Esposito

Mundus. Fundus. La fossa che connette sotterraneo e celeste

Roberta Esposito




«Mundo nomen impositum est ab eo mundo qui supra nos est: forma enim eius est, ut ex his qui intravere cognoscere potui, adsimilis illae»1.
Catone, Commentaria iuris civilis.

Il mondo di sotto e il mondo di sopra, corrispondenti alle due dimensioni del sotterraneo e del celeste, dalla stessa forma, l’uno lo specchio dell’altro – come sostenuto da Catone nei suoi Commentaria iuris civilis e poi riportato da Festo in De verborum significatu (II sec. d.C., L. 44, 14-21) – sono posti in collegamento tramite la cavità, nel senso di varco, del mundus.

La parola, nonostante l’etimologia molto discussa2, si fa corrispondere, dunque, all’elemento capace di mettere in connessione le due sfere delle tenebre e della luce, e di consentire l’attraversamento dall’uno all’altro spazio. In questo senso, si sostiene la tesi del glottologo italiano Vittore Pisani, il quale, riprendendo la succitata definizione di Catone, sostiene che il mundus sotterraneo e il mundus che sta al di sopra delle nostre teste, oltre ad avere la stessa forma, siano indicati dalla medesima parola. Il lemma mundus non si sdoppia in due voci omofone, una indicante la terra e l’altra la volta celeste, ma corrisponde a una unica parola che significa i due opposti della terra e del cielo, e si concretizza nell’elemento che ne consente il collegamento.

La parola mundus rappresenta effettivamente il passaggio dal sotterraneo al celeste e viceversa, ossia la connessione verticale tra le due dimensioni del sotto e del sopra. Pertanto, il mundus può condurre al mondo sotterraneo, e, contemporaneamente, pensato sottosopra, corrispondere all’apertura che volge verso la volta del cielo. Si sostanzia, in altre parole, una relazione di reciprocità tra le due dimensioni: il mundus dal profondo dà sul mondo dei vivi e, all’inverso, dalla luce conduce all’oscurità dell’abisso (Georgescu 2019, pp. 206-223).

La forma che materializza questa connessione corrisponde a quella della fossa. Il linguista francese Joseph Vendryes (1914, pp. 305-310) ha relazionato la parola mundus alla parola fundus, “fondo, terra”.

Tale fossa ha sezione allungata e dalla parte del fondo della terra la sua costruzione si spinge fino ad arrivare ad solidum, ossia allo strato di roccia sotto il manto di terriccio, mentre, dal lato verso il cielo, ha la possibilità di aprirsi o chiudersi tramite la pietra definita manalis lapis. La sua sezione, dato il coperchio di pietra rimovibile, doveva essere piuttosto piccola, probabilmente non più grande della bocca di un pozzo.

Le fonti antiche distinguono però due differenti mundus: la fossa di fondazione della città e la fossa del Mundus Cereris che collega il mondo dei morti con quello dei vivi e che non necessariamente viene scavata durante il rituale di costruzione urbana.

Le due cavità sono state spesso confuse e, conseguentemente, omologate. L’equivoco è nato a partire dalla collocazione geografica della fossa di fondazione della città di Roma. Plutarco (I sec. d.C., L. 11, 1), probabilmente ritenendo che la Roma dei Tarquini fosse la Roma delle origini, assimila il Mundus Cereris posto nel Comizio all’interno del Foro Romano alla fossa di fondazione urbica scavata invece da Romolo sul Palatino, come peraltro è riportato da Ovidio (9 d.C., L. 4, 810-24).

La fossa circolare di cui parla Plutarco, consacrata ai Mani e scavata nel santuario di Cerere, nel luogo che ora è chiamato Comizio, è sovrastata da una costruzione in mattoni – tutt’oggi visibile – alta 2 metri e dal diametro di 4,45 metri che, tramite un piccolo ingresso, consente l’accesso a un’area sotterranea che un tempo era impreziosita da marmi policromi. La fossa, risalente con molte probabilità all’epoca severiana perché posta tra i Rostra e l’Arco di Settimio Severo, era, come precisato ancora da Plutarco, considerata il centro del pomerium, cioè il solco sacro costituente il confine della città, tracciato con un aratro trainato da un bue e da una vacca.

Secondo Ovidio, invece, la città di Roma ebbe origine sul Palatino, pertanto il mundus di fondazione doveva trovarsi in quel luogo. La tesi è, oltretutto, confermata dalla scoperta dell’archeologo Andrea Carandini di una cinta di mura risalente al VIII secolo a.C. ai piedi del colle che ha riaperto il dibattito sulla datazione della fondazione di Roma ridando forza alla vulgata antica che indica il 21 aprile del 753 a.C. come nascita della città. Carandini (2006) ritiene che sul Cermalus, l’area antistante al successivo tempio della Vittoria, era dunque posizionata la fossa di fondazione della città di Roma, corrispondente a una tomba sulla quale sorgeva un’ara.

