Scandalo del limite e anestesia della forma nella società a-mortale.
Io celebro di John Hejduk, una formula oltre la morte
Susanna PiscellaLa cultura del nostro tempo rimuove progressivamente il concetto di limite. Persino la morte, limite per eccellenza, un tempo acme della grande tradizione architettonica (piramidi, tholoi, mausolei, monumenti funebri, etc) è oggi ridotta a un intralcio, a qualcosa di scandaloso. Malattia degenerativa da curare con accanimento e da tenere nascosta con ipocrisia persino al moribondo, come ricorda la lunga agonia di Ivan Il’ich. La fine è sempre di più una questione altrui; spettacolarizzazione, o tanatologia. La medicalizzazione preventiva diviene la priorità di una società che aspira a eliminare il confronto con il limite, a divenire a-mortale (Illich 2009). Ma, di fatto, la rimozione è impossibile. Se infatti la tecnica oggi promette una progressiva eliminazione dei limiti umani, tuttavia dolore e morte sono inestirpabili. E quando l’architettura smette di riflettere su dolore e morte, assume la stessa natura automatica e procedurale della tecnica, alla quale è oggi delegata ogni autorità del progetto. Dispositivi normativi, di sicurezza che, come dice il nome stesso, sine-cura, ci esonerano, da ogni responsabilità. Finanche dalla vita stessa. Perché proprio attraverso la cura passa la nostra attenzione, il nostro esserci. Più tentiamo di cancellare il dolore, più si dilata in noia, neutralizza ogni differenza (Jünger 1997).
Se non siamo più in grado di accettare la nostra fine, come possiamo immaginare un’architettura che sia in grado di accogliere o rappresentare qualcosa che noi stessi rifiutiamo? L’emergente costruzione di aule del commiato e case funerarie proietta sulla morte un tentativo di rimozione. Non più una specifica tipologia architettonica, ma un’oscillazione tra il tipo abitativo e quello commerciale. Un ibrido che testimonia la distrazione, quasi l’imbarazzo alla base del concetto. Ambienti che sono il prolungamento di quello spazio clinico-asettico in cui la morte si è materialmente consumata.
Zone neutre, pensate più per minimizzare che per confortare. Quasi nell’estremo tentativo di anestetizzare il dolore in chi resta. Architettura anestetica per una società che deve ridurre la propria sensibilità, standardizzarla. Mentre proprio la morte è quel limite che ci umanizza. Se tentiamo di rimuoverla, se smettiamo di pensarla, finiamo soppressi, spazzati via alla stregua di oggetti, di cose (Paz 2013, pp. 44-49).
John Hejduk, a dispetto del suo tempo, rimette al centro della vita, e dell’opera, proprio la morte. Quale è sempre stata. Perché la nostra singolarità non può che inscriversi nel suo mistero. Hejduk, come un Virgilio del nostro tempo, ci accompagna proprio nell’abisso del dolore e della morte, svelandoci l’unico modo per non soccombere: celebrarli. Ostinatamente. La sua opera non dimostra nulla, celebra ogni cosa. Traduce nel progetto le parole di Rilke: «Dimmi qual è il tuo compito poeta? -Io celebro-. Ma il mostruoso e il terribile, come lo accetti, come lo sopporti? -Io celebro» (Cacciapaglia 1990, p. 183). Hejduk affida ai versi, forma liturgica della parola, la sua eredità teorica. Al loro metro, la scala dimensionale delle sue figure di progetto. All’architettura, il compito di risvegliare nella materia la distanza tra noi e il mondo, e il mistero. Morte apre la poesia n. 1, Il Sonno di Adamo1 e chiude