determinata dalle dimensioni e dalle funzioni del suo programma e non dal pathos superficiale di qualsiasi guarnizione». Solo la «diminuzione della molteplicità degli elementi standard» avrebbe garantito l’elevazione del discorso alla sua «forma più alta» come «indicazione della costante socializzazione della vita nella massa».

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Intervista a Gunārs Valentīns Segliņš, ex capo della costruzione della fattoria collettiva Nākotne. 15.11.2021, online. Tutte le informazioni sono in possesso dell’autore.

Intervista a Juris Kaņepe, ex agronomo della fattoria collettiva Nākotne, 18.12.2021, Nākotne. Tutte le informazioni sono in possesso dell’autore.

Intervista a Silvija Zībarte, bibliotecaria locale della biblioteca Nākotne. 21.12.2021, Nākotne. Tutte le informazioni sono in possesso dell’autore.