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Avverto il lettore che questo scritto sarà del tutto
eccezionale sia per dimensioni che per contenuti. Recensione, secondo
la rubrica che lo ospita o articolo su rivista, secondo la lunghezza e
la natura di cui è fatto?
Questione non di poco conto se si considera che ciò coinvolge
direttamente le tematiche (non specifiche ma generali) che Roberta
Amirante affronta nel suo ultimo libro, ossia la questione dei prodotti
della ricerca scientifica in architettura (in particolar modo il
progetto) e la loro valutazione.
Sposando la causa e accogliendo l’invito dell’autore del
libro, di impostare un discorso comune e condiviso sulle tematiche
disciplinari, mi accingo a proporre qualche personale considerazione.
Anchʼio come lʼautore (p. 13) faccio parte di quella
“specie”[1] di 433[2] docenti “progettuali”
costituenti il gruppo che, oltre a interessarsi (per contratto di
assunzione), di ricerca, didattica e terza missione, si fanno carico
anche delle rivendicazioni sindacali, per così dire, ossia delle
azioni condivise a beneficio dellʼintera comunità scientifica di
appartenenza.
Anch’io come lʼautore appartengo alla sub-specie dei
tempopienisti “quei docenti che per scelta, caso o
necessità […] non fanno gli architetti, non si misurano
con la cogenza della realtà esterna, non costruiscono” (p.
19): anch’io faccio parte di quella comunità di docenti
già dottori (eterni) di ricerca in progettazione architettonica
(p. 22), proprio di quel dottorato, primo in Italia di cui lʼautore ha
frequentato il II° ciclo (io il XV°), fondato sulla
composizione architettonica (e per questo mi sento appartenente alla
sub-specie dei “compositivi”). Forse a questa comune
impostazione culturale, ancor prima che pedagogica, sono da far
risalire certe affinità e sintonie di vedute o ad una certa
condivisione di valori. Sono d’accordo sul fatto che il docente
rimane nella condizione di Doctorandus aeternus (p. 25) cioè di
soggetto che essendo predisposto mentalmente alla ricerca ne rimane
condizionato sempre e costantemente anche quando progetta, fa didattica
o dissemina risultati. E questo ad esempio è uno degli aspetti
di differenziazione da altre specie che sono menzionate come
interessate dal libro.
Anchʼio sono stato ammaestrato, nel senso che ho avuto un maestro
importante che mi ha impartito un’educazione nella disciplina
progettuale che ancor oggi reputo valida ed attuale.
Confesso di non aver mai letto l’articolo Abduzione e Valutazione[3]
a cui Roberta Amirante fa riferimento e che costituisce la prima
riflessione sul tema, poi ripresa e commentata anche nel capitolo
intermedio del libro (pp. 40-101).
Confesso anche di far parte di quell’insieme di persone che non
conoscevano prima il termine abduzione, che trovo particolarmente
adatto a definire un procedimento del tutto particolare come quello
progettuale.
Tecnicamente non sono ancora anziano (classe 1969, ma soprattutto
accademicamente), in ruolo come RU dal 2006 e professore di seconda
fascia dal 2014, in possesso di abilitazione a professore di prima
fascia, del settore scientifico disciplinare ICAR/14 dell’area
CUN 08.
Condivido la necessità espressa più volte
dall’autore di ricostruire la comunità disciplinare pur
nelle importanti differenziazioni in sub-specie, con l’obiettivo
di fornirne un’identità specifica, una
riconoscibilità che vada oltre quella di mera appartenenza
burocratica.
Il primo passo potrebbe essere quello di delinearne, soprattutto ai
giovani aspiranti, le caratteristiche, i livelli, le gerarchie, i ruoli
derivati da una disciplina, quella del reclutamento universitario,
articolata e complessa.
Demandando ciò ad un successivo momento, mi limito ad aprire e
chiudere una parentesi nel discorso al fine di fornire alcuni
suggerimenti nel credo profondo che attualmente una comunità
disciplinare non possa che andare nella direzione dell’Open
Science.
Ogni membro della comunità dovrebbe poter accedere ai database
per poter leggere, conoscere e valutare le pubblicazioni degli altri
membri. Chi ha fatto parte delle commissioni dell’ASN sa che
avere la possibilità di leggere i PDF delle pubblicazioni (sia
in riviste che in libri) di un determinato membro o aspirante tale
della comunità scientifica consente di conoscerne a fondo temi,
approcci, modalità di lavoro, ecc.
In tale database dovrebbero essere contenuti anche curricula, eventuali
progetti dimostrativi, candidature a finanziamenti PRIN, FIRB, PQ, ecc.