l’ultima, la n. 158, Sentenze sulla Morte2. Marca gli estremi all’interno dei quali si muovono tutte le sue forme. Persefone, Euridice, Medusa, Ade, Cristo crocifisso e sua Madre, Santo Stefano lapidato, San Marco trafugato, Jan Palach arso e sua madre, gli uccelli di Braque, Marat nella vasca da bagno, etc. Le poesie riaccendono il tema della morte attraverso le diverse sfumature della forma. Le oltre cinquecento figure architettoniche tratteggiano altrettante modalità del limite, esperienza che si imprime nella forma e la ri-direziona. Per fare questo mette in atto un dispositivo inesplorato, lo sdoppiamento di ogni architettura in oggetto (il progetto in sé) e soggetto (l’emotività che lo anima). Alle 67 architetture di Victims, alle 68 di Lancaster Hanover Mask, alle 73 di Berlin Night corrispondono altrettante anime, ciascuna con un proprio genere, carattere, passato. Per esempio il Physician, soggetto dell’Office Tower (Hejduk, 1986, fig. arch. n. 19) rappresenta l’ossessione di non riuscire a distinguere all’interno del proprio corpo il peso del proprio cuore; il Mechanist, soggetto architettonico del progetto Box Car Parts (Hejduk 1986, fig. arch. n. 9), ha la vista sbiancata per sempre dallo shock della bomba atomica, etc. Ogni soggetto si pone in risonanza con gli altri, prolungandone i movimenti, dando vita a una continuità (una comunità) nella quale i limiti di ciascuno costruiscono il senso dell’opera, la sua particolare direzione, vocazione.
Delle oltre cinquecento figure architettoniche, almeno una quarantina sono dedicate esplicitamente alla morte. Che è sempre doppia. Morte di chi se ne va, ma soprattutto morte di chi rimane a convivere con il dramma emotivo della perdita. Hejduk recupera nel nostro tempo la sensibilità di una tradizione architettonica che per secoli ha visto nel manufatto funebre la sola possibilità di fare architettura. Il progetto Cemetery for the Mothers of the Children (Hejduk 1997, p. 17) accoglie le madri che hanno perso i propri figli. Un cimitero realizzato per chi, seppure in vita, vive ogni giorno l’esperienza della morte. In House of the Mother of the Suicide (Hejduk 1997, p. 254) mostra come il corpo architettonico della madre del martire Jan Palach, sotto la pressione del dolore per la perdita, possa contrarsi al punto da divenire la tomba, il santuario vivente del figlio perso. La divaricazione degli aculei appuntiti: l’attimo incendiario del ragazzo. La fissità verticale degli aculei spuntati: il dolore inesauribile di sua madre. Anche nelle poesie risuona la stessa sensibilità, a fare della parola e del disegno un unico progetto: «il vuoto / della tomba di Cristo / rifletteva il vuoto / del cuore di sua madre» (Rizzi, e Pisciella 2020, P. n. 68, vv. 1-4); «un turbamento scosse / sua Madre addormentata / il suo cuore si riempì di sangu» (ibidem, P. n. 20, vv. 31-33). Processioni funebri, crematori, tombe, cappelle, vie Crucis, cimiteri per i morti e per i vivi (Hejduk 1993, pp. 394-396), necropoli per le architetture mancate, etc. Perché la stessa aria che inaliamo ogni istante è la sommatoria di tutti i vivi e i morti dall’inizio dei tempi (Hejduk 1993 B.N. p. 18). Una sensibilità portata all’estremo e, allo stesso tempo, l’idea che solo la societas, il patto tra le generazioni, possa superare la morte garantendo una continuità. E qui appunto le comunità architettoniche di Victims, Vladivostok, Berlin Night, etc.