Il mundus, quale fossa di fondazione, veniva scavato al centro della nuova città dopo il tracciamento del limite urbano (pomerium) e all’intersezione dei due assi principali del decumano e del cardo che dividevano in quattro l’area destinata all’insediamento. L’operazione di scavo faceva parte di una sequenza rituale che inaugurava il nuovo luogo dell’abitare imitando, in una certa misura, l’atto primordiale della creazione del mondo. Come sostiene Mircea Eliade, «quando si prende possesso di un determinato territorio, cioè quando si comincia ad esplorarlo, si compiono riti che ripetono simbolicamente l’atto della creazione; la zona incolta è prima di tutto ‘cosmizzata’, poi abitata» (1968, p. 23). In altri termini, lo scavo per il mundus ripete l’atto cosmogonico, dacché «ogni costruzione è un inizio assoluto, cioè tende a restaurare l’istante iniziale, la pienezza del presente che non contiene nessuna traccia di storia.

Una costruzione è una nuova organizzazione del mondo e della vita» (Eliade, 1968, p. 23). Ordinare un territorio tramite il tracciamento dei suoi confini e della sua struttura realizza il passaggio dal non manifestato al manifesto o, per dirla in termini cosmologici, dal caos al cosmo. Il rituale di costruzione urbana conferisce al territorio una forma che lo rende reale. In questo scenario, l’atto della creazione avviene nel preciso punto urbano centrale. La fossa, quale Umbilicus Urbis, è posta al centro della città che è la zona del sacro per eccellenza, e l’accesso a tale nucleo equivale a una consacrazione, a una iniziazione. È sul mundus e intorno al mundus che la città viene fondata.

Diversamente, al mundus quale fossa di collegamento tra il mondo del sotto e il mondo del sopra era legato un altro rituale. In Simboli della tradizione occidentale, Julius Evola (1977), riprendendo gli studi di Mircea Eliade, riferisce il mundus all’accezione di Mundus Cereris, cioè alla fossa che separa e insieme connette il mondo dei morti e il mondo dei vivi. Il Mundus Cereris, coperto dalla manalis lapis, “pietra dei Mani”, veniva scoperchiato tre giorni l’anno nei quali si diceva che mundus patet, “il mondo è aperto”. Durante quei giorni i segreti della religione dei Mani, Dei della morte, erano portati alla luce e tutte le attività pubbliche dovevano essere sospese. Come riporta Ateio Capitone (5 d.C., L. 7) i tre giorni di apertura del mundus corrispondevano al 24 agosto (giorno successivo alla festa dei Volcanalia del 23 agosto e precedente alla festa agricola degli Opiconsivia del 25 agosto legata alla fine del raccolto e, conseguentemente, alla divinità Cerere), al 5 ottobre (tre giorni prima delle none di ottobre, legato allo Ieiunium Cereris, “il digiuno di Cerere”) e, infine, all’8 novembre (sei giorni prima delle idi di novembre e forse associato al triticum,
una varietà di farro che si seminava a novembre).

Il mundus ha, in questo caso, la capacità di unire i due mondi del basso e dell’alto solo quando la pietra che lo copre viene spostata. Il “coperchio”, come sostiene Giorgio Agamben in Quando la casa brucia (2020a), conferisce al mundus il ruolo di porta-serramento che, a differenza della porta-adito corrispondente a un varco costantemente aperto, dunque a una soglia di passaggio, può aprirsi e chiudersi separando uno spazio da un altro. Le due dimensioni della terra e del cielo hanno, dunque, la possibilità di essere indipendenti, fatta eccezione per i tre giorni l’anno in cui le barriere tra morti e vivi sono spezzate e viene riattualizzato il caos primordiale. In quel preciso istante il tempo è sospeso, la sua legge è annullata, si realizza cioè una coesistenza tra passato e presente.

Il rito, certamente dal carattere ctonio, ha chiaramente anche valenze agricole che richiamano fortemente il significato originario di Cerere quale Grande Madre.

Il rituale è stato spesso anche paragonato alla operazione di scavo e invocazione dei defunti compiuta da Ulisse nel XI libro dell’Odissea (Vinci 1995). L’eroe mitico che si reca all’Ade per interrogare Tiresia, il vate tebano che regge lo scettro d’oro, scava una fossa, vi versa dentro vino, miele, acqua e farina bianca, prega le anime dei morti e sgozza vittime sacrificali facendone colare il sangue all’interno della cavità. Il gesto fa emergere dalle buie profondità le anime urlanti dei morti che si affollano intorno alla fossa, così come accade nei tre giorni di mundus patet, durante i quali le anime dei defunti possono ritornare nel mondo dei vivi.

Si tende, in questo specifico caso, alla omologazione delle due fosse. Lo scavo, qualunque sia la sua funzione, con la sua forma realizza la transizione dal vano al concreto. «Nel centro si manifesta il passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita, dall’uomo alla divinità» (Eliade, 1968, p. 36).