Un tale database consentirebbe anche di formulare ipotesi sulle
geografie culturali delle Scuole e seguirne l’evoluzione
generazionale.
Attualmente esistono alcuni parziali tentativi di costruzione di
comunità di studiosi basati soprattutto sui Social media: ResearchGate e Academia.edu
(i più diffusi ed utilizzati) hanno questo specifico scopo con
il grosso limite che non tutti li popolano e non tutti li utilizzano
(alcuni preferisco uno e non l’altro e viceversa). Anche lʼOpen Researcher and Contributor ID,
noto come ORCID servirebbe la causa e il MIUR aveva obbligato i
ricercatori italiani a creare un profilo prima di partecipare
all’ultima VQR con il risultato che tutti hanno un ID Orcid ma
nessuno lo popola di contenuti (le pubblicazioni).
Una sorte migliore è toccata a Reprise,
il Registro digitale di esperti scientifici indipendenti per la
valutazione scientifica della ricerca italiana del Miur anch’esso
oggetto di una forzosa iscrizione per legge almeno per gli studiosi
partecipanti al Prin 2017.
Qualcuno potrà obiettare che esiste già un database
ministeriale al quale fare affidamento noto come IRIS (in alcuni atenei
assume denominazioni differenti) che trasferisce automaticamente i dati
alla posizione del Cineca. Tale database, il solo ufficiale, è
utilizzato dal ministero per le elaborazioni dei dati, il calcolo dei
valori soglia, ecc., ma non è “aperto completamente”.
Che una comunità scientifica, per esempio la 08/D dei
progettisti, possa condividere, anche solo on line senza
possibilità di scaricare e stampare, le pubblicazioni sarebbe un
buon modo per conoscersi, intessere relazioni e, creare nuovi network.
Tale utilizzo, però, temo sia impossibile per le questioni
legate ai diritti di pubblicazione che gli editori gelosamente
detengono.
Potrebbe essere più semplice creare un “portale dei
progettisti accademici” (scritto così potrebbe far
arrabbiare chi da sempre è escluso dall’accademia e
rivendica un’esclusiva nella pratica del progetto) in cui far
confluire volontariamente tutte le informazioni che riportavo sopra e
mediante accesso ristretto da credenziali andare a consultare le
diverse posizioni.
Forse, potrebbe essere prerogativa dell’unica Società
scientifica attualmente operante nei tre settori 08/D, ProArch, con il
limite che anche se personalmente lo auspico, temo non arriverà
mai a coprire il 100% dei docenti in virtù della
volontarietà delle iscrizioni e, lasciatemelo dire, in
virtù delle fronde esistenti (al momento in cui scrivo, il 4
giugno 2018, gli iscritti sono 297 dei quali 68 non strutturati).
Considerando che 43 sono soci emeriti ne deduciamo che gli iscritti
strutturati sono 186 ossia meno del 50% del totale.
Lo stesso portale potrebbe raccogliere anche un elenco delle iniziative
che si svolgono nelle diverse sedi, cosa quanto mai opportuna per avere
un unico collettore in cui misurare il grado di attività della
comunità da utilizzare anche a scopi di programmazione. Sarebbe
bello poter dare ai dottorandi un calendario di tutte le iniziative
08/D e far sì che le stesse siano maggiormente partecipate.
Conoscersi significa attivare nuove opportunità di riflessione e
di condivisione dei temi che attualmente sono veicolate quasi
esclusivamente attraverso i network come ad esempio quelle che si
attivano per i Progetti di Ricerca.
Lo stesso portale potrebbe raccogliere anche un elenco di riviste con
dati utili per scegliere il luogo maggiormente adatto alla
pubblicazione, così come un elenco delle collane che si occupano
dei diversi temi disciplinari attive presso gli editori.
Riprendendo il filo del discorso sui temi del libro di Roberta
Amirante, oltre alle specie già delineate sopra faccio
parte di una specie ulteriore, più ristretta ma particolarmente
interessata all’invito, costituita dai direttori di rivista
(oltretutto on line, semplice, (relativamente) economica,
condivisibile, moltiplicabile nel senso di aperta cioè ad
accesso aperto dei contenuti, senza APF/APC[4]), scientifica secondo il
pronunciamento di due pseudo società scientifiche[5] (Proarch e
Vitruvio) e la ratifica definitiva di Anvur, dal sottotitolo evocativo
“Ricerche e progetti sull’architettura e la
città”. Se escludiamo i due termini che ne definiscono la
scala di intervento (ossia architettura e città) il sottotitolo,
una definizione di ambito di interesse della rivista che ne costituisce
la linea culturale, è composto dagli stessi termini del titolo
del libro in oggetto Progetto e Ricerca.
Per dare una prima risposta al capitolo Che fare? (p. 102 e segg.) è implicito, quindi, l’interesse personale mio e della rivista FAMagazine
al tema. Oltremodo la rivista è on-line, semplice, economica
(certamente di più di quelle cartacee), condivisibile,
moltiplicabile, (pag. 106) come indica l’autore ed aperta a
contributi progettuali.
Nella nostra idea di rivista del progetto è sempre stata
compresa e auspicata la possibilità di presentare/pubblicare
progetti: scavando negli archivi ci sono numerosi casi in cui uno o
più progetti e la loro spiegazione/descrizione sono
l’oggetto stesso dell’articolo: Renato Rizzi che racconta L’Alato, ossia il progetto per Il Teatro Shakespeariano di Danzica
(n. 27-28, 2014), Jonathan Kirschenfeld, già collaboratore dei
progetti americani di Aldo Rossi, che illustra alcuni suoi progetti
newyorkesi e Gino Malacarne con Un progetto per Padova. Piazzale Stanga e Via Venezia
(n. 27-28, 2014). Marina Montuori descrive un progetto di tipo diverso
ascrivibile ai progetti collettivi di ricerca PRIN, FIRB, eccetera con Eutopia urbana vs Smart City (n. 33, 2015) oppure con l’intero numero monografico (n. 23, 2013) dedicato alla Città in estensione,
Prin 2015 coordinato da Luigi Ramazzotti, così come Marina
Tornatora presenta un progetto collettivo didattico nell’articolo
Multiple-city e Smart-city OPEN-DOMINO nei territori marginali e interrotti dell’estremo sud (n. 33, 2015); Carlo Quintelli nel suo Campus e città. Il progetto Mastercampus
(n. 34, 2015) descrive l’esperienza di un progetto di ampia
portata, collettivo che è frutto di un’azione
autoriflessiva di una comunità di docenti.
Possiamo annoverare tra le categorie di autori che hanno presentato
progetti sia docenti-architetti che architetti-docenti, intendendo con
questo distinguo una determinata prevalenza nel rivestire l’uno o
l’altro ruolo: il docente-architetto è di norma accademico
strutturato a tempo parziale (figura sempre più rara a causa
degli stringenti vincoli burocratici) che si dedica sia
all’attività accademica che a quella libero-professionale;
al contrario l’architetto-docente è colui che dedicandosi
principalmente allo studio professionale accede ai ranghi accademici in
virtù di contratti di insegnamento, per cui non è di
ruolo (non è strutturato). Quest’ultimo di norma ha dato
dimostrazione attraverso le prove progettuali di una certa
qualità nel progetto tali da consentirgli un accesso ai
contratti di insegnamento per meriti teorico pratici (chiara fama). Ma
è possibile anche estendere questa differenziazione al mondo
accademico di ruolo: docente-architetto può essere colui che
prevalentemente si dedica alla didattica e al contrario
architetto-docente colui che si dedica prevalentemente
all’attività di progettazione. Un caso concreto di
pubblicazione di quest’ultimo tipo è l’articolo Il tempo come materiale da costruzione. Il museo delle collezioni reali sulla Cornisa di Madrid
(n. 35, 2016), una sorta di narrazione di come il lungo periodo di
progettazione e realizzazione del progetto abbia influito su alcune
scelte compositive ad opera del suo autore, il cattedratico
dell’ETSA Madrid Emilio Tuñón dello studio
madrileno Mansilla + Tuñón.
Ma giustamente Roberta Amirante si pone il problema di che tipo di
progetti possono costituire oggetto di valutazione. Ancor prima di una
risposta potrebbe essere utile analizzarli e costruire una tassonomia
di seguito appena accennata.
A seconda del numero di autori (singoli o collettivi) e se con
più autori bisogna esplicitarne la gerarchia non solo per
questioni di responsabilità (il ruolo del capogruppo è
nei concorsi questione di responsabilità, oltre che di
gerarchia); a seconda del luogo in cui sono stati concepiti
(universitari, di concorso, collettivi); a seconda dell’esito
concreto (realizzati o non realizzati); a seconda di un ulteriore
carattere possono essere Manifesto o dimostrativi; a ciò, poi
possono essere sommate le ulteriori caratteristiche di scala e
tipologia di intervento (urbani, architettonici, paesaggistici, ecc.).
Qualche logica perplessità mi rimane sul procedimento:
l’autore propone per la pubblicazione un suo progetto
scegliendone o meglio proponendone la struttura narrativa secondo uno
schema libero: schemi, schizzi, ecc. Un primo ostacolo è dato
dall’impossibilità di sottoporre il progetto (inteso come
prodotto da pubblicare) alla procedura di peer review che per
definizione deve essere anonima.
Aggiungo un tassello a dimostrazione di una particolarità,
quella del mondo del progetto che ha bisogno di esercitarsi su come
potersi valutare: alcune settimane fa un direttore di rivista
scientifica di classe A mi chiese se volessi entrare a far parte
dell’albo dei revisori-valutatori (altra specie di cui parla
Roberta Amirante nel suo libro, p. 27 e segg.). Al mio consenso mi
inviò subito un articolo depurato secondo i canoni di tutti i
riferimenti al suo autore, come se ne vedono molti nell’ambito
dell’architettura e ancor più nel mondo del progetto, di
analisi critica, commento di due opere di un noto
progettista-accademico tedesco. L’oggetto
dell’articolo era un progetto nella sua manifestazione di
architettura costruita Dopo averlo letto alla ricerca di qualche
elemento di bias, il ritrovamento del quale mi avrebbe indotto a
rinunciare all’incarico, mi sovviene il libro di Roberta e mi
interrogo su come posso valutare secondo i canoni della
scientificità disciplinare del progetto un tale articolo senza
essere influenzato, ossia manifestando neutralità ed equilibrio
(p. 27).
Concludo quindi questo ampio articolo-recensione annunciando una novità di FAMagazine. Ricerche e progetti sull’architettura e la città
ossia l’apertura nei prossimi numeri di una specifica rubrica
intitolata “Il progetto come prodotto di ricerca”, dopo
quelle già attive “Editoriale”,
“Articoli”, “Recensioni”, dedicata a riflettere
su come pubblicare e successivamente valutare il progetto come prodotto
di ricerca. Una rubrica la cui stessa forma di presentazione (del
progetto attraverso i disegni oppure delle riflessioni teoriche attorno
al progetto) è oggetto di sperimentazione. Del resto, già
nell’incipit della giornata di studi “Comunicare
l’architettura. La disciplina architettonica tra vecchi e nuovi
media” organizzata nel maggio 2018, di cui è in corso la
raccolta degli atti sotto forma di special issue di FAM, Lamberto
Amistadi ed io ci chiedevamo che forma dovesse avere una rivista del
progetto e se dovesse o meno ricalcare il format delle riviste
scientifiche comuni a molte altre discipline. Oppure, se vista la
particolarità e le esigenze del progetto tale rivista non
dovesse sondare forme nuove. Ciò coincide esattamente la
riflessione dell’autore quando scrive: “D’altra parte
è possibile che questa [ipotetica] rivista non assomigli per
niente a quelle che siamo abituati a considerare ‹riviste di
architettura›” (p. 81-82).
A questo e ad altri interrogativi speriamo di fornire risposte magari
parziali ed incomplete ma utili come contributo all’aumento della
conoscenza futura.
Note
1 Roberta Amirante utilizza il termine “specie” per
delineare gruppi target a cui questo lavoro potrebbe interessare. Sono
“specie” i docenti ICAR/14 che fanno parte della
“specie” allargata del macrosettore concorsuale 08/D;
ancora “specie” sono i docenti a contratto e gli aspiranti
docenti, dottorandi, ecc.
2 Strano a dirsi al momento in cui scrivo (6 maggio 2018) sono aumentati di ben 6 unità diventando 439.
3 In Op. Cit. n. 150, maggio 2014 e n. 151, giugno 2014.
4 Per APF/APC, Article Processing Fee / Article Processing Charge, si
intende il contributo di pubblicazione che molte riviste chiedono
all’autore a copertura dei costi di peer-review, di editing e
copyediting, di produzione, disseminazione e archiviazione
dell’articolo. Per le riviste open access pubblicate con licenze
Creative Commons è uno dei modi per rientrare dei costi. Nelle
discipline scientifiche il contributo di pubblicazione varia da poche
decine ad alcune migliaia di euro a seconda della qualità della
rivista (classificazione nel caso di settori non bibliometrici o Impact
Factor nel caso di aree bibliometriche).
5 Ci si riferisce all’epoca in cui come direttore chiesi ai
rispettivi presidenti (Carlo Magnani e Franco Purini) di esprimersi
sulla Scientificità. Successivamente Vitruvio non ebbe seguito e
ProArch da semplice associazione è diventata pochi mesi fa
Società Scientifica (l’unica in Italia dei progettuali)
presieduta da Giovanni Durbiano. L’autore del libro ne accenna a
pag. 30.
Enrico Prandi
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