Riportare la morte al centro della riflessione significa allora tentare di recuperare la liturgia di una socialità più intima e profonda. Il progetto Town for the new Orthodox, una città di nuova fondazione per 18.000 abitanti pensata non lontana da Venezia, lavora esplicitamente a questo obiettivo. Nell’era della crescita illimitata, a-mortale, promossa dal mito della tecnica, questa città si auto-impone un limite temporale. La sua clessidra è il cimitero cittadino. Quando l’ultima delle 18.000 tombe verrà occupata, la città dovrà essere abbandonata. Un limite perentorio, la morte della città stessa. Tutta l’opera di Hejduk mette in atto uno sguardo obliquo rispetto al paradigma culturale dominante. L’io celebro (Hejduk 1990) fa collassare il concetto di tempo. Nell’epoca della costante assenza di tempo e dell’alienante accelerazione collettiva (Rosa 2015), la liturgia è la contrazione che sospende ogni cronologia. Supera l’assenza di tempo assumendo un tempo diverso, altrimenti misurato. Perché se l’illusione di una crescita illimitata produce individualità sempre più isolate, il limite è invece la contrazione che produce comunità. Anche in Victims il progetto assume una nuova temporalità, i 30 anni impiegati dai suoi alberi per crescere. Il tempo torna a essere scandito dalle generazioni, due cicli di 30 anni, il tempo medio di vita di un uomo. Questa circolarità risuona nella planimetria, inscritta all’interno del circuito dei binari di un trenino, come fosse all’interno di un fortino. Il passaggio periodico, circolare della locomotiva impone una nuova temporalità. L’orologio segna un’ora fissa, immobile. Accanto, la clessidra gira senza sosta. Collapse of Time infine, sancisce l’impossibilità di continuare a misurare il tempo secondo l’unità neutra, omogenea e illimitata dell’orologio, della cronologia. Ogni uomo contrae il tempo e lo spazio a modo suo. Limite, ma anche risorsa.
Le architetture di Hejduk fanno esperienza del dolore, condizione necessaria per il recupero della sensibilità della forma. The sound of a book can only be heard internally (Hejduk, 1995 Architectures in Love*) la serie Basic Elements (Hejduk, 1995, A.F. pp. 138-145), le copertine stesse -fronte e retro- di Architectures in Love che corrispondono al progetto Seville Structure (Hejduk 1995 A.F. pp. 216-220), espongono architetture infilzate da parte a parte, inermi, come l’anatomia del San Sebastiano del Mantegna. Verso la fine degli anni Novanta, Hejduk elabora un triplice programma sul tema della metafora del corpo trafitto: Lines No Fire Could Burn (poesia), Sanctuaries (pittura) e Cathedral (architettura). Tre dimensioni dello stesso progetto, che ha come denominatore comune la corporalità, in quanto nel corpo si raduna ogni esperienza, l’essenza della spiritualità. Il primo, Lines No Fire Could Burn, 1999 (74 poesie) rielabora il tema della Passione: le ferite inferte sul corpo di Cristo, le diverse intensità del dolore, il suo proiettarsi sul paesaggio esterno, fino allo spegnersi di tutti i colori alla sua morte. Nel secondo, Sanctuaries, 2003 (32 tavole), la Passione diviene l’orizzonte fisso del mito, della storia. La struttura a U della scena, aperta verso l’alto, diviene il ricettacolo nel quale precipitano angeli, demoni, bestie. Qui è l’involucro a essere trafitto da saette e raggi luminosi. La metafora del supplizio si espande. Non è più solo la carne a essere martoriata, ma la scena stessa del mondo. Nel terzo, Cathedral (Hejduk 1997, pp. 140-159), l’ecclesia, metafora della vita, diviene il luogo in cui convergono tutti i soggetti architettonici del passato di Hejduk. Attratti con veemenza, s’incastrano nelle pareti della cattedrale, forandole, ferendole. Come se il corpo materiale della cattedrale manifestasse una sua propria intima e arcaica sensibilità. Il tema del corpo trafitto traduce in architettura la necessità di riconoscere la presenza ineliminabile del male. La necessità di rappresentarlo, per non esserne drammaticamente sopraffatti. Ecco allora l’enfasi sul Crocifisso di Christ Chapel (Hejduk, 1997 pp. 188-209), dove l’azione di innalzamento della Croce è riaperta nella sua unità, quasi a generare una sub-Via Crucis interna all’atto di verticalizzazione del Crocifisso. Un po’ come i progetti architettonici per ¼ House, ½ House, ¾ House (Hejduk 1985, pp. 258-273), la Christ Chapel è una declinazione di questa apertura dell’unità chiusa dell’immagine. La geometria, anche qui, non svolge un ruolo meramente grafico, piuttosto serve a misurare i diversi coefficienti di intensità della scena, a registrare i gradi del dolore del corpo di Cristo. La Croce si alza muovendosi come un compasso. Tre posizioni: zero, quarantacinque, novanta gradi. Un rallentamento che è condizione necessaria per l’intensificazione della visione. Giunto alla verticalità «la sua visione si capovolse / per la prima volta / avvertì il peso / della propria anima» (Rizzi e Pisciella 2020, p. 285). Le posizioni della sua rotazione trafiggono il soffitto della cappella, producendo precisi punti di luce a illuminare il corpo martoriato. Una rinnovata liturgia del trapasso, che risuona anche nei tre progetti dedicati alla Via Crucis. Journey I, Journey II, Journey III (Hejduk 1997, pp. 226-253) riaprono infatti la riflessione sulla singolarità del dolore, sulla sua non trasferibilità. Tredici stazioni, luoghi della solitudine. In Journey I le tredici stanze si susseguono a grappolo come una lenta salita al Golgota; in Journey III si snodano lungo un percorso lineare dove le tredici scene sono rappresentate da altrettante opere medievali della Passione.
Come fosse un segmento di pellicola filmica ritrovata. Hejduk propone all’osservatore un esercizio di concentrazione, di intensificazione della visione, affine al lavoro di Sant’Ignazio di Loyola. Nei versi delle sue poesie 4-77 (Rizzi e Pisciella 2020) risuonano i versetti degli Esercizi Spirituali, uno sforzo oltre l’umano per visualizzare l’estremamente remoto, l’invisibile. Ma con dettagli di altissima precisione, come nel passo «I discepoli sollevarono la tovaglia bianca / gonfiandola sopra il tavolo / la stoffa fu tirata bene / poi abbassata / comprimendo l’aria tra il panno e il legno» (Rizzi e Pisciella 2020, p. 275). Nella poesia n. 27 Lo spazio rimanente, Hejduk riesce persino a entrare nella sala dell’Ultima Cena dopo la sepoltura di Cristo. L’empatia è massima. La porta è sprangata. All’interno, la tavola è ancora apparecchiata. La tovaglia bianca, macchiata dal vino rosso dell’ultima cena, trasmuta nel lenzuolo del sudario di Cristo. Una tavola apparecchiata per il commiato. Un Apparecchio alla morte (Sant’Alfonso M. de’ Liguori, 1993) che, come molte altre opere della grande tradizione cristiana, per secoli ha riconciliato la morte con la quotidianità, facendo della vita il tempo della sua preparazione. Precetti per incardinare un ritmo liturgico nella cronologia omogenea e anonima del tempo. Preghiere per spingere in profondità, nell’intimità, il senso di condivisione contro un male comune. La comunità. Proprio attraverso dolore e morte Hejduk risveglia nella forma la vita, il suo enigma. Celebra il miracolo dell’ordinarietà dell’umano, quella singolarità che passa proprio attraverso i suoi limiti, senza i quali si apre il deserto sconfinato e indistinguibile della tecnica. L’architettura è nata come forma liturgica della morte. Riattraversandola, può oggi rigenerare la sua struttura simbolica, il suo senso. Il limite è l’unica condizione in grado di impostare la liturgia dell’opera, la sua intensità.
*il libro è privo dei numeri di pagina
Note
1 «In quel preciso momento / si illuminò / il corpo / dall’interno (1. vv. 1- 4) La pelle di Adamo era appesa / alla forma di Eva / quando Dio la liberò / da Adamo / Morte si precipitò all’interno / impedendone il collasso» (vv. 69- 75).
2 «La morte aspetta vivendo nel nostro tempo» (158. v. 151). «L’altezza della porta di una casa è per l’ingresso dell’uomo; la larghezza della porta di una casa è per l’uscita dell’uomo. Una dimensione per la vita, l’altra per la morte» (158. v. 156). «Le parole del poeta sono incomprensibili per la morte» (158. v. 165). «Morte costruisce la sua città sottoterra» (158. v. 215). «La dimensione di Morte è una sola» (158. v. 232).
Bibliografia
BENJAMIN, W. (2010) – Aura e choc.
Adelphi Edizioni, Milano.
BRUNO, G. (2000) – De Vinculis in Genere
in Opere Magiche. Adelphi, Milano.
CACCIAPAGLIA, G. (1995) – Dimmi qual è
il tuo compito in R. M. Rilke. Sonetti a Orfeo. Studio
Tesi, Pordenone.
CALASSO, R. (2010) – L’ardore.
Adelphi Edizioni, Milano.
HEJDUK, J. (1985) – Mask of Medusa.
Rizzoli, New York.
HEJDUK, J. (1986) – Victims, Architectural
Association, Londra.
HEJDUK, J. (1990) – Oslo Night. Lezione
alla Columbia University, New York.
HEJDUK, J. (1992) – The Lancaster/Hanover Masque.
Architectural Association, Londra.
HEJDUK, J. (1993) – Soundings. Rizzoli
International, New York.
HEJDUK, J. (1993) – Berlin Night. Nai
Editor, Rotterdam.
HEJDUK, J. (1995) – Adjusting Foundations.
Monacelli Press, New York.
HEJDUK, J. (1995) – Architectures in Love,
Rizzoli International, New York.
HEJDUK, J. (1997) – Pewter Wings, Golden Horns,
Stone Veil. Monacelli Press, New York.
HEJDUK, J. (1998) – Such places as memory.
Monacelli Press, New York.
HEJDUK, J. (1999) – Lines no fire could burn.
Monacelli Press, New York.
HEJDUK, J. (2002) – Sanctuaries.
Whitney Museum , New York.
HUGO, V. (1998) – William Shakespeare.
Aktis Editrice, Piombino.
ILLICH, I. (2009) – La perdita dei sensi.
Editrice Fiorentina, Firenze.
ILLICH, I. (2013) – La convivialità.
Il Castello Edizioni, Milano.
JÜNGER, E. (1997) – Sul dolore,
in Foglie e pietre. Adelphi, Milano.
LIGUORI, S. A. (1995) – Apparecchio alla morte.
Gribaudi, Milano.
LOYOLA, S. I. (2015) – Esercizi spirituali.
Apostolato della preghiera Ed, Bergamo.
MELVILLE, H. (1991) – Barthleby lo scrivano. Feltrinelli,
Milano.
PAZ, O. (2013) – Il labirinto della solitudine.
Abscondita, Milano.
RIZZI, R, PISCIELLA, S. (2020) – John Hejduk.
Bronx. Manuale in versi. Mimesis Edizioni, Milano.
RODIN, A. (2017) – Le Cattedrali di Francia.
Castelvecchi, Roma.
ROSA, H. (2015) – Accelerazione e alienazione.
Einaudi, Torino.
SIASCIA, L. (1998) – La medicalizzazione della vita
in Cruciverba. Adelphi, Milano.
TOLSTOJ, L. (2014) – Ivan Il’ich.
Feltrinelli, Milano.
Refback
- Non ci sono refbacks, per ora.

This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International License.
![]() | FAMagazine. Scientific Open Access e-Journal - ISSN: 2039-0491 ©2010-redazione@famagazine.it |