Peraltro, negli scritti di Plutarco e Ovidio si apprende anche che, una volta scavata la fossa, venivano gettate al suo interno alcune primizie – per la verità Ovidio sostiene che la fossa veniva nuovamente colmata e su di essa eretto un altare rappresentante un novus focus, mentre Plutarco scrive di uno spazio sotterraneo completamente vuoto. L’atto del getto fa supporre a un collegamento, e magari a una unificazione, tra la fossa di fondazione della città e la fossa dedicata a Cerere (Mundus Cereris) che connette i due mondi del sotterraneo e del celeste. Le primizie si relazionano a Cerere la quale, prima di essere associata alla greca Demetra, è, come riporta Varrone, la Dea della crescita che si identifica con la terra madre – «Nec sine causa Terram eamdem appellabant (maiores nostri) matrem et Cererem» (37 a.C., L. 3, 1-5). Appare possibile, dunque, ipotizzare l’esistenza di un legame di Cerere con la costruzione di una nuova fondazione e con il mondo dei morti, sia che la si pensi nella sua veste più antica di Dea della crescita, sia che la si pensi con interpretazione greca nelle vesti di Demetra, Dea della morte e degli Inferi.

Molte fonti antiche non si pongono il problema di distinguere la fossa di fondazione dalla fossa di Cerere, facendo corrispondere il mundus sinteticamente alla totalità delle dimensioni. Per Festo «mundus appellatur coelum, terra, mare et aer», per Varrone, citato da Macrobio (430, L. 1, 16-18), «mundus cum patet, deorum tristium atcque inferum quasi ianua patet», e ancora, per Plinio il Vecchio il kòsmos dei Greci «nos eum a perfecta absolutaque elegantia mundum» (77-78 d.C., L. 2, 1.3-1.4).

L’unificazione delle due fosse è, peraltro, riscontrabile anche in studi più recenti. Secondo Mircea Eliade (1968, p. 31) il mundus romano che si tracciava attorno al luogo su cui doveva essere fondata una città, costituisce il punto d’incontro tra le regioni infere e il mondo terreno. O anche, come osserva Ludovico Quaroni ne La torre di Babele, le città romane erano «quadrate e spaccate in quattro da due strade principali, il cardo e il decumanus maximus, tracciate rettilinee e ortogonali fra loro tra le quattro porte, o meglio tra i quattro soli punti nei quali era interrotta la linea sacra di confine, il pomerium. All’incrocio del cardo e del decumano era il cuore della città, materializzato dal mundus, un’apertura nel terreno nella quale i fondatori poeticamente gettavano campioni dei prodotti della terra d’origine e che ogni anno veniva riaperta con i riti di propiziazione» (1967, p. 152).

L’apertura, come ancora sostiene Agamben stavolta in Gaia e Ctonia (2020b), scritto dedicato alle due rappresentazioni della terra, quella superna e quella infera, unisce «il presente e il passato ed è attraverso la relazione fra questi due mondi che diventa possibile orientare le azioni e trovare ispirazione per il futuro». In altre parole, le due divinità hanno necessità di convivere. Dunque la civiltà, per non finire in balia della paura, non può rimuovere il concetto di morte, poiché dal terrore della fine «potranno guarire solo coloro che ritroveranno la memoria della loro duplice dimora, che ricorderanno che umana è solo quella vita in cui Gaia e Ctonia restano inseparabili e unite».

Il necessario matrimonio tra la terra e il cielo non può che esplicitarsi attraverso l’Architettura. In questo senso, la connessione tra la dimensione dei morti e la dimensione dei vivi si traduce nella forma architettonica della fossa allungata dalla sezione circolare. Il mundus, la cui forma appare adeguata perché sembra rappresentare il filo ininterrotto che raccorda i due mondi del sotto e del sopra, viene realizzato operando uno scavo,
ossia la sottrazione di materiale dal pieno della terra in grado di generare un vuoto. La tecnica, più che una modalità costruttiva, equivale alla rappresentazione dell’architettura quale essenza della forma e del volume.

La fossa, tramite la purezza della sua forma, dà concretezza al passaggio dal mondo degli inferi al mondo terreno, e viceversa, consentendo al mondo presente di trovare ispirazione per il futuro. La forma del mundus, non utile ma necessaria, è capace di mettere in scena la coesistenza di morte e di vita, e di dimostrare che attraverso l’Architettura la vita umana possa aspirare all’eternità.

Note

1 Traduzione italiana: «Al mundus è stato dato questo nome per via di quel mundus che si trova sopra di noi: la sua forma infatti, come ho potuto apprendere da coloro che vi sono entrati, è simile a quella [del mundus celeste]».

2 Il Dizionario Etimologico della Lingua Latina Ernout-Meillet, pur riportando una serie di ipotesi relative all’origine e al significato del lemma, sostiene che l’etimologia di mundus non liquet.